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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

I PRIMI 80 ANNI DI BELLINI

«Il segreto è arrivare agli ottanta», diceva Dino Risi: «il resto è una passeggiata».
Chissà se sarà d’accordo Mario Bellini, che questa mattina taglia il traguardo della prima parte della sua vita, con la convinzione che ora tutto sarà solo più facile, essendo arrivato all’età in cui ci si può permettere di tornare a essere bambini. A ritrovare cioè quello stato di grazia che, nel racconto agli amici, gli sembra quasi coincidere con un destino: «Da piccolo giravo sempre con una matita in mano e non smettevo mai di disegnare: bottiglie d’inchiostro, soprattutto, e imbuti cui davo braccia e gambe come piccoli esseri umani. A volte penso che questo sia alla base della curiosità e dello stupore che ci riserva il mondo quando impariamo a osservarlo con gli occhi mai sazi di un bambino».
Bottiglie d’inchiostri e imbuti non appartengono certo all’immaginario ludico dei nostri giorni. Rimandano piuttosto a un’Italia assai lontana, a una storia di sacrifici, a costumi di scontata austerità e di ottimismo obbligato che dopo la guerra furono la miccia per l’esplosione del miracolo italiano. Fu allora infatti che una generazione di creativi come Bellini, i fratelli Castiglioni, Vico Magistretti, Marco Zanuso eccetera diedero corpo alla visione di un Paese appena uscito dal fascismo e già apparentemente nuovo e moderno grazie all’intuizione che toccava a loro stimolare l’industria, anzi crearla, facendo fare il grande salto agli artigiani e ai piccoli imprenditori che hanno forgiato poi il nome dell’Italian design nel mondo.
Erano anni in cui si poteva contare sul talento come una merce da spendere in un mercato fatto di committenti come Olivetti, Brionvega o Cassina per i quali era l’idea che creava il mercato e non viceversa. «C’era qualcosa di speciale – ricorda Bellini – nella società italiana, nella sua cultura produttiva; qualcosa che ci ha portato a dare valore a quegli aspetti meno direttamente riconducibili alla più banale dimensione del profitto, della quantità, dell’uso che sono poi i più importanti per la qualità della vita».
Se la collaborazione con La Rinascente segnò l’esordio pubblico del giovane architetto appena uscito dal Politecnico di Milano, l’incontro con Olivetti nel 1963 fu l’occasione per sperimentare il naturale talento e la generosa predisposizione a dare un volto alla macchina: in quel caso le prime macchine moderne, a un passo dal computer, come il Programma 101 di Piergiorgio Perotto, cui Bellini diede un involucro talmente convincente da figurare poi come una delle icone del Museo del Design del MoMa.
Da allora la sua carriera è stata un continuo crescendo, al punto da diventare in poco tempo l’immagine vincente dell’Italian Style: quella confortevole sensazione di un’eleganza non solo legata alla qualità estetica del prodotto, ma anzi significativa di una promessa più suggestiva e convincente , perché espressione di una “dolce vita” di tutti i giorni.
Nonostante ami vestire di nero, Mario Bellini è innamorato dei colori (come il giallo squillante della mitica Divisumma, il verde fluo del “mangiadischi” Pop), il rosso ardente delle poltrone Le Bambole ) e di tutte le forme d’arte: la sua casa milanese, che abbiamo recentemente visto nel film Dove vivono gli architetti prodotto per il Salone del Mobile dello scorso anno, è una macchina per abitare veramente complessa. Una scatola a incastro dove protagonista è la scala –una macchina a sua volta alta nove metri, che come un ponte levatoio si può percorrere e forse anche abitare per un “barone rampante” come lui.
Ogni scalino è anche piano di sosta o di lettura , luogo di lettura o pretesto per ricordi tra gli altarini di oggetti d’affezione (foto di viaggi, edizioni rare, il primo tavolo di Ron Arad presentato a Milano), per sentire musica o magari soltanto pensare, tra una scultura di Martini e un affresco di Tremlett.
Anche se Mario non è certo un tipo da sedersi sugli allori del passato. Tanto da immaginare per sé una futura casa elementare come un cubo: uno sfondo neutro, per disporvi tele o carte da disegnare e dipingere o da usare come strumento per sperimentare nuovi modi di vita. «Dopo un lungo percorso di lavoro - dice - il pensiero è quello di ridurre, di concentrare l’attenzione su quello che diviene essenziale». Per quella longevità creativa che sembra un segno dei grandi maestri milanesi come Ponti, Muzio, Mendini, Caccia Dominioni, gli anni sono solo una convenzionale misura del tempo: per loro non valgono le finte regole della rottamazione anagrafica. Finchè c’è idea, c’è speranza , potrebbe essere il suo motto, all’indomani del prestigioso progetto per il Dipartimento di Arte islamica del Louvre e alla vigilia della futura new city di Zhenjiang in Cina o del nuovo centro culturale di Torino.
Quello che è certo è che nell’officina del suo studio milanese le scale ( questa volta di grezzo metallo) si salgono e si scendono a ogni ora del giorno: non c’è tempo per pensare al passato, perché tutto il presente è solo un esperimento del futuro.
Che materiali useremo? Che forme avranno le nostre case, i nostri musei, i nuovi uffici e le moderne biblioteche? Che ruolo svolgeranno architetti e poeti nel determinare le coordinate di una civiltà più attenta ai valori umani che alle pretese egemoniche della tecnologia fine a se stessa? Si discute, dunque, si progetta; si fanno esperimenti incrociando materiali. Forse si gioca, perché «giocare è una cosa seria: almeno io sono sempre serio quando gioco».
Buon compleanno Mario e continua a giocare. Magari alla fine anche l’Italia vincerà la sua partita.
Fulvio Irace, Domenicale – Il Sole 24 Ore 1/2/2015