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 2015  gennaio 31 Sabato calendario

IL MONDIALE POI PASSO (E CHIUDO)


[Mauro Bergamasco]

Penne al pomodoro e origano, cucinate «con la pasta di mais perché quella al glutine mi fa addormentare». Poi Mauro Bergamasco beve un bibitone di un giallognolo respingente («Estratto di sedano, kiwi giallo, mele, limone: una macedonia senza fibre»). Come contorno, invece, il romanzo, i tonfi, gli avversari e la bellezza dei suoi 16 anni e mezzo di rugby in azzurro, più di tutti in Italia. «Una vita sportiva fortunata, la mia. Sarà anche retorica, ma quando la tua passione coincide con il tuo lavoro, non so cos’altro dovrei dire». Quando è ai fornelli, sbucano i suoi cani Orazio e Kid, un jack russell e un parson russell. «È come avere due figli, riempiono la vita, stanno sempre con me». Alle 6 e mezza del mattino, iniziano sempre la giornata passeggiando per i borghi ancora addormentati di Parma.
Mentre scola la pasta, gli suona il telefonino e allora è tutto un discorrere di Facebook, hashtag, videomaker, parole chiave della sua vita extra ovale 2.0 (ha una società legata alla produzione di contenuti audiovisivi) oggi, e, ancor di più, da novembre, dopo il Mondiale. «Se riuscissi a disputarlo sarebbe il quinto per me. Poi con il campo avrò chiuso. Andrò avanti coi ragazzini del mio campus».

Ragazzini. Quasi come il Mauro debuttante in Nazionale, nel 1998, contro l’Olanda. Aveva 18 anni e mezzo.
«Mi ritrovai in una squadra di uomini. Il secondo più giovane del gruppo avrà avuto 24 o 25 anni. I senatori mi facevano sentire accudito, ben voluto. Una pacca sulla spalla, una battuta. Gesti che gonfiavano il cuore e davano coraggio».
Di quella squadra chi “presterebbe” alla Nazionale di oggi?
«Più di uno. Parlo allora del capitano, Massimo Giovanelli. Carisma puro. Aveva la squadra sotto controllo, ma in senso buono. Ci sapeva fare. Per esempio: la sera prima del mio esordio, in albergo, entra in camera e mi dice di preparargli una cioccolata calda. Penso: “boh”. Faccio del mio meglio: bollitore, micro confezioni di latte, cacao, quello che c’è, insomma. La scaldo. Gliela passo. Mi fa: “Lo sapevo che eri uno giusto”. La vissi come la più inattesa delle investiture».
Quell’Italia aveva gente che faceva a sportellate in campo e, per farsi sentire, anche fuori, con la Federazione. “Voi” del Sei Nazioni, al massimo, scrivete tweet polemici. Chi ha ragione?
«E meno male che quel gruppo aveva dei “figli di buona donna” se no, senza quella “fame”, l’Italia non sarebbe entrata a far parte del Sei Nazioni. Oggi non è più concesso fare gli Zorro di turno. Detto questo, un po’ di quella cattiveria là, al rugby italiano, oggi servirebbe».
Lei quante volte si è dovuto mordere la lingua?
(Ride). «Vuole vederla? Battute a parte, oggi le rivoluzioni, da solo, non si fanno. La polemica dà da mangiare a tanti, ma non ci si cura degli effetti che provoca. Quindi non ho mai voluto aprire polemiche sterili che peggiorano le cose».
Un c.t., Kirwan, tentò senza fortuna di trasformarla in ala e un altro, Mallet, l’ha fatta giocare mediano a Twickenham e finì in disfatta. Si toglierà mai questi e tutti gli altri sassolini?
«Non so nemmeno se lo farò. Nel senso che c’è un momento per farlo, dopo non ha più senso. Come a Saint Etienne».
Spieghiamo: a Saint Etienne, alla fine dello “spareggio” per i quarti del Mondiale 2007 perso con la Scozia, lei, come di solito fa un capitano, radunò i compagni e fece loro un discorso.
«Avevamo appena gettato un’occasione forse irripetibile (anche) per l’incapacità di sanare un nostro problema interno (la rottura tra il c.t. in uscita Berbizier e il capitano Bortolami; ndr). Quella volta, per fortuna, seguii l’istinto. Era il momento di parlare, 15 minuti dopo non l’avrei più fatto. Ma non cercavo né falsi amici, né volevo diventare il nuovo capitano».
Capitano per davvero lei non lo è ma stato. Sarebbe stato all’altezza?
«Se dicessi di no, sarei un ipocrita. Mi mancato il fatto di non esserlo stato, questo sì, ma non mi rode. Sarebbe stato così se avessi avuto la possibilità e l’avessi mancata, però questo non si è mai verificato. Capitani, c.t., polemiche... Mi lasci tornare su Mallet e Twickenham...».
Prego.
«Con lui non ho mai litigato per la sua scelta di farmi giocare numero 9 davanti a 80 mila inglesi. Anzi, se mi venisse proposto ancora, lo rifarei. Detto questo, impiegai una settimana per riprendermi».
Pianse?
«Sì, a fine primo tempo (quando venne sostituito da un mediano di ruolo; ndr)».
Raro che un rugbista, o in generale uno sportivo, ammetta le lacrime.
«Li ho sentiti anch’io quelli che dicono di non averlo mai fatto, invece sai quanti ne ho visti piangere... Io stesso, da bambino, ero stato educato a non farlo perché l’uomo “non può’’. Forse è per questo che mi tenevo tutto dentro. Ma è sbagliato, è ipocrita, anche nel nostro ambiente (e non solo) funziona ancora così».

