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 2015  febbraio 02 Lunedì calendario

LO STATO ISLAMICO SI RACCONTA

[L’ascesa del califfato nelle parole di un suo adepto tipo: dalle marce anti-Asad alla scelta jihadista, fino alla chiamata di al-Bagdadi. Le strategie di conquista. I metodi di governo. I sottomessi recalcitrano, ma fede e petrodollari restano (per ora) più folti del dissenso]

MI CHIAMO MUHAMMAD MA TUTTI
mi conoscono come Abu Jihad al-Idlibi. Sono un combattente dello Stato Islamico. Sono siriano, della regione di Idlib, nel Nord-Ovest del paese. Racconto la mia storia mentre sono in trincea a Dayr al-Zawr, molto lontano dalla mia cittadina natale Siamo in centinaia su questo lato del fronte, aperto da settimane per metter le mani sull’aeroporto militare ancora controllato da quei maiali di nusayrì 2, bestemmiatori di Dio. Combatto sulla via di Dio per la difesa del califfo Abu Bakr al-Bagdadi al-Qarsi, discendente del Profeta e principe dei credenti, nostro condottiero in grado di riscattare tutti noi musulmani dalle ingiustizie subite dai nuovi crociati, dagli ebrei, dai miscredenti e dai traditori della fede.
Prima di imbracciare questo fucile nella trincea di Dayr ho vissuto altre vite. Sono stato un combattente di Gabhat al-Nusra 3, una fazione che per circa un anno ha condotto il jihad in nome di Dio contro i nemici dell’islam. Ma che col tempo ha deviato la via, facendosi ingannare dai falsi musulmani che vogliono metterci gli uni contro gli altri e consegnarci ai nemici della umma4.
Ho aderito ad al-Nusra alla fine del 2012. Allora mi ero convinto che l’unico modo per risolvere i problemi di noi siriani fosse partecipare alla fondazione di un emirato islamico nelle terre liberate da quegli assassini schifosi dei nusayri e da tutti i collaborazionisti del regime di al-Asad. Ad al-Nusra arrivai dopo aver lasciato una brigata di rivoluzionari siriani. Sì, ci chiamavano rivoluzionari. Ma a pensarci oggi, quelli che ancora credono nella rivoluzione siriana contro al-Asad sono dei poveri ingenui. Nel peggiore dei casi, sono dei traditori dell’islam, prezzolati e meschini. Avevo imbracciato le armi e avevo aderito a un gruppo di combattenti della mia cittadina. Eravamo cugini, amici, ex compagni di scuola, alcuni di noi colleghi di lavoro. Non avevamo altra scelta che prendere le armi e difenderci. Difendere la rivoluzione, così dicevamo. Così credevamo. Ci sparavano e noi sparavamo. Lo facevano contro l’islam e noi abbiamo risposto difendendo l’islam. Riscoprendo l’islam. Ma non mi bastava. Non mi bastava difendere l’islam in mezzo a pecore che parlavano anche di «democrazia» e «società civile», tutte idee strampalate che l’Occidente insinua tra noi per rovinare le nostre società islamiche.
Non mi bastava nemmeno lo stipendio a fine mese. La rivoluzione – quella rivoluzione – doveva farsi in fretta. Eppure, per molti, era meglio se non si cominciava proprio. Non si vive solo di slogan e manifestazioni. Prima o poi, se non ti uccidono, ti accorgi che la vita continua. E che bisogna tornare a casa e dar da mangiare ai propri figli. Sono sposato e ho tre bambini. Ho 34 anni. E prima che questa storia cominciasse gestivo un negozio di informatica. Con lo scoppio delle proteste in altre città siriane, anche noi abbiamo manifestato. Ho partecipato ai cortei di protesta assieme a molti miei amici e cugini. Scendevamo in strada senza armi. Ma le armi, anche solo un fucile da caccia, erano pronte a essere usate. Nessuno dei nostri padri ha mai dimenticato quello che gli Asad ci hanno fatto nel 1980 5.
