Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 31 Sabato calendario

Ora però sparisci Poi in quattro o cinque siamo finiti a casa mia. Dopo un po’ tutti gli altri si sono sfilati ma tu no, sei rimasta lì, sul divano, hai detto che saresti rimasta cinque minuti così ti raccontavo del libro che stavo scrivendo

Ora però sparisci Poi in quattro o cinque siamo finiti a casa mia. Dopo un po’ tutti gli altri si sono sfilati ma tu no, sei rimasta lì, sul divano, hai detto che saresti rimasta cinque minuti così ti raccontavo del libro che stavo scrivendo. Intanto sulla porta c’erano gli altri che salutavano e intanto ridacchiavano, facevano dei gesti. Poi eccoci, le solite cose, noi che parliamo, io che sopporto le tue idiozie e penso resistere mentre tu parli di astrologia e tarocchi e cabale e tutte le scemenze che il mondo ti perdona perché tanto la tua missione è un’altra, la tua missione è di là, nella mia camera da letto. E allora ecco, la parole vanno a zero e vai con la natura. Baci, risolini, silenzi che si dilatano e corpi che si avvicinano, queste cose. Musica che è sbagliata ma fa niente, baci e mani e respiri, la rituale anticamera della mia camera. Poi in genere c’è un momento terribile in cui occorre alzarsi e andare di là, appunto in camera: e allora percorriamo metri che sono chilometri – ma tu non volevi, tu non avresti mai detto, è la prima volta che ti capita una cosa così, giusto? – e poi però sei nuda in tre secondi. Ecco, è lì che mi succede. Ci penso in quel preciso momento. Penso alla botola. La botola. L’invenzione definitiva. La soluzione finale. La botola. Ti spiego. Noi siamo lì, la natura e tutto il resto. Si fa all’amore. Io salgo gradini rapidi e ripidi con fretta scomposta e tutta maschile, pochi colpi di piccozza e già intravedo la vetta: e allora accelero e non t’aspetto, me ne frego, esplodo e però ecco: già ci penso (la botola) e non ho neanche finito e insomma ci penso (la botola) e sì insomma non ho ancora finito e già decisamente ci penso (la botola) e diciamo insomma che quando sono circa ai quattro quinti dell’orgasmo (la botola) penso che zak! mi vorrei spostare e zak! tirare la leva e zak! aprire la botola, così tu finisci in strada. Non credere, è unas cosa fatta bene. Il cunicolo che ti sbatte in strada è fatto a scivolo, non ti fai niente, precedi di pochi secondi i tuoi vestiti (a trovarli) e mentre precipiti neppure lo sai, ma hai sfiorato una leva che ha chiamato automaticamente l’85-85 (35-70 se sei a Roma) e tranquilla, il tassista c’è abituato. E neppure lo sai, ma hai sfiorato un’altra leva che automaticamente ha fatto aprire uno sportellino proprio accanto al mio letto: ci sono dentro una sigaretta e un accendino e un portacenere. E poi non lo sai, ma hai sfiorato un’altra leva che ha fatto aprire un altro sportellino: ci sono dentro una bottiglia di San Pellegrino e chessò, un panino col salame. A scelta. Ci sono dei modelli che fanno partire anche la musica. Capito? E’ lì che mi succede, che ci penso: nei chilometri che ci sono tra il salotto e la camera. Penso alla botola. Ci penso: perché è il momento in cui già vedo e immagino come sarai dopo, penso al prezzo che mi farai pagare, gli interi quarti d’ora di sdolcinamenti forzosi e improbabili, i cicci-picci, i tuoi sensi di colpa religiosi o culturali o atavici che siano, le vicinanze e gli abbracci da strangolamento che non ti facciano sentire biotta di fronte al peccato, il tuo occhio che mi sorveglia affinché io non pensi già ad altro: per esempio a una sigaretta, a un bicchiere di San Pellegrino, chessò, a un panino col salame, alla mia musica, alle bozze del libro che dovrei leggere anziché bissare la prestazione a puro scopo dimostrativo: cosa che non ho nessunissima voglia di fare. Anche perché la seconda è comunque meno bella della prima. E la terza è meno bella della seconda. Eccetera. Ma voi questa cosa non la capite, è pieno di cretine col pallottoliere e il cronometro, che più la faccenda dura e più significa che ci è piaciuto, giusto? Che cazzata. L’importante è poter dire che è stato