Altri modi per sfogarsi?
«Il diario che scrivo al mattino nel giorno di una partita. Quando iniziai a farlo ci inserivo anche appunti tattici, col tempo invece è finita che preferisco metterci quello che mi passa per la mente».
Perché un diario?
«Mi ispiro a un compagno di Nazionale, ma lui nel suo scriveva solo appunti rugbistici. Io a volte scrivo parole che non hanno senso e che poi sistemo. Le persone più sensibili che lo dovessero leggere potrebbero capire alcuni lati di me che non mostro o non sono facili da vedere. E poi c’è chi, leggendolo, mi direbbe: sei pazzo…»
Apriamo la pagina dei ricordi ovali. Il 5 febbraio 2000, per l’esordio azzurro nel Sei Nazioni, Italia-Scozia 34-20…
«Era la prima volta per tutti, compresi i senatori. La lunga vigilia, l’attesa, i dubbi, il palcoscenico: tutto nuovo. Nessuno poteva immaginare che tipo di emozioni avremmo provato in campo».
E nello spogliatoio…
«C’era l’atmosfera che piace a me, gente che si guardava negli occhi e non abbassava mai lo sguardo. Al fischio finale ci fissammo quasi spaesati come a dire: e adesso? Ma abbiamo vinto? Un po’ quello che successe nel 2007 a Edimburgo quando dopo 6 minuti eravamo avanti tre mete a zero. Ci ripetevamo: e adesso come ce la giochiamo? Per fortuna andò tutto per il meglio».
Un ricordo per ogni capitale o tempio del Sei Nazioni. Londra/Twickenham.
«Le due volpi che vivono dentro lo stadio. L’ho scoperto l’anno in cui
feci il commentatore per La7. Il giorno prima della partita, durante un collegamento, le vidi passeggiare sul campo e poi andarsene. Ci venne spiegato che stanno sempre nell’impianto tranne il giorno della gara, quando scompaiono per poi tornare a Twickenham appena la gente se ne va».
Cardiff.
«Gli zoccoli dei quattro cavalli che scortano il pullman dall’hotel allo stadio. Il tragitto è meno di 500 metri, però bisogna farsi largo tra due ali di folla, quindi si procede a passo d’uomo. Ecco perché riesci a sentire distintamente i cavalli».
Dublino.
«Abbiamo giocato in tre stadi: Lasdowne Road, Croke Park e Aviva. Scelgo il primo, quello storico, dove tutto il pubblico stava in piedi. In pratica giocavano con te, era come se seguissero i movimenti dei giocatori in campo».
Edimburgo.
«Facile. Le cornamuse. Una colonna sonora continua, dentro e fuori lo stadio».
Manca la “sua” Parigi.
«Parigi (dove giocò dal 2003 al 2011; ndr). Parigi... Parigi... Ora come ora mi fa venire in mente solo i racconti di alcuni amici dopo i recenti attentati. Una era vicina di casa di uno dei disegnatori uccisi. È spaventata. Un’altra ha trovato un Commissariato chiuso per timore di attentati. È cambiata la quotidianità. Così non va bene».
Dal 2002, in campo con lei, ma anche negli spot, sulle cover dei vostri libri, c’è sempre stato suo fratello Mirco. Da qualche anno sembra essere rimasto solo il campo a unirvi...
«A un certo punto abbiamo scelto strade differenti (Mirco, per esempio, diventato vegano, ha aperto con la moglie Ati un ristorante a tema a Padova; ndr). Questo può far piacere o meno, sta di fatto che rimpiango quegli anni perché la forza di noi due insieme era importante».
Anche lei si darà alla cucina vegana?
«Non mi piacciono le estremizzazioni, e quella lo è. A livello sportivo mi dà qualche dubbio, ma Mirco mi dice di stare bene e io gli credo».