Col negozio mandavo avanti la famiglia. Come manifestante per la libertà ho perso il negozio e quella piccola libertà che avevo. Quei maiali dei nusayri mi hanno arrestato due volte e torturato quasi tutte le notti della prigionia. Una volta uscito, ho imbracciato le armi. Tutti senza casa, lo col fucile sulle montagne. 1 miei al freddo e spesso senza cibo. Poi è arrivato un emiro di al-Nusra. Era sicuro di sé e aveva tanti soldi. Al-Nusra mi ha risollevato: mi ha dato uno stipendio vero e un alloggio per mia moglie e i miei figli, assieme ad altre famiglie di mujahidìn6. Combattevo col cuore più leggero. Difendevo l’islam. O almeno così credevo. La chiamata del nostro emiro al-Bagdadl, la forza di spirito e la rettitudine di tanti fratelli combattenti venuti dal Caucaso e dall’Iraq mi hanno mostrato il volto corrotto e debole di al-Nusra. Ora combatto per lo Stato Islamico e sono più rispettato di prima. Riesco a dare un presente dignitoso alla mia famiglia, al nome di mio padre e a quello di mio nonno.

Oltre il confine
Ero ancora con al-Nusra quando un anno fa abbiamo lanciato la guerra fratricida contro lo Stato Islamico. È stato allora, a metà strada tra Idlib e Aleppo, che ho capito di puntare il fucile dalla parte sbagliata. Assieme ad altri fratelli abbiamo abbandonato le nostre posizioni e ci siamo arresi allo Stato Islamico. Abbiamo giurato fedeltà al nostro emiro e siamo migrati verso est. Siamo giunti a Raqqa, la prima città siriana a esser liberata da quei corrotti di rivoluzionari e a essere ricondotta sulla giusta strada dell’islam. Da Raqqa ci hanno condotto ancora verso est. Siamo arrivati di notte ad al-Qa’im, quella che una volta era la prima località dell’Iraq dopo il confine siriano. Grazie a Dio, questo confine tracciato un secolo fa dai miscredenti è stato abbattuto per volontà del nostro emiro. Da Qa’im ci hanno aggregato alle truppe impegnate a combattere a Ramadi. Mentre al-Nusra si alleava a Idlib con i sedicenti rivoluzionari e respingeva lo Stato Islamico verso est, questo si estendeva lungo l’Eufrate, fino a Dayr da una parte e alla periferia di Aleppo dall’altra. E da Anbar procedeva verso Ninive, fino a Mosul. Abbiamo tagliato come il burro praterie abitate dalla gente della sunna, lasciata da troppo tempo sotto il tacco dell’ingiustizia, della povertà, dell’umilia- zione e della repressione in nome dell’apostasia, della miscredenza, dell’assoggettamento ai nuovi safavidi 7.
Avevo lasciato Idlib a gennaio con la giubba invernale segnata dalla sigla di al-Nusra. Sono arrivato a Mosul a giugno sudando sotto la nuova divisa dello Stato Islamico. Proprio dalla grande moschea di Mosul il nostro emiro ha annunciato la rinascita del califfato. È stato un grande giorno per tutti i musulmani, in particolare per noi combattenti. Abbiamo visto realizzato un sogno. Da allora abbiamo più forza nelle nostre menti e nelle nostre braccia. Da Mosul abbiamo cosi proseguito la cavalcata a Tali ‘Afar e, ancora più a ovest, verso il monte Singar. Abbiamo fatto razzia di quei miscredenti adoratori del diavolo che vivono sulle montagne circondate dal deserto. Se non fosse stato per quei venduti traditori falsi musulmani di curdi, ci saremo ricongiunti con i nostri fratelli che da Dayr assediano Hasaka e che un giorno arriveranno a Qamisli. Da Singar sono tornato ad Anbar. E da lì a Mayadin, fino a fermarmi a Dayr. Era ormai agosto e con gioia abbiamo accolto la notizia dell’uccisione di circa cento maiali nusayri che difendevano i pozzi di gas di Sa’ir, sulla strada del deserto che ci divide da Hims.