speciale, una cosa diversa: mica eravamo due corpi che meramente si bramavano, macché, mica volevamo scopare e basta. C’era anche, come si dice: la testa, del resto tu sei diversa, tu non volevi, è la prima volta che ti capita così, ovviamente potevi anche non farlo, mi hai quasi fatto un favore, mica eravamo in due, da parte tua è stato un pegno, una concessione, un’eccezione, una confessione. La botola. Stai per dirmi che si è fatto tardi. La botola. Stai per dirmi che si è fatto molto tardi. Troppo tardi. La botola. Stai per dirmi che non ti dispiacerebbe dormire da me. La botola. Ora però sparisco Ti ho detto: «Allora vengo a casa tua» Che è molto diverso se ti avessi detto: vieni a casa mia. Perché se tu vieni a casa mia significa che vieni a scopare. Se invece vengo io a casa tua significa che vengo lo stesso a scopare: ma ufficialmente accadrà per caso, non era certo in programma, tu non ci pensavi proprio, tu guarda la vita. A me la manfrina va anche bene, la accetto per motivi culturali e sociali. Lo so che milioni di amplessi sono passati da milioni di film da guardare e da milioni di pizze da mangiare. E’ infatti è successo tutto piuttosto in fretta, ricordo che siamo finiti quasi subito nel tuo scomodissimo futon anche se non era in programma, tu non l’avresti mai detto, tu guarda la vita. Poi alla fine ti sei scartucciata quasi subito e ti ho vista trotterellare in cucina e in bagno, insomma ti ho visto disinvolta, e ho preso coraggio, anche perché sapevo che non eri una completa deficiente e che talvolta avevi dei pensieri che sapevi addirittura tradurre in parole. E allora te l’ho chiesto. Ti ho chiesto: ma anche voi, ogni tanto, vorreste la botola? Intendevo: anche voi, ogni tanto, vorreste che quel corpo ormai inservibile che occupa il vostro letto si dissolvesse all’istante? Anche voi, ogni tanto, subito dopo, vorreste solo a docciarvi e struccarvi e riassettare senza dover gestire quel coso che intanto è sempre lì, senza che gli stia passando per il cranio di schiodare? Lei disse «Dici il cane morto?» Il cane morto. «Io lo chiamo il cane morto, ma non so se è proprio quello che dici tu». Che cos’è il cane morto? Chi è il cane morto? «Mah, vedi, alla fin fine le donne restano diverse: più equilibrate, meno brutali, non ci serve una botola che scaraventarvi in strada: non subito, cioè. Potrebbe passare anche un quarto d’ora. Mezz’ora. Insomma una cosa giusta, anche piacevole e fisiologica: ma che, insomma, non ci faccia dimenticare che il giorno dopo magari dovremo alzarci alle sette, e che in quel periodo non stiamo dormendo niente». Perché dici che le donne sono diverse? «Niente di rivoluzionario: voglio dire che le donne sono geneticamente più armoniche nel vivere la sessualità, la natura rimane la loro essenza, sono prive di buona parte delle contraddizioni e dei contorcimenti che dilaniano voi e la bestia che siete. E’ noto che non siamo brutali come voi, ma non è vero che agogniamo ore di preliminari come si dice in giro, anzi, molte li odiano, mentre dopo invece ci va bene il giusto, ci va bene temporeggiare gradevolmente e quindi anche il cicci-picci, va bene, la risatina e la sigaretta, poi magari un’altra risatina, una chiacchiera: e però a un certo punto noi femminucce ce ne andiamo in bagno e chiudiamo la porta, e poi, quando più tardi la riapriamo, gli scenari possibili sono tre». Si era rimessa le calze e poi se le stava ritogliendo. Me li vuoi anche dire, questi scenari? «Primo scenario: lui si è rivestito e si appresta a salutare. Secondo scenario: lui si sta rivestendo – è sempre un’immagine simpatica – per poi apprestarsi a salutare. Terzo scenario: c’è un cane morto sul letto». Eccolo lì. «E’ indubbiamente un cane morto, un animale: grosso, pesante, bastonato, annientato, immobile, inamovibile. Identico a come l’avevamo lasciato. E’ come precipitato da un aereo. Spalmato. Una cosa inguardabile». E perché fa così? Perché fa il cane morto, secondo te? «Perché è stanco, perché si è addormentato, perché è un cretino, perché è il solito finto maschio che d’un tratto vuole coccole