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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

IL MISTERO

A trentacinque anni di distanza, resta uno dei delitti di mafia più misteriosi. Forse perché non fu solo un delitto di mafia. E in questo caso non si tratta di dietrologia spicciola o preconcetta, ma della meditata opinione di un ex magistrato assurto al vertice delle istituzioni: Pietro Grasso, che fu il primo pubblico ministero dell’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella e tra un paio di giorni, nelle vesti di capo dello Stato supplente, passerà le consegne al fratello della vittima, neo-presidente della Repubblica.
La mattina del 6 gennaio 1980 arrivarono tutti e due in via Libertà, subito dopo gli spari dei killer; Sergio Mattarella per raccogliere gli ultimi respiri di Piersanti, Grasso per cominciare a indagare su chi e perché aveva assassinato il presidente della Regione. Senza venirne a capo, nonostante gli sforzi suoi e degli inquirenti che gli succedettero. Ancora oggi il presidente del Senato è costretto ad ammettere che «la particolarità e la complessità del movente o dei moventi dell’omicidio hanno impedito che si facesse piena luce».
Sono parole pronunciate appena tre settimane fa, nel trentacinquesimo anniversario di un assassinio per il quale non è stata fatta giustizia. Sono stati condannati, come mandanti, i componenti della «commissione» mafiosa dell’epoca: Riina, Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci. Basta. Non gli esecutori materiali, non «gli eventuali mandanti esterni a Cosa nostra di cui pure si scorgono le sagome», per dirla ancora con Grasso. E nemmeno «laterali» alla Cupola, come poteva essere Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia e a lungo sospettato per il delitto Mattarella, pur senza mai diventare «indiziato di reato», secondo la formula giuridica di allora.
Il fatto che i sicari siano rimasti ignoti è un mistero nel mistero, perché solitamente la manovalanza si scopre anche nelle esecuzioni più nebulose; spesso «consegnata» proprio per assicurare una verità semplice, al fine di evitare approfondimenti che potrebbero risultare scomodi. Per Mattarella invece no; tra tanti pentiti di mafia che hanno parlato di quella stagione di terrore in cui furono abbattuti i massimi rappresentanti politici, giudiziari e investigativi dell’isola, non ce n’è uno che abbia indicato credibilmente i nomi degli assassini. Chissà perché.
Ci si è dovuti fermare alla responsabilità in qualche modo «oggettiva» dei capimafia, che avrebbero tolto di mezzo un presidente della Regione promotore dell’alleanza col Pci e della «politica delle mani pulite» (già avviata come assessore al Bilancio) perché ostacolava la concessione degli appalti alle imprese vicine all’onorata società. Il contrario di quanto potevano aspettarsi boss e politici collusi, vista l’antica militanza democristiana sua e di suo padre Bernardo, risalente al periodo in cui in quel partito — come nella Chiesa siciliana — la mafia non era considerata un problema. Per questo decisero di eliminarlo, per preservare l’intreccio tra criminalità, politica e affari.
Spiegazione credibile ma probabilmente insufficiente a comprendere ciò che accadde alla vigilia dell’offensiva corleonese dentro Cosa nostra; comandava ancora Stefano Bontate, il boss-gentiluomo che votava Dc e frequentava la Palermo bene e che — secondo una sentenza definitiva — ottenne di incontrare due volte Giulio Andreotti: prima del delitto per lamentarsi di Mattarella, e dopo per spiegare che in Sicilia comandavano loro, e non era prudente mettersi di traverso.
Ad offuscare ulteriormente il contesto che determinò l’uccisione di Mattarella ci sono le piste battute dagli inquirenti e rivelatesi inconcludenti, insieme ai depistaggi. Alla fine degli anni Ottanta il giudice istruttore Giovanni Falcone, in un’indagine innescata dall’Alto commissariato antimafia, arrestò i terroristi neri Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, con l’accusa di aver sparato su commissione. A fondamento dell’ipotesi c’erano le dichiarazioni di qualche pentito neofascista e un riconoscimento di Fioravanti (sempre confermato, ma giudicato non abbastanza solido per una condanna) da parte della vedova Mattarella, che era accanto al marito quando fu colpito.
In seguito «autorevoli» pentiti di mafia, a cominciare da Buscetta, spiegarono che i due erano innocenti, e alla fine del processo di primo grado furono gli stessi pubblici ministeri a chiedere l’assoluzione, concessa e confermata fino all’ultima sentenza. Vito Ciancimino, invece, tentò di attribuire l’omicidio a un improbabile terrorista rosso reclutato da Bontate (e il questore mostrò di credergli); teoria rinverdita di recente dalle dichiarazioni del figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sul fantomatico «signor Franco». Con l’aggiunta degli immancabili servizi segreti.
C’è poi un altro mistero rimasto tale che coinvolge, in parte, anche Sergio Mattarella. Poco dopo l’omicidio la signora Maria Grazia Trizzino, capo di gabinetto del presidente della Regione, raccontò proprio a lui che a metà ottobre 1979 — quando avvertiva intorno a sé un inquietante isolamento politico — Piersanti Mattarella volò a Roma per incontrare l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Al suo ritorno le confidò di avergli parlato «dei problemi siciliani riguardanti anche il partito» e aggiunse in tono allarmato: «Se dovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi di questo incontro con Rognoni, perché ad esso è da ricollegare quanto di grave mi potrà accadere». Sergio Mattarella riferì tutto ai magistrati, e la Trizzino confermò. Aggiungendo che il presidente, davanti alla sua reazione perplessa e incredula, specificò: «Signora, le parlo seriamente».
Chiamato a testimoniare su quell’episodio, Rognoni si limitò a ricordare «un colloquio calmo e sereno» nonostante il «clima di paura e intimidazione» evocato da Mattarella, più qualche accenno alla «preoccupazione per un reinserimento di Ciancimino a livello di piena utilizzazione politica all’interno della Dc». Denunce alle quali il ministro non attribuì particolare peso, a differenza del presidente della Regione che nemmeno tre mesi dopo cadde assassinato. Forse per i motivi che illustrò al responsabile del Viminale, e ancora oggi costituiscono parte integrante di un enigma irrisolto. Che trentacinque anni dopo tiene legati due politici palermitani: la prima e la seconda carica dello Stato.