Intanto i crociati 8 e gli ipocriti 9 hanno dato vita alla loro cosiddetta coalizione contro lo Stato Islamico. Si illudono di sconfiggere il nostro Stato con i bombardamenti aerei. Ma lo sanno anche loro che ci vuole ben altro per spaventare l’esercito dell’islam. E sanno anche che lo Stato Islamico è ormai una realtà incontestabile. C’è chi dice che siamo oltre ventimila combattenti. In verità, siamo più di trentamila. E continuano ad arrivare molti fratelli da ogni parte della nazione islamica e dai paesi con cui siamo in guerra. Non arrivano solo imbianchini e operai, ma laureati, professori, tecnici informatici, esperti di amministrazione finanziaria, ingegneri idraulici, agronomi e tanti altri professionisti. Chi accetta di sottomettersi al nostro califfo riceve in cambio protezione e una vita dignitosa. Col petrolio siamo riusciti a guadagnare fino a tre milioni di dollari al giorno, producendo – mi dicono – 70 mila barili. I nostri addetti alla raccolta delle tasse sono presenti lungo ogni strada e a ogni valico frontaliere, e ogni carico di merci contribuisce con una tassa al benessere dello Stato Islamico. Allo stesso modo, per poter alzare ogni mattina la saracinesca negozianti e commercianti a Raqcja, Mosul, Dayr al-Zawr devono pagare una tassa periodica sui loro guadagni.
Chi rifiuta di riconoscere l’autorità del principe dei credenti ne subisce le conseguenze. Così è accaduto a centinaia di membri di clan delle nuove wilayat 10. Le loro teste sono rimaste a lungo infilzate sugli spuntoni dei recinti dei giardini delle piazze pubbliche di Dayr e Maya din. Proprio a Mayadin da meno di un mese hanno aperto un centro di reclutamento per aspiranti mujahidin della wilaya dell’Eufrate. È la prima wilaya che unisce due zone – quella di Mayadin e quella di Qa’im – a lungo divise dal confine siro-iracheno. I volantini distribuiti nelle moschee di Dayr e di Mayadin invitavano tutti i maschi di età superiore ai 14 anni a unirsi alle file dei combattenti per lo Stato Islamico e a giurare fedeltà al califfo, principe dei credenti. Sono andato ad assistere alla prima giornata di reclutamento e non mi ha stupito la lunga fila di giovani e meno giovani accorsi dalle campagne per pronunciare il nome di Abù Bakr al-Qarsi.
Ho ancora in mente le immagini dei primi reclutamenti avvenuti nella primavera scorsa vicino Rama di: si raccoglievano forze per partecipare all’offensiva di Mosul. Noi siriani eravamo arrivati da poco. Padri di famiglia e persino anziani della zona si sono uniti alla folla di ragazzi che hanno ricevuto un abbraccio e un bacio sulla fronte dall’emissario dell’emiro, un fucile e una busta con un anticipo dello stipendio mensile dal contabile incaricato dell’arruola- mento. Nelle gerarchie dello Stato Islamico gli iracheni, specie quelli che hanno servito nell’esercito di Saddam Hussein, occupano un posto più in alto eli noi siriani. Ed è un fatto comprensibile: l’azione del nostro emiro cominciò tra Baghdad e Anbar; lui è iracheno e la loro lotta contro i crociati ha una lunga storia nel paese dei due fiumi. Noi siriani siamo ancora poco esperti e meno organizzati. Anche per questo – così ci hanno spiegato i nostri fratelli superiori – il nostro ruolo è in trincea. E pochi di noi hanno responsabilità di comando ad alti livelli.

In trincea
La nostra avanzata verso l’aeroporto di Dayr si è arrestata e siamo ora impantanati. L’esultanza alla notizia del successo dell’operazione di martirio di due nostri fratelli contro uno degli ingressi delle caserme è stata poi eclissata dai bombardamenti degli elicotteri di quei maiali di nnsayri. Non ho partecipato alla liberazione dell’aeroporto di Tabqa, tra Raqqa e Aleppo, ma alcuni miei fratelli che erano lì mi hanno raccontato di una vittoria totale, giunta al termine di un assedio che non ha lasciato scampo a quei topi in trappola. L’aeroporto di Dayr è più difficile da circondare. E dobbiamo ora far fronte a due nemici: al-Asad e la coalizione dei crociati e degli ipocriti.
