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 2015  gennaio 31 Sabato calendario

STORIA DI O.

Il nome con cui la conosciamo tutti nasce da un errore di trascrizione: la madre, una donna di servizio chiamata Vernita Lee, aveva scelto “Orpah”, in onore del personaggio biblico che compare nel libro di Ruth, ma registrò invece “Oprah”, e non si preoccupò mai di correggere lo sbaglio. Lei ora ne va orgogliosa, come del cognome Winfrey, ereditato da un barbiere con passato da minatore che di primo nome fa Vernon, e forse è suo padre. Oprah ha infatti scelto di non credere a un contadino del Mississippi chiamato Noah Robinson, il quale, dopo che lei era divenuta miliardaria, ha dichiarato di essere il vero genitore. L’unica cosa che sa con certezza è che all’epoca la mamma aveva 19 anni, e subito dopo il parto l’ha abbandonata per sei anni con la nonna Presley. È stata quest’ultima a insegnarle a leggere, ma di quel periodo oggi ricorda soltanto gli stenti: non mangiavano per giorni interi e i compagni la sfottevano per i vestiti fatti con sacchi di patate.
La situazione peggiorò ulteriormente quando andò a vivere con Vernon: venne violentata da uno zio, poi da un amico di famiglia e infine anche da un cugino. Il padre fu il primo a esserne sconvolto, e tentò di spiegarle che il riscatto poteva avvenire soltanto attraverso l’educazione e la cultura. Oprah aveva solo13 anni, ma decise di andar via da quella casa, e di quel periodo si sa poco, se non che rimase incinta subito dopo, non sa bene neanche lei di chi, e che il bambino, nato prematuro, morì dopo poche settimane: oggi racconta di non aver più voluto figli per reazione a quei traumi.
L’infanzia e la giovinezza continuarono a essere costellate di violenza, squallore e dolore, ma chi ha avuto modo di conoscerla in quei giorni ha visto nel suo sguardo e in ogni suo gesto l’incredibile determinazione grazie alla quale ha conquistato il successo. E, soprattutto, l’odio per ogni forma di discriminazione sessuale e razziale.
A 61 anni, Oprah è oggi la donna più potente d’America, perché quello che ha costruito non è legato alla provvisorietà della politica, ma solo alla caparbietà con cui ha trasformato l’angoscia in energia piena di rabbia.
Una sua opinione su un libro, un film o uno spettacolo teatrale è in grado di decretarne il trionfo o la fine immediata, e lo stesso vale per la politica: ne sa qualcosa Barack Obama, che in occasione delle primarie del 2008 ebbe in dotazione da lei almeno un milione e mezzo di voti, a discapito di Hillary Clinton. E lo sanno i politici di ogni partito che elemosinano un suo appoggio, o almeno una battuta favorevole: Maureen Dowd ha scritto sul New York Times che «Oprah ha più credibilità di qualunque presidente».
Non esiste nulla di paragonabile nel mondo della comunicazione, e per capire il cosiddetto «Oprah effect» è necessario continuare a seguire il percorso esistenziale di questa donna venuta dalla miseria di Kosciusko, nel Mississippi, e vederne la trasformazione in un’icona della cultura popolare moderna, lungo una crescita costellata da continui dolori, come la morte per Aids del fratello e per droga di una delle due sorelle. Nulla è riuscita a fermarla: due anni fa venne invitata a chiudere l’anno accademico di Harvard, e spiegò ai laureandi che «il fallimento non esiste, è solo un modo in cui la vita ci invita a muoverci in un’altra direzione».
È quello che testimonia ogni giorno, e per “muoversi” intende lottare, senza retrocedere di un centimetro rispetto alle proprie convinzioni, perché «il mondo è pieno di ingiustizia e orrori» e il potere non può rappresentare un fine da godere, ma un mezzo per migliorarlo.
Oggi la sua fortuna è valutata in più di tre miliardi di dollari, grazie a un impero mediatico costruito con un’abnegazione quotidiana e una meticolosità impressionante: sin da quando memorizzava da bambina brani della Bibbia e di ogni libro che potesse esserle utile non c’è stato nulla di lasciato al caso, e non esiste tuttora giorno in cui non individui una battaglia degna di essere combattuta.
Lo capirono i produttori del suo primo show televisivo, andato in onda nel 1983, sbalorditi per la sicurezza con cui riuscì a imporre immediatamente uno stile diretto e ironico, con il quale ha saputo trasformare le lacune culturali in momenti di umanità. Prima di ogni cosa, Oprah impone la propria sincerità, pretendendola in maniera egualmente assoluta dall’interlocutore, e chi non sta al gioco rischia di essere distrutto in diretta, come avvenne a James Frey, andato a presentare un libro di fantasia spacciandolo per autobiografico.
Nelle interviste emerge un’altra caratteristica che la rende unica: la sua curiosità nasce dalla fame e la mancanza. Anche nei momenti più aggressivi Oprah rivela un’intima umiltà che a volte genera nell’interlocutore una catarsi ottenuta attraverso la confessione pubblica: è quello che i teorici del linguaggio televisivo hanno codificato come “oprahfication”. Sono poche le personalità che non hanno accettato di inchinarsi alle sue regole: Jonathan Franzen rifiutò di far apporre su Le correzioni il bollino dell’Oprah Book Club salvo poi pentirsi (la segnalazione equivale alla vendita di centinaia di migliaia di copie) e Cormac McCarthy ha acconsentito a essere intervistato a condizione che fosse lei ad andare a trovarlo nella sua casa di Santa Fe.
“Oprah effect” ha un potere impressionante anche in altri campi: all’epoca dell’epidemia della mucca pazza, dichiarò in trasmissione che avrebbe smesso di mangiare hamburger, generando un crollo delle vendite di carne bovina. La vicenda ebbe anche un seguito giudiziario, ma Oprah venne assolta dalla citazione per 11 milioni di dollari da parte dell’associazione texana dei produttori di carne. Tra i personaggi potenti che hanno contribuito a costruire il suo mito c’è anche Steven Spielberg: era stata una segnalazione di Oprah a rendere Il colore viola un best seller, e il regista pensò di offrirle un ruolo, che la Winfrey interpretò benissimo, conquistando una nomination all’Oscar.
I rapporti con il cinema sono sporadici, e segnati sempre dalla battaglia da combattere per la gente di colore: ha interpretato un ruolo in Beloved dopo che Toni Morrison aveva vinto il Nobel e poi ha prestato il proprio volto a un personaggio significativo in The Butler. Recentemente ha prodotto Selma, il film su Martin Luther King, nel quale si ritaglia un altro ruolo, piccolo ma difficile da dimenticare: osannato da parte della critica, nomination all’Oscar come miglior film, Selma è stato accusato di imprecisioni storiche tese a minimizzare il ruolo di Lyndon Johnson nella battaglia per i diritti civili.