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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

QUELLA NON È UNA BORRACCIA

Il pugno che strappa la faccia. A million dollar photo. Molto prima di Tarantino. Kill Bill, ma anche Ortiz. La boxe: una natura morta piena di carne viva. Vito Liverani è stato il fotografo dello sport italiano. Per settant’anni. Un pioniere dell’attimo. Tutto quello che si muoveva su strada, sul ring, su pista, sui campi. Coppi, Loi, Charles. Più il resto che è tanto. Sport poveri, per poveri. Sport da combattimento. Mani, piedi, scatti in salita, fughe sotto la neve, rovesciate, mutande, spogliatoi, bocche spalancate, occhi spenti, orgoglio a terra. La gloria spogliata. Il montante che ti stende. La montagna che ti piega. Il dolore fisico che ti sgretola. Più i danni collaterali. E Vito che li mette al centro della foto. È una frazione di secondo. Clic. Inchiodata lì per sempre. Da lui, solo da lui. «Eppure eravamo lì in tanti». Ci tiene alla qualifica di fotografo. Gli altri, dice, fanno solo scatti: «Ai miei tempi dopo ogni clic bisognava ricaricare la macchina. Avevo una sola pallottola, non la potevo sprecare. La tecnica è la velocità del cervello».
Vito oggi ha ottantasei anni, un archivio sterminato, una memoria sentimentale strepitosa. La Milano-Sanremo, anzi il ritorno, seicento chilometri, in moto, sotto la neve, avvinghiato a Penazzo, pilota, detto “Testùn”. «Ci fermammo a mangiare, io ero morto dalla fatica, mi addormentai, seduto dietro, mi risvegliai al casello, Penazzo, un blocco di ghiaccio, chiese di salire a casa, si fece accendere il forno da mia moglie e ci mise mani e piedi». Oggi si studia la fotografia, Vito non ebbe il piacere, cercava di campare. «Ero il terzo di otto figli, arrivammo a Milano nel ’37 dalla Romagna, papà aprì una trattoria, ma dovette andare soldato in Cirenaica, tornò, si mise a fare l’operaio, quando nel ’42 incontra un ex colonello che gli chiede: perché non viene a fare il cuoco in aeronautica a Venegono? Grazie a lui sotto la guerra abbiamo mangiato. Vivevamo in un ex asilo, senza riscaldamento, con le gelate sul vetro, il ghiaccio da dicembre si scioglieva ad aprile. A dodici anni in braghe corte ero apprendista da un droghiere, portavo i bottiglioni di vino, correvo ovunque come un disperato. C’era un fotografo che cercava un aiuto, aveva sessantanove anni, non ci vedeva più bene, ci sono andato, anche se mia madre non voleva. Faceva tessere. Allora si usavano le lastre d’argento. Lì ho imparato a sviluppare e stampare. Ero sveglio». Ma lo studio chiude e Vito si trasferisce come fattorino nello stabilimento Dotti e Bernini, però continua a fotografare. Amici, gite alla domenica, gli abitanti delle case popolari. «Avevano bisogno dei documenti. E dei ritratti di famiglia con anche quelli scomparsi in guerra, per cui imparo i foto-montaggi e gli ingrandimenti, due teste sopra e tre figli sotto, lascio dieci centimetri tra una testa e l’altra. Quella tecnica mi viene utile quando per necessità dei giornali sportivi devo aggiustare e truccare un po’ certe situazioni: mettere due giocatori faccia a faccia, avvicinare il traguardo di una corsa ciclistica, creare un gol o spostare il pallone in un certo posto». L’avanguardia del photoshop. Vito finisce in palestra a fare boxe. «Mi mettono uno davanti. Tiro fuori il destro, lo piglio, casca a terra, mi spavento. Non ne capivo niente, ma mi alleno, mi buttano sul ring, la prima ripresa non va bene, va che quello picchia, dico all’angolo, picchia pure tu, mi rispondono. Lo mando ko. Per tre anni faccio il pugile, trentasei incontri, anche perché alla fine c’è il premio del pubblico, ben cinquecento lire. Poi le busco e smetto». Ma intanto impara come si sta sul ring. E anche attorno. Davanti, sotto, in mezzo: lui è sempre lì. Vede prima, quasi anticipa il ko. La faccia sradicata di Carlos Ortiz è da paura. «Avevo occhio». E cuore per chi fa i guantoni. «Il pugilato ti forma e ti insegna il rispetto». È amico di tutti, soprattutto di Duilio Loi. «In foto mi veniva benissimo, più bello di Toro Scatenato. L’ho fatto in slip, mentre sua madre, grande tifosa, lo abbraccia nello spogliatoio. E anche quando al Palalido nel ’62 Billy Collins con un destro lo mette in ginocchio. L’unico ko della sua vita. Vinse lo stesso e mi disse: questa foto finché vivo non la fare mai vedere a nessuno. Ero con lui nel ’58 a Basilea quando affrontò il tedesco Neuke. Duilio in treno stava male, per un’indigestione di gamberetti, non avrebbe dovuto salire sul ring. Strappò un pari, mi chiese un parere, gli risposi che era un miracolo, si offese, si arrabbiò, mi voleva picchiare. E io: provaci e ti rompo le gambe. Quando con l’Alzheimer è stato ricoverato in una casa di riposo ce l’ho portato io, e mi ha rincorso: non lasciarmi qui».
Liverani ammette: «Ho fatto i soldi con la gente. Il fotogiornalismo l’ho rubato a tutti. Ero sempre dietro a quelli bravi, non mi staccavo mai. Imparavo la posizione. Sono stato il primo a fare Coppi con la dama Bianca, forse per questo non le stavo simpatico. Il nome per la mia agenzia, Olympia, me l’ha dato Brera nel ’55, visto che ci sarebbero stati i Giochi a Roma. Anche se a mia moglie non piaceva perché la nostra portinaia si chiamava così. La nostra foto più famosa è quella di Coppi e Bartali al Tour del ’52. E ci tengo a dire che non era una borraccia, ma una bottiglia d’acqua. La fece Carlo Martini sul Galibier mettendosi d’accordo con il direttore di corsa. Martini fermò la moto, tirò fuori la bottiglietta, doveva darla a Coppi, ma in quel momento Bartali scattò e gettarla a Fausto poteva essere rischioso, così la tirò a Gino, che tra l’altro in gara beveva poco. Mentre Coppi era sempre assetato. Bartali gliela passò. Quell’immagine l’hanno usata tutti, per diversi scopi».
Liverani ha più di un milione di foto, tutte in ordine, ma non digitalizzate. La storia d’Italia, non solo sportiva: anche Agnelli, Buzzati e la Milano che aveva una fontana in piazza Duomo. «Denise, la mia segretaria, ci ha messo tre anni e mezzo per catalogarle. Vorrei darle a qualcuno, metterle a disposizione. Io ci piango qui dentro. Ho lavorato settantacinque anni per chi, per cosa?». Non fotografa più l’azione. «Ma tutte le piante che vedo in città. Rose, tulipani, gigli. Ho più di sessanta immagini, ma non le vendo». Petali delicati, non più facce strappate. Basta fiori del male.
Emanuela Audisio, la Repubblica 1/2/2015