Ci è giunta voce che a nord, a Singar, quei cani di curdi hanno attaccato alle spalle i nostri fratelli, anche loro bersagliati all’unisono dagli aerei safavidi, crociati e ipocriti. Alcuni miei fratelli che lavoravano nelle raffinerie a est di Dayr mi hanno raccontato di numerosi bombardamenti crociati contro quegli impianti. E c’è chi dice che la produzione di petrolio sia scesa a 20 mila barili al giorno, facendo perdere al nostro Stato almeno il 70% degli introiti. Non so se sia vero, ma la faccenda sarà comunque risolta dal nostro emiro e dai suoi validi consiglieri. Anche perché mi giungono notizie di una crisi della produzione a Mosul a causa del rallentamento dei rifornimenti di materie prime. Troppi posti di blocco, lamentano alcuni fratelli. Altri mi dicono che, sempre a Mosul, le linee telefoniche non funzionano da tempo. E che la corrente elettrica c’è solo in alcuni quartieri e per poche ore al giorno. Che il costo del mazut11 è aumentato di almeno tre volte rispetto a quando Mosul era ancora occupata dai traditori collaborazionisti dei safavidi e degli americani.
Anche a Falluga raccontano di difficoltà per riscaldare le abitazioni d’inverno. Sembra che nella città vicina al fronte abbiano cominciato a tagliare gli alberi per avere legna da ardere nelle stufe. Alcuni fratelli esperti di economia mi assicurano che quando le nuove monete coniate dalla zecca dello Stato Islamico saranno in circolazione saremo ancora più indipendenti e al riparo dall’aumento dei prezzi causato dalle manovre subdole dei crociati e degli ipocriti. Da Mosul e da Raqqa sono giunte notizie di dissenso da parte di alcuni ingrati fratelli, che non riconoscono la giusta applicazione della legge di Dio.
Tribù irrequiete
I problemi più spinosi finora li abbiamo avuti con alcune tribù. Anche su questo non c’è distinzione tra siriani e iracheni. Si tratta di genti che hanno sempre ignorato i muri artificiali eretti dai crociati e dagli ebrei per frammentare la umma. Le tensioni tra noi e alcuni clan nascono quando non vogliono sottomettersi allo Stato e accettare le nostre regole. Due settimane fa, ad esempio, ad al-‘Alì, nella regione di Dayr, fratelli combattenti hanno dovuto aprire il fuoco contro i Dulaym e gli ‘Aqidat. Una pattuglia della hisba 12 aveva fermato una giovane donna che sul viso indossava un velo trasparente. La donna era dei Dulaym. Un suo parente si è opposto all’arresto e ha radunato alcuni membri della famiglia che hanno poi assaltato la pattuglia. I nostri fratelli hanno mandato rinforzi. Ne è nato uno scontro a fuoco: quattro sediziosi dei Dulaym sono stati uccisi, altri dieci sono stati arrestati. Un altro incidente è accaduto a Granig, vicino a Muhasan, dove altri fratelli hanno arrestato membri di un clan locale perché si rifiutavano di unirsi all’addestramento condotto da nostri mujahidìn.
Certo, agli Su’aytat durante l’estate era andata molto peggio: centinaia di loro sono stati uccisi non lontano da Dayr e molti sono stati decapitati perché non volevano condividere con lo Stato il petrolio di quella zona. Il giorno dopo l’uccisione dei loro membri, gli Su’aytat hanno giurato fedeltà e sottomissione al nostro emiro. La lezione inflitta agli Su’aytat dai coraggiosi fratelli è servita a molti altri clan. Ma non a tutti. A ottobre, in Anbar, abbiamo dovuto uccidere numerosi membri degli Albùnimr vicino a Hit, perché avevano provato a ribellarsi. Alcuni di loro avevano persino aderito ai gruppi armati di traditori, servi dei crociati. Solo qualche giorno fa abbiamo dovuto mandare un segnale chiaro anche ai Gabbur a sud di Kirkùk. I miei fratelli di quella zona sono penetrati a Sari’a e hanno preso più di 150 maschi che sono ancora nostri prigionieri. Quando i Gabbùr accetteranno l’autorità del califfo, i 150 torneranno a casa. Sempre che non sia troppo tardi.
