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 2015  febbraio 27 Venerdì calendario

EMILIO ALESSANDRINI


QUANDO: 29 gennaio 1979.
DOVE: a Milano, in viale Umbria, all’incrocio con via Muratori.
VITTIMA: Emilio Alessandrini, 37 anni, magistrato. Viene assassinato mentre è in macchina, con otto colpi di pistola, di cui due alla testa. Nella sua carriera, scopre i campi militari delle Sam, le Squadre d’azione Mussolini.
Indaga sulla strage di piazza Fontana del dicembre 1969 (è il primo a rivelare la pista nera e le deviazioni dei servizi segreti). Segue le inchieste sulle Brigate Rosse. Alessandrini è esperto in diritto finanziario. Quando Viene ucciso, si sta occupando del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
MOVENTE: il giorno dopo la sparatoria, arriva la rivendicazione di Prima Linea: «Alessandrini è uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della Repubblica di Milano».
IL CASO È: (chiuso. Per il delitto sono condannati cinque esponenti di Prima Linea: Marco Donat Cattin e Sergio Segio, che sparano contro il magistrato; Michele Viscardi, Umberto Mazzola e Bruno Russo Palombi che fanno parte del commando.

L’ASSASSINIO DI UN GIUSTO–
Eugenio Tassini – L’Europeo 2006 n. 4

SERGIO SEGIO, leader di Prima linea, 31 dicembre 1978: «L’operazione Alex è scattata».
MARCO ALESSANDRINI, figlio di Emilio: «Mi ricordo una partita Milan-Inter, poco prima che sparisse. Non avrei mai pensato che fosse questo ciò che mi sarebbe rimasto di lui...»

LA VITTIMA
IL VOLANTINO di rivendicazione dell’assassinio: “Alessandrini è uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito in questi anni a rendere efficiente la procura della Repubblica di Milano”.
UMBERTO MAZZOLA, postino di Sesto San Giovanni, faceva parte del commando e coprì la fuga: «Perché si sia voluto uccidere Alessandrini io non lo so. Ricordo solo che da tempo in Prima linea si era deciso di attaccare la magistratura. La scelta di Alessandrini me la comunicò Sergio Segio. Ma io non ho partecipato a riunioni per preparare l’agguato, non ho mai discusso la scelta del magistrato da colpire. Alessandrini non sapevo chi fosse».
MASSIMO FINI, giornalista: «L’ho incontrato l’ultima volta, per caso, in via Manzoni. Mi parve turbato e invecchiato. Luigi Rocco Fiasconaro, il magistrato e amico con il quale aveva condotto l’inchiesta su piazza Fontana se n’era andato a Spoleto. Non so se anche lui covasse l’idea di cambiar aria. Parlammo comunque di Milano che era diventata invivibile, degradata, violenta e cupa e che non offriva più nulla. E di com’era diversa dai tempi in cui lui vi era arrivato, provinciale incuriosito dalla metropoli. Non so se temesse per sé. A me non lo diede a vedere. Forse non immaginava, lui che era schivo di ogni pubblicità e non amava il clamore, di finire sulle prime pagine di tutti i giornali, morto ammazzato come un cane».
WALTER TOBAGI, giornalista, ucciso dai terroristi nel 1980: «Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che si lascia copiare i compiti. Sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste. Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui “tutti si possono fidare, che non combina sciocchezze”».
ANATASIO DE LUCA, docente di latino e greco nella scuola frequentata da Emilio: «Era un ragazzo sereno e uno studente modello, il primo in tutte le materie e il più amato da compagni e professori».
ARMANDO SPATARO, primo pubblico ministero incaricato dell’indagine sul delitto: «La sua umanità era straripante: non c’era un Natale o una festa “raccomandata” in cui dimenticasse di andare a trovare il centralinista cieco del Palazzo di giustizia (per noi tutti, in un’epoca in cui non esistevano centraline elettroniche e sistemi automatici di smistamento delle chiamate, quell’uomo era solo una voce dal volto sconosciuto) per fargli gli auguri, regalargli il panettone e abbracciarlo (nessuno, purtroppo, ha mantenuto la tradizione dopo la morte di Emilio!); non c’era giovane collega, bisognoso di consigli, cui non dedicasse ore preziose del suo lavoro; e tanti erano i condannati, in processi da lui istruiti, che spesso andavano a salutarlo per ringraziarlo dell’umanità che aveva con loro dimostrato e che non avrebbero mai dimenticato. Tra le più assidue, un’anziana sedicente contessa, condannata per sfruttamento della prostituzione; Emilio non chiudeva la porta neppure a questo personaggio pittoresco, la lasciava accomodare e parlare a lungo, come lei pensava facciano di solito le contesse: in una di queste occasioni, entrò nel suo ufficio una delle giovani sostitute della procura di Milano ed Emilio, rivolgendosi alla sua ospite, le disse: “Contessa, permetta che le presenti la collega...., mia collega, non sua”. La contessa ne prese responsabilmente atto».

