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 2015  febbraio 01 Domenica calendario

“NON SOLO TECNICA IL DESIGN È ANCHE MAGIA”

[Intervista a Mario Bellini] –
Oggi Mario Bellini compie 80 anni, un’età di tutto rispetto per uno degli architetti e designer famosi nel mondo, con alle spalle una galleria infinita di opere e progetti che svariano dal parigino Louvre (l’ala Islamica inaugurata nel 2012), a Berlino, al Giappone, Australia e ancora Emirati Arabi. Per Qatar 2022 prepara un impianto sportivo, mentre in Cina sta creando una città ecologica. Per non parlare del design, dove è maestro riconosciuto, storico e contemporaneo, a partire dai primi anni alla Rinascente e all’Olivetti fino alla fortunata produzione di sedie, lampade, tavoli, divani per Cassina, Kartell, Artemide, Brionvega, B.&B, Flos, Vitra; la sua seggiola Cab, disegnata nel 1977, è un’evergreen, venduta senza sosta a centinaia di migliaia di pezzi. La sua fama ha scalato il Moma a New York che conserva i suoi oggetti e gli ha dedicato una personale nel 1987. Lì nel ’72 progettò la Kar-a-sutra, prototipo sperimentale d’auto, oggi considerata il primo esempio storico di Suv; vanta la direzione di Domus e l’insegnamento in molti istituti di design, ha vinto ben 8 Compassi d’oro. Ora è tempo di bilanci, che lui traccia senza peli sulla lingua, con piglio lombardo, un po’ scherzoso e provocatorio, nello studio di via Borgonuovo a Milano, accanto alla casa dove vive con la moglie, la giornalista Elena Marco.
Una carriera segnata da successo e fortuna la sua, architetto, è andata come sognava?
«Sono contentissimo della mia vita, è stata generosa, ha richiesto un impegno infinito, ma è una fatica appassionante. Rifarei lo stesso mestiere, o forse il poeta, mi piace progettare anche il linguaggio, taglio, sposto, ricucio... Da bambini eravamo sfollati in una villa del Varesotto, con mio fratello e 10 cugini ci divertivamo a giocare, andavamo a rubare i mattoni nella fornace lì vicina, a 9 anni ho costruito una casetta completa con la porta e gli interni».
Lei si sente più’ architetto o designer?
«Immaginiamo di rivolgere la domanda a Le Corbusier o ad Alvar Alto, Gropius, Mies Van der Rohe o Carlo Scarpa. Io sono tutt’e due insieme, uno che progetta con il talento per farlo, preparo allestimenti, musei, negozi, mobili, insediamenti urbani; nessuno ti insegna davvero a farlo, disegnare è un’attività legata ai modi di vivere, ai comportamenti umani e allo spazio, la città è il suo manifesto in pietra, ma prima bisogna sempre pensare, immaginare è un momento magico anche ai tempi di Internet».
Quali opere le hanno procurato le maggiori soddisfazioni?
«Per primo il concorso vinto a Parigi per il Museo del Louvre, una sfida culturale e linguistica nell’ultima corte rimasta aperta dentro la reggia-simbolo della società nel ’700, lì bisognava inserire una collezione d’arte arte islamica, ho pensato una sorta di bolla d’aria come una casa area che scende per altri 2 piani sotto, sono 5.000 metri quadri, un’avventura di 7 anni con prototipi, esperimenti, render. Poi il complesso nel parco di Villa Erba sul Lago di Como, ci era vissuto Luchino Visconti, ho usato il linguaggio delle serre. Segue il Tokyo Design Center, un edificio che si connette con una galleria e sbuca nel cuore d’un giardino buddhista; infine il Museo a Melbourne in Australia, il più grande dell’Emisfero Sud».
È legato a Milano, la sua città natale?
«È un rapporto difficile come in tutt’Italia: troppi concorsi fasulli, mancanza di soldi. Ma lo stesso la amo. Mi sono laureato al Politecnico con Ernesto Rogers e Gio Ponti per professori, ho lavorato al Design della Rinascente, una fucina creativa, con l’ottimo Augusto Morello che mi ha presentato a Roberto Olivetti, gli anni di Ivrea sono stati esaltanti, ho creato macchine da scrivere e calcolatrici. A Milano ho cominciato a costruire negli Anni 80, prima il complesso uffici Pl3- Pl4 di via Kulishof, poi le case in via Madonnina e nell’87 mi sono dedicato alla sfida dell’area al Portello, la vecchia Fiera; in seguito ho vinto il concorso per Brera, la riorganizzazione della Pinacoteca dopo lo spostamento dell’Accademia in via Mascheroni, peccato che il progetto sia finito in soffitta perché l’Accademia è ancora lì; non è’andata meglio col padiglione Italia per Expo».
Che ne pensa di Expo, ormai siamo quasi all’apertura.
«Le esposizioni universali sono tutte manifestazioni infantili, aspetto che questa passi, ma considerato il colossale investimento in infrastrutture e servizi, spero risulti un successo e che i 23 milioni di visitatori previsti nei 6 mesi non siano una delusione. Temo Invece il “dopo”, affrontato troppo in ritardo, bisognava pensare prima a un campus universitario, forse a strutture sportive, magari alla più grande biblioteca».
Ma Milano è davvero capace di attrarre il mondo?
«È la città di maggior successo in Italia, non per bellezza, ma per design e moda, è un brand per usare una parola abusata come il termine “design” che oggi contiene di tutto, hotel, cellulare, tablet, pc, aziende, auto, vestito e pure cibo. Nel dopoguerra il termine era nato dall’entusiasmo e voglia di fare dei piccoli imprenditori, i Cassina, i Brion, che rischiavano in proprio, e da pochi “maestri” architetti, gli Albini, Zanuso, Magistretti, Gardella, i Castiglioni, Gae Aulenti, mentre oggi che piace tanto (lo dimostra anche il Salone del mobile), è fatto dai creativi del mondo: India, Papuasia, Giappone, Brasile. Fanno riferimento a Milano, producono gli oggetti con imprenditori italiani; un esempio? Jean Nouvel, Zaha Adid, Starck fanno le loro cose tutte qui in Italia».
Le resta un rimpianto?
«Una ferita aperta: Torino, la Biblioteca Civica. Ne sono addolorato, nel 2002 ho vinto il concorso ben organizzato dalla città, poi scoperto che il Comune non aveva più i soldi. Era la più grande Public Library d’ Italia, un complesso con mediateca, torre in cristallo, 2 teatri, sala conferenze e altro, peraltro molto costoso. Mi ripetevano di aspettare, finché si è saputo che il Comune stava trattando per vendere l’area e farne un centro commerciale. Io non smetto di sperare, ho detto a Fassino che è contro l’interesse dei cittadini: meglio una Public Library di un centro commerciale. Inviterei l’opinione pubblica a chiedere che ne è stato del progetto cosi amato e ammirato, ma sottratto ai cittadini. Aggiungo che io sono stato regolarmente pagato dal Comune, ma ne ho ricavato un grave danno professionale e d’immagine».
Fiorella Minervino, La Stampa 1/2/2015