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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

LA DITTATURA DEL MAESTRO

Damien Chazelle ha appena compiuto trent’anni, ha un passato di batterista jazz a livello professionale e cinque candidature agli Oscar per il suo secondo film, Whiplash , un film che per me è diventato una piccola ossessione di questo inverno. L’ho visto la prima volta al Torino Film Festival, dove si era sparsa rapidamente la voce intorno a quella «esperienza», ho fatto in modo di poterlo rivedere a breve distanza di tempo e sono certo che tornerò in sala per l’uscita italiana, il 12 febbraio.
Whiplash racconta la storia di Andrew Neiman (l’attore Miles Teller), diciannovenne che studia batteria jazz allo Shaffer Conservatory di New York, una scuola di musica (inventata) fra le più prestigiose degli Stati Uniti. Andrew non ha madre, né fidanzata, né amici, soltanto la propria aspirazione a diventare un grande fra i grandi, il nuovo Buddy Rich, perciò quello che fa dalla mattina alla sera è ascoltare ed esercitarsi, esercitarsi e ascoltare, e pestare sulla batteria come un invasato per guadagnare qualche frazione di battuta-per-minuto in più. L’ ensemble più esclusivo della scuola è diretto da un insegnante sadico e spietato, Terence Fletcher (J. K. Simmons, che ha già vinto il Golden Globe per la sua interpretazione sopra le righe in tutti i sensi). Alla classe di Fletcher accedono soltanto i migliori musicisti e un giorno Andrew, con sorpresa di tutti, viene convocato. Fletcher lo ha sentito suonare e forse ne è rimasto colpito. Ma l’ingresso di Andrew nell’Olimpo di Fletcher non segna il principio di un idillio, bensì di una spirale distruttiva e perversa, fatta di umiliazioni continue, di violenza verbale e fisica, di isolamento crescente: il lato oscuro e malvagio — forse necessario, ed è questo il dilemma che il film lascia aperto — del rapporto fra un allievo e il suo maestro. Fletcher sostiene che Charlie Parker non sarebbe mai diventato quel Charlie Parker, «Bird», se Jo Jones non gli avesse scagliato addosso un piatto al termine di una performance alquanto mediocre, perciò anche lui, alla ricerca del Bird nella sua classe, lancia piatti, leggii, sedie, tutto ciò che gli capita a tiro.
A sentire Chazelle, che mi risponde al telefono da qualche angolo della West Coast, buona parte di ciò che è narrato nel film è accaduta davvero. «A diciannove anni, l’età di Andrew, ero ancora un batterista, anche se muovevo i primi passi nella regia. La storia del film si concentra su un periodo che per me fu in realtà appena precedente, gli anni delle superiori, i più intensi per me come musicista. Suonavo in questa big band con un insegnante di primo livello, e la competizione era altissima. Oggi ho più che altro ritirato le bacchette, ma il film è stato un tentativo di tornare a quella fase della mia vita con un po’ di oggettività».
Whiplash è il nome di un brano di Hank Levy, un brano in tempo dispari, sincopato, difficile da contare. È quello con cui Andrew viene accolto nell’ ensemble di Terence Fletcher ed è quello per cui Fletcher lo prenderà a schiaffi nel tentativo di fargli apprezzare la differenza, talvolta appena percettibile nel jazz, tra «accelerare» e «rallentare». Per Whiplash Andrew si procurerà tagli profondi nelle mani e un esaurimento nervoso. Quel pezzo diverrà per lui un mostro indomabile, come il Terzo concerto per pianoforte di Rachmaninov per David Helfgott, il pianista del film Shine . E «whiplash», forse non a caso, significa «colpo di frusta». «Da batterista suonavo Whiplash e Caravan . Li ho voluti nel film perché sono dei grandi pezzi, ma non solo: li ho voluti perché sono stati così importanti per me a livello personale. Whiplash è il primo brano che ho sentito suonare quando sono entrato nella big band del conservatorio. Ero seduto dietro il batterista principale, a voltargli le pagine, e cercavo di seguire questo bizzarro tempo in sette quarti. Mi sentivo completamente perso, fuori dal mio elemento. Whiplash si è trasformato in una minaccia costante. Dall’altra parte, Caravan era un godimento, è un pezzo divertente, che racchiude in sé un senso di velocità e di potere. Quei due brani contengono tutta la paura e la gioia di quando ero un batterista».