LE MINACCE
WALTER TOBAGI: «In settembre, nell’abitazione-arsenale di Corrado Alunni, l’ex brigatista, fondatore di Prima linea, fu trovata una sua foto. Alessandrini veniva indicato tra gli “obiettivi da colpire”. Non doveva bastare per mettere sull’avviso? Sulle prime Emilio Alessandrini si spaventò. Poi seppe che quella foto non era stata scattata durante un pedinamento, né sottratta da un archivio: l’avevano ripresa da una trasmissione televisiva. Roba fatta in casa, da artigiani del terrorismo».
ENNIO ALESSANDRINI, uno dei quattro fratelli di Emilio: «Emilio era stato più volte minacciato eppure non gli avevano dato alcuna scorta».
PAOLA ALESSANDRINI, moglie di Emilio: «Emilio non aveva scorta. Eppure tre mesi prima di morire una sua foto con allegata una scheda era stata trovata in uno di quei covi. Emilio non ci aveva dato peso. O forse non aveva voluto trasmettermi patemi o paure. Era un uomo che sapeva rendere allegra la famiglia. Lavorava fino a sera tarda ma, appena in casa, giocava con Marco e ascoltava le mie chiacchiere».
EMILIO ALESSANDRINI: «La scorta è un accorgimento di grande effetto scenico ma inutile, che serve solo a mettere a repentaglio la vita di due poveri poliziotti».

IL MOVENTE
MARCO DONAT CATTIN, leader di Prima linea, partecipa all’agguato e spara: «Avevamo individuato una rosa di magistrati milanesi che potevano essere colpiti. Erano quelli che si erano occupati di terrorismo: Pomarici, Spataro, Galli, Alessandrini. La scelta cadde su quest’ultimo perché le ricognizioni che avevamo fatto su di lui erano parse subito piuttosto facili. Facile era stato individuare la sua abitazione, seguirlo al mattino quando usciva di casa, accompagnava il figlio a scuola e poi si recava a Palazzo di giustizia».
PAOLA ALESSANDRINI, moglie di Emilio: «E lei crede a queste parole vacue? Crede possibile che un gruppo che si dice rivoluzionario possa un giorno decidere di uccidere un uomo solo perché è un giudice onesto? Ci sono troppi punti oscuri nelle azioni dei terroristi, troppi misteri».
WALTER TOBAGI: «I terroristi hanno colpito Alessandrini per quello che aveva fatto, ma ancor di più per quanto si apprestava a fare: un archivio sul terrorismo. Non era solo il magistrato che aveva indagato su Piazza Fontana e su alcuni episodi del brigatismo milanese, era soprattutto il giudice che s’era assunto l’impegno di coordinare una ricerca sistematica su “Violenza armata e terrorismo come mezzi di lotta politica”».
EMILIO ALESSANDRINI: «Non è un caso che le azioni terroristiche siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. L’obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che in qualche misura garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società. Anche i neofascisti seguono una strategia simile: non colpiscono più i “rossi”, ma coloro che a destra accettano le riforme, procrastrinando lo scontro».

