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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

PICCOLO GENIO INFELICE

Un ragazzo timido e fragile dall’aria sognante, che lo fissava dal primo banco coi grandi occhi chiari. La testa sotto i capelli domati dall’acqua, sembrava piccola rispetto al corpo dinoccolato. Questa fu la prima impressione del supplente, il giovane professor Izambard di ventidue anni, sei più di quel primo della classe che arrossiva se veniva interpellato inaspettatamente.
Benché fosse molto diverso dai suoi compagni, Arthur Rimbaud era riuscito a farsi rispettare aiutandoli durante i compiti in classe. E proprio in una di quelle occasioni Izambard assistette all’unico episodio di violenza di quel mite alunno. Quando un compagno gli aveva fatto la spia durante la prova di latino, Rimbaud si era alzato senza scomporsi e aveva tirato il dizionario in testa al suo accusatore, prima di sedersi di nuovo, rassegnato.
Il professore non sapeva ancora che dietro la timidezza di Arthur e il suo terrore di sporcare i modestissimi abiti c’era la madre. Abbandonata dal marito, atterrita all’idea che il figlio seguisse l’esempio dello zio che si era dato al vagabondaggio, madame Rimbaud era severissima con il figlio, malgrado tutti i suoi successi scolastici.
Quando Izambard, affascinato dalla sua non comune intelligenza e dalla sua illimitata capacità di apprendimento, cominciò a trattarlo alla pari, Arthur si aprì e iniziò a confidargli i suoi sogni e le sue letture. Ma soprattutto osò fare vedere a quello che gli sembrava una sorta di padre i suoi straordinari versi. Per quell’insegnante, isolato dalla sordità e dalla meschinità della provincia, quella strana amicizia era un conforto insperato.
Qualche anno prima Rimbaud aveva avuto una crisi mistica. Stravedeva per la religione. Un giorno, in chiesa, quando gli altri allievi, approfittando dell’assenza del sorvegliante, avevano cominciato a schizzarsi con l’acqua dell’acquasantiera, il dodicenne, furibondo, si era buttato sui sacrileghi, incurante della superiorità numerica. Arthur era fiero di essere stato soprannominato «lo sporco bigotto» dai compagni stupiti e irritati dalla sua reazione.
Ben presto lo stesso slancio con cui aveva creduto si era rivoltato contro la divinità. «Io credo, credo in te, divina madre! / Afrodite marina! – Oh la strada è amara / da quando l’altro dio ci aggioga alla sua croce. / Carne, marmo, fiore, Venere è in te che credo!». Era così iniziato un lavorio intenso, tutto interiore, di demolizione della morale vigente.
«Che fatica!», si lamentava con un amico, stupito dalla strana maturità di quel coetaneo.
Malgrado l’avesse intuita, la durezza di Madame Rimbaud fu una sorpresa per Izambard che aveva cominciato a prestare libri all’adolescente. «Non potrei approvare un libro come quello che gli avete dato giorni fa, I miserabili... sarebbe certamente pericoloso», scrisse la donna al professore del figlio. Nel suo terrore che Arthur diventasse un “miserabile”, non si era accorta che il libro sotto accusa era invece Notre-Dame de Paris.
Quell’incidente raddoppiò l’affetto di Izambard per lo sfortunato ragazzo. Da allora Arthur andò ogni pomeriggio a casa sua per leggere e discutere di poesia. Poi il lento ritmo della vita di Rimbaud era stato interrotto prima dalla guerra franco-prussiana e dalla Comune di Parigi. Era iniziato il periodo delle fughe. Le prime erano solo inconsapevoli prove generali, poi sarebbe arrivato il distacco, anche se il legame con la famiglia non sarebbe mai stato reciso.
L’incontro con i poeti parigini e gli amori con Verlaine, di dieci anni più anziano, accentuarono la vertiginosa precocità poetica di un genio destinato a restare solitario. Nei Poeti maledetti Verlaine evoca quello che ormai era diventato un uomo dall’aria atletica, con «occhi di un azzurro pallido inquietante» nell’ovale «da angelo in esilio». Quando lo scrisse anche la sua vita era stata travolta da quella meteora, ma insisteva a dire: «Abbiamo avuto la gioia di conoscere Arthur Rimbaud».
Giuseppe Scaraffia, Domenicale – Il Sole 24 Ore 1/2/2015