Nella storia, tuttavia, la paura domina completamente sulla gioia. È una paura multiforme, che si maschera dietro l’ambizione, l’accanimento, poi l’ansia, e infine la paranoia, un atteggiamento unidirezionale che ha fatto indignare il critico del «New Yorker» Richard Brody (« Whiplash non onora né il jazz né il cinema!»). Chazelle lo spiega così: «Ci sono molti film sulla felicità della musica, sulla speranza e l’eccitazione che porta, ma io volevo fare un film sulla paura dei musicisti, su quell’angoscia familiare a chiunque stia tentando di creare qualcosa e di farcela in un ambiente competitivo. Non suono più, ma temo che l’ansia del batterista si sia in qualche modo trasferita nell’ansia del regista. Il timore di fallire accomuna tutta l’arte. Che tu sia un musicista, un regista o uno scrittore, sei costantemente spinto in misura uguale dalla speranza e dalla paura».
E così, l’apprendistato alla batteria di Andrew assomiglia sempre più a una lotta, a una guerra a tutto campo. In Whiplash compaiono almeno due riferimenti espliciti al cinema: gli insulti barocchi di Fletcher ai suoi allievi, a sfondo omofobo/xenofobo/misogino a seconda della vittima, fanno riecheggiare quelli del sergente Hartman di Full Metal Jacket , e in un’inquadratura si ha l’impressione evidente di scambiare il viso tumefatto e sudato di Miles Teller con quello di Robert De Niro in Toro scatenato . Il musicista jazz come soldato e come pugile, insomma. Nella guerra totale di Andrew Neiman non viene risparmiata neppure la famiglia, incapace di comprendere l’impresa a cui egli si è votato. Viene da chiedersi se Damien Chazelle sappia vivere in un compromesso migliore di quello del suo protagonista. «La tensione fra il lavoro e la vita personale... è qualcosa contro cui combatto ancora. Andrew non è troppo differente da me in questo. Sceglie istintivamente il lavoro a discapito della vita, sceglie le cose che lo porteranno avanti nell’arte a discapito di ogni felicità immediata. Le sue decisioni non sono necessariamente quelle che prenderei o vorrei prendere io, ma capisco la loro origine, il pensiero che sta dietro. Negli anni della scuola di musica il dissidio era molto presente in me e in un certo senso è ancora lì, irrisolto: come si raggiunge un qualche tipo di equilibrio?».
Se il suo equilibrio è ancora lontano fuori dal cinema, è senza dubbio raggiunto dentro quest’opera. Whiplash ha lo strano, rarissimo dono di muoversi nel territorio stretto fra il film d’autore — si permette un certo estremismo, minuti e minuti ininterrotti di batteria in assolo — e il blockbuster possente, perché ha la velocità e la tensione costanti di un film d’azione. Sembra una scelta calibrata al millimetro, degna di una mania di perfezionismo come quella di Andrew. «In realtà, mentre scrivevo la sceneggiatura ero piuttosto naïf . Era tutto basato sui ricordi, come se stessi producendo un’autobiografia, non riuscivo a tenere in considerazione l’accessibilità degli altri alla storia. La mia sola speranza era che se fossi stato davvero specifico in ciò che raccontavo, allora quel racconto sarebbe potuto diventare universale. È stato quando abbiamo cominciato a cercare i finanziamenti per il film che mi è risultato chiaro quanto poco il mondo che avevo scelto di narrare fosse commerciale. Ogni singola parte del processo me lo ha ricordato».
In effetti, il film che parla di perseveranza nell’arte è stato a sua volta un esempio di perseveranza. La sceneggiatura di Chazelle era finita nella «Black list», l’elenco delle idee ottime che forse non verranno mai realizzate sullo schermo, così lui decise di passare attraverso un cortometraggio. Con il corto omonimo vinse il Premio della giuria al Sundance Festival, riuscendo a farsi notare e quindi a racimolare abbastanza soldi per produrre il lungo Whiplash , per assoldare J. K. Simmons e il giovane Miles Teller. A proposito di quest’ultimo, mi racconta: «È strano, quando incontrai Miles mi accorsi subito di quanto fosse seducente, espansivo, di quanto amasse divertirsi, il contrario esatto del personaggio di Andrew. Ma più ci avvicinavamo alle riprese, più lo conoscevo a fondo e più mi accorgevo di quante somiglianze in realtà ci fossero. Entrambi hanno questa serietà e questa ambizione enorme per il lavoro che fanno e ciò ha reso molto facile per Miles spogliarsi di tutto ciò che non fosse l’ossessione della batteria (Teller è a sua volta un batterista discreto, si è esercitato per settimane sui brani del film per non ricorrere a controfigure, ndr ). Il pensiero di Andrew, in ogni singola scena del film, è uno soltanto: diventare un batterista di successo. Una visione molto maschile, come un tunnel, che è la sua grande forza come artista e al tempo stesso la sua grande debolezza come essere umano».
Una debolezza che culmina in un incidente stradale piuttosto violento. Per un caso fortuito, mi è capitato di incontrare Miles Teller proprio una settimana prima dell’intervista, a Milano. Dopo una reazione scomposta e imbarazzante da fan, ho notato le cicatrici disseminate sul suo volto. Ho scoperto che anni fa è sopravvissuto a un incidente grave. «Ironicamente, è stata una coincidenza. Ho scritto la scena prima di sapere dell’incidente di Miles. Mi sono ispirato a uno molto simile che ho vissuto io quando ero al liceo. Come nel film, la macchina cappottò e io avevo un grande concerto il giorno seguente insieme alla mia band. Suonai lo stesso. Ho questa memoria visiva del palco e delle mie mani avvolte nelle bende».

Adesso che i calli sulle mani di Chazelle si sono ammorbiditi, che l’ossessione di essere il più grande batterista del nuovo millennio è evaporata lasciandosi dietro un film miracoloso (e forse un’ossessione nuova, perché gli artisti vivono di dipendenze incrociate), lui si prepara a diventare uno dei nuovi feticci di Hollywood, sempre che esista un modo di prepararsi a qualcosa del genere. «Cerco di massimizzare le possibilità, sapendo che questi momenti non sempre durano. Provo a godermela più che posso, a godere dell’esito che il film sta avendo, quasi surreale. Ma c’è di certo anche una pressione, perciò sono grato di avere già dei piani per il mio prossimo film. In fondo, si lavora per poter stare di nuovo dietro la macchina da presa, si lavora per poter lavorare ancora: è lo strano circolo vizioso di Hollywood». Ed è di certo lo strano circolo vizioso di ogni workaholic .
Se questa volta dovesse scegliere un’attrice fra tutte con la quale girare? Chazelle ci pensa su per qualche secondo, poi dice: «Jessica Chastain, lei sarebbe di certo una». E almeno questo non mi sorprende.