improbabili, perché è della generazione che è uscita di casa a trent’anni e che pranza dalla mamma tutti i giorni, perché vuole restare e basta, non vuole che tutto finisca, è un complessato che non vuole sentirsi escluso o respinto, gli piace dormire con una donna, gli piace farlo anche se fosse una battona. Che cazzo ne so» Ho capito, dissi. Sigaretta. La terza. Forse la quarta. «Che poi - disse - mi è capitato di classificarne anche altri, così, per ridere. Il koala» Il koala? «Il koala è quello che dopo la scopata si avvinghia, il suo abbraccio è una morsa, se vuoi divincolarti o alzarti dal letto devi disincastrarlo arto dopo arto. Poi c’è il pavone, quello palestrato che guarda solo i suoi addominali. Il gufo, quello che arriva sempre di notte perché ha lasciato a casa mogli e fidanzate, uno che di giorno non c’è, non esiste. E il falco, quello che vede e sente e s’avventa perché non conosce il significato di atmosfera, il contrario del geco» Il geco? «Il geco è sempre lì, immobile, non reagisce, non si esprime, non ci prova, forse attende, forse è timido, sa il cazzo. Poi fammi pensare... il gambero lo puoi immaginare, è quello che inizia una storia con entusiasmo ma poi d’un tratto infila la retromarcia, e comincia: e questo non l’ho mai detto, io non ti ho mai illuso, hai capito male. Comincia a farlo che è ancora sudaticcio di lenzuola, da non confondere con la peggiore, la piovra triste». Eh? «La piovra triste. E’ quello che ti si avvinghia addosso, tentacolare, appiccicoso e salmastro, sudaticcio e servile, sentimentalistico, improvvisamente grato d’esser stato scelto tra milioni di altri, nostalgico della donna che non sa avere, e che ovviamente tu non sei mai. E’ possessivo, desideroso di marcare un territorio che in realtà neppure gli interessa: nell’insieme una cosa molle, come la lumaca avvizzita che ha strozzato tra le sue gambe pelose». Mi guardai la lumaca. Fu inevitabile. «E’ incredibile che quell’ameba informe - insomma l’uomo - un tempo fu guerriero, cacciatore, principe, conquistatore, inseminatore: tutta roba che ormai è proiettata solo nell’immaginario femminile, oppure al cinema, alla peggio nel potere e nella grana di qualche idiota da rotocalco. Il cane morto, la piovra triste, la bestia che sia: è comunque un bambinone smarrito e incerto che alla fine esce perdente da qualsiasi scopata. La donna se ne fotte. Lo guarda perplessa: lei del resto è incapace di concepire le cazzate che lui si è sempre inventato per dare un senso alla propria esistenza». Parlava e non mi guardava. Il discorso filava. Si era messa una specie di vestaglietta. «La donna certi problemi non li ha, perché la donna un senso ce l’ha, ed è un senso che corrisponde all’unica cosa certa e concreta di questa Terra: scopare, dare la vita. E magari, se lui si decidesse a schiodare, dormire un po’ di più la notte. Ma lui spesso non schioda. Lui non pensa alla Terra, pensa al Cielo: corteggia idoli, sbarca sulla Luna, è lì sul letto e si è fatto meditabondo, l’orgasmo l’ha reso mistico e vagheggiante, ripensa il proprio ruolo nel Cosmo mentre lei intanto è solo luminosa e carnale, di buon umore: il suo posto nell’universo già ce l’ha». La mia lumaca intanto era diventata come da bambino, in piscina. «Sì. Che poi è vero, noi alla fine cerchiamo sempre un uomo, ma nel cercarlo siamo molto più serie e determinate di voi. Può capitare il divertimento di una sera: ma poi aria, che le commedie e le sceneggiate le riconosciamo anche quando fingiamo di crederci. Aria, perché siete patetici». Siamo cani morti. «Cani morti che non sanno mai di esserlo. Ogni volta il cane morto parla, fuma, spesso puzza, non si accorge che lei già indossa la vestaglietta da notte. Guarda ma non vede, non vede l’espressione pietosamente scocciata di lei». La quarta o quinta sigaretta non l’accesi, perché mi s’inceppò il braccio a mezz’aria. Non mi ero accorto di come mi stava guardando da almeno un quarto d’ora. Ero un cane morto. Ero una piovra triste. Mi rivestii in fretta. Infilai i tentacoli nei pantaloni e nella giacca. Un saluto veloce. Bau.