In altri casi, le tribù locali hanno compreso da subito l’importanza del ritorno al vero islam e della collaborazione con lo Stato Islamico. È il caso, almeno in parte, dei Rafdan di Dayr. Uno dei loro membri più in vista era stato nominato governatore della città liberata. Il capo dei Rafdan voleva però più potere, ma questo non era possibile. Ne sono sorte delle tensioni e il capo dei Rafdan, lasciata Dayr, si è rifugiato in Anbar. Il nostro emiro ha allora deciso di nominare un wali 13 forestiero, un tunisino. Questo fratello è però morto da valoroso nella stessa battaglia che sto combattendo attorno all’aeroporto. Era un indomito mujahid. Al suo posto, come governatore di Dayr è stato nominato un egiziano.
I Rafdan hanno accolto con disappunto questa nomina. E mi giungono notizie dall’Anbar che il loro leader gridi vendetta e conti di tornare a Dayr alla testa di suoi affiliati. Ignaro del destino che lo attendera.
Tra Mosul e Raqqa
Non posso nascondere che ultimamente da Raqqa sono arrivate notizie preoccupanti di piani di sedizione contro lo Stato Islamico. I miei fratelli legislatori hanno allora promulgato un nuovo codice penale basato sulla legge di Dio che dovrà rimettere in riga chi intende trasgredire le regole. Le donne che hanno più eli trent’anni non potranno lasciare la città senza il permesso di un garante, che deve essere un parente maschio. È vero, in passato questa restrizione ha causato problemi nelle evacuazioni di massa durante i bombardamenti nemici, via la priorità a Raqqa e dintorni è mantenere uno stretto controllo sui movimenti degli abitanti. Tra le donne di Raqqa si nascondono molti nemici dello Stato Islamico. I loro fratelli e parenti, di nascosto, tramano contro di noi e contro i nostri superiori non siriani, da alcuni definiti addirittura «occupanti». Secondo il nuovo codice non si potrà più pregare fuori dalle moschee, per motivi di ordine pubblico. Perché come già avveniva nelle città siriane in rivolta nel 2011 e nel 2012, gli assembramenti pubblici del venerdì possono fornire il pretesto per azioni sobillate dai nostri nemici. Per questo, le spie saranno giustiziate nella piazza pubblica e le adultere – causa di disordine sociale – saranno lapidate se sposate o fustigate se vergini.
Accanto a queste e ad altre regole, un decreto del nostro emiro ha stabilito la creazione a Raqqa di un commissariato di polizia militare, incaricato di controllare l’operato dei fratelli combattenti che si trovano in città senza una missione a loro assegnata. Circolano infatti voci di alcuni fratelli, non solo siriani ma anche di paesi governati da autorità miscredenti 14, che fumano sigarette e bevono alcol di nascosto. Alcuni episodi spiacevoli causati dall’assunzione di alcol e di altre sostanze proibite hanno turbato l’ordine pubblico. Non solo a Raqqa, ma anche a Sahil e Dayr. Qui si sono addirittura registrati casi di diserzione. Specie tra gli aspiranti mujahidtin più giovani.