IL DELITTO
L’AUTOPSIA. Il dottor Alessandrini è stato raggiunto da almeno otto proiettili di grosso calibro uno dei quali sparato da non pili di dieci centimetri di distanza. Due pallottole hanno colpito il giudice alla testa, le altre al torace. Sul luogo dell’assassinio non sono stati trovati né bossoli né altri indizi.
TESTIMONI. Un testimone che percorreva viale Umbria in senso opposto avrebbe visto, all’angolo di via Muratori, la 128 arrestarsi al semaforo. Una studentessa ha visto uno degli assassini sparare con entrambe le mani. Un ragazzo ha visto due individui fermi nell’aiuola spartitraffico.
ARMANDO SPATARO: «Ero di turno esterno il 29 gennaio 1979 e quando, a poche centinaia di metri dall’edificio in cui entrambi abitavamo, arrivai all’incrocio dove la sua auto bloccava il traffico, con lo sportello aperto e la polizia attorno, guardai quell’uomo così giovane, accasciato sul volante e, inerte anch’io, pensai immediatamente a quando, un anno e mezzo prima, mi aveva discretamente accompagnato nell’aula della Corte d’assise dove stava per iniziare il processo al nucleo storico delle Br».
MARCO ALESSANDRINI: «Alla fine delle lezioni tornai a casa con i genitori di un mio compagno di classe, il figlio di un cancelliere del tribunale. Pranzai da loro. Mi venne a prendere mia nonna materna, che abitava a Pescara, e mi sembrò un po’ strano. Lei e mia mamma iniziarono a dirmi che “Emilio aveva avuto un incidente”. Io ero seduto su una poltrona. Dopo mezz’ora toccò a mia madre dirmelo: “Papà è morto”».
GERARDO D’AMBROSIO: «Abitavamo vicino, mia moglie, mia figlia e io ci si vedeva spesso con Paola, sua moglie, e con Marco, suo figlio. Marco era un bambino vivacissimo, biondo, innamorato del padre. Io, per lui, ero lo zio Jerry. Quel giorno io non ero a Milano, ero a Roma, per una relazione al Csm. Alla stazione mi aveva accompagnato il giorno prima proprio Emilio. Ci eravamo salutati con un abbraccio. Avevo cominciato da poco a parlare, quando mi si avvicinò un collega che mi disse: guarda che hanno ucciso Alessandrini a Milano. Rimasi stordito, senza fiato: come potevo continuare?».

LE INDAGINI
LOTTA CONTINUA, titolo: Ucciso Alessandrini. Dai fascisti? No, da Prima linea.
ARMANDO SPATARO: «Ricordo i lunghi discorsi a casa mia, le lunghe ore e i tratti di notte a chiederci il perché e lui, un giudice come Gerardo D’Ambrosio, esperto di trame occulte, a domandarsi incredulo come un gruppo di terroristi di sinistra avesse potuto uccidere il suo pm preferito – di cui mi raccontava tanta umanità e voglia di vivere –, il pm di piazza Fontana. Forse preoccupato che un giovane pm potesse farsi ingannare dalle apparenze, mi riempiva di suggerimenti e la sua disponibilità era traboccante, così come quella di Gigi Fiasconaro, l’altro pm di piazza Fontana».
ROBERTO SANDALO, ex militante di Prima linea, racconta un colloquio con Carlo Donat Cattin, allora vicesegretario della Democrazia cristiana: «Mi dice: “Ieri sera mi ha chiamato Cossiga. Mi ha detto: Peci sta parlando. Tuo figlio è compromesso con il terrorismo. Senti caro, cercate di farlo scappare all’estero, perché dall’estero forse riusciamo a gestire la cosa. In Italia fra due mesi ci sono le elezioni, il partito non regge un colpo del genere”».
FRANCESCO COSSIGA, all’epoca presidente del Consiglio: «Vennero da me l’allora ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, che non l’ha mai ammesso, assieme all’onorevole Flaminio Piccoli. Mi dissero che Patrizio Peci aveva riferito che il figlio di Donat Cattin faceva parte del movimento terroristico e che bisognava avvertire Carlo Donat Cattin. Donat Cattin mi chiese che cosa sapevo. Gli dissi: “So che tuo figlio frequenta cattive compagnie”. E lui mi disse: “Lo manderò a cercare”. Gli risposi: “Guarda, tu fai bene a farlo presentare alla polizia, ai carabinieri, al magistrato per chiarire la sua posizione”. Lui: “Io vorrei mandarlo fuori dall’Italia, in Francia”. Io gli dissi: “Ma che dici? La Francia è un ricettacolo...”. Lui disse: “Allora lo manderò presso alcuni amici in Inghilterra”».

LA RIVENDICAZIONE
UMBERTO MAZZOLA: «Aspettammo che uscissero i giornali con la notizia dell’agguato e trovammo nella biografia del magistrato gli spunti per motivare meglio quella morte».
MARCO DONAT CATTIN: «Il volantino di rivendicazione lo avevamo già abbozzato prima, riassumendo il nostro dibattito sulla magistratura e indicando le accuse contro il giudice. Un modo di agire tremendo, mi rendo conto. Ma era il nostro modo di ragionare di allora».

IL FUNERALE
ARMANDO SPATARO: «Tutti ricordano l’addio a Emilio: Milano intera era al suo funerale, strade e piazze stracolme di gente che lo applaudiva, una città ferma in quel freddo mattino d’inverno. La chiesa immobile e partecipe del dolore e della dignità della giovane moglie Paola e del bambino Marco, serio e impettito come un cadetto di West Point (oggi Marco ha assolutamente sorriso, espressioni e movenze del padre, pur non avendo avuto il tempo di somatizzarli)».