Un caso che ha fatto scalpore in città è quello di due fratelli e di un loro amico. Stavano completando il corso di addestramento oltre il fiume, dopo il posto di blocco della fabbrica di prodotti in scatola. Quasi alla fine del corso sono fuggiti dal campo e sono riemersi, dopo tre settimane, in Turchia. I loro familiari rimasti in città negano di avere notizie dei loro figli e fratelli. I parenti sono stati comunque tutti arrestati. Ma da altre fonti abbiamo saputo che alcuni attivisti, in combutta con quei traditori di rivoluzionari e di certo pagati dagli ebrei e dai crociati, hanno fatto il lavaggio del cervello ai nostri tre giovani, spingendoli ad abbandonare la retta via. Serve maggior controllo e disciplina. Ma a differenza di Mosul e di Raqqa, Dayr è solo in parte liberata. Il resto è in mano a quei maiali di nusayrì. Chi è in trincea in città mi racconta di un muro di separazione fatto di automezzi, terrapieni, palazzi. Dietro questo muro, i nusayrì hanno scavato profonde vie nella terra per far passare i loro mezzi, tra cui blindati e carri, a un livello più basso e quindi al riparo dal fuoco dei nostri fratelli.
Noi qui rimaniamo
In questa trincea attorno all’aeroporto militare di Dayr si è deciso di fare la guerra ai porci nusayrì. Così è avvenuto nei mesi scorsi a ovest e a nord di Raqqa. Ma in altre zone della Siria, i nostri fratelli superiori hanno deciso di aspettare a lanciare un’offensiva su larga scala contro al-Asad. La presa della base di Jabqa e di altre basi militari a nord di Raqqa, così come l’assalto allo scalo militare di Dayr e ai pozzi di gas a est di Hims, sono serviti a tracciare le linee del fronte e a delimitare il nostro spazio utile. Entro questi confini lo Stato Islamico può governare la gente della Sunna da tempo ostile agli Asad, ai safavidi, ai crociati, agli ebrei. Altrove, l’espansione è ancora troppo rischiosa. La strada che collega Aleppo città con la zona controllata dai porci nusayrì è a pochi chilometri dalle nostre postazioni di al-Bab, a est. Eppure quella strada è percorribile per i loro mezzi militari e i loro rifornimenti. A noi non cambia nulla. Anzi, finché al-Asad continua a sterminare quei venduti di al-Nusra e quegli ingenui dei rivoluzionari, a noi andrà solo che bene.
Allo stesso modo, per ora non ci conviene spostarci più a ovest, verso Hamah e Hims. Certo, mettiamo paura a quegli apostati di ismailiti15, ma è bene tenere i nemici sotto pressione. Ho anche capito, sulla mia pelle, che nemmeno a quei maiali di nusayrì conviene farci guerra aperta. Hanno preso a bombardarci in modo più frequente solo dall’inizio di quest’estate, in corrispondenza con i primi raid dei crociati e degli ipocriti. Anzi, in particolare a

Raqqa – mi dicono i miei fratelli schierati lì – le bombe di al-Asad arrivano di solito subito dopo quelle della coalizione. Forse, ci siamo detti, i crociati sparano e i nusayrì seguono, sapendo finalmente dove sparare. Certo è che quasi sempre quei maiali agli ordini di al-Asad colpiscono poveri musulmani innocenti. Ne sono morti a decine solo a Raqqa. Ma al mondo quelle vittime non interessano. Fino all’estate e per più di un anno, nonostante fossimo ben visibili a Raqqa, a est di Aleppo, tra Raqqa e Dayr, tra Mayadin e Dayr, gli aerei di al-Asad ci hanno spesso ignorato.
In ogni caso, fin quando i crociati e i nusayri continueranno a colpirci solo dal cielo e i curdi si limiteranno a difendere i loro territori, lo Stato Islamico rimarrà qui. E si radicherà tra la gente della Sunna: nei tribunali, nelle scuole, nei mercati, nelle industrie, nelle strade, in ogni angolo della vita. La potenza dello Stato e del nostro emiro non è data solo dalla forza militare ed economica, ma anche da quella politica e culturale. È grazie a tale forza che molti fratelli in regioni lontane da questa trincea di Dayr giurano fedeltà al nostro califfo. Giungono notizie e video di adesioni allo Stato Islamico in zone sotto il controllo dei nusayri e in altre dominate dai finti rivoluzionari e da al-Nusra, come Aleppo, Damasco, Dar’à, Qunaytra, Hims, Suwaida’, il Qalamùn. Noi qui rimaniamo. E una volta uscito da questa trincea innalzerò ancora una volta le insegne dello Stato Islamico.