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 2015  gennaio 31 Sabato calendario

FIN DOVE PUÒ ARRIVARE IL QE

Come era prevedibile, anche la Banca centrale europea si è unita alle principali autorità monetarie nel più grande esperimento della storia delle banche centrali. Ormai lo schema è più che familiare. Le banche centrali riducono il tasso convenzionale fino al temuto “zero”, poi di fronte ad una protratta debolezza economica e con l’esaurimento degli strumenti convenzionali, abbracciano l’approccio non convenzionale del quantitative easing (Qe).
La teoria che sta dietro a questa strategia è semplice: nell’impossibilità di ridurre ulteriormente il prezzo del credito, si sposta l’attenzione sull’aumento della quantità del credito. L’argomentazione implicita è che lo spostamento dalle modifiche sul prezzo alla quantità è pari all’equivalente funzionale di un’ulteriore implementazione del quantitative easing. Si dice che anche ad un tasso di interessi nominale pari a zero, le banche centrali continuino ad avere delle armi a disposizione nel proprio arsenale.
Ma questi strumenti sono in grado di raggiungere l’obiettivo? Per la Bce e la Banca del Giappone, che hanno di fronte rischi significativi di perdita rispetto alle loro economie e al livello del prezzo aggregato, questa domanda è pertinente. Per gli Usa, dove le recenti conseguenze del Qe devono ancora palesarsi, la risposta è altrettanto consequenziale.
L’impatto della politica del quantitative easing si basa sulle tre T della politica monetaria: transmission (ovvero i canali coi quali la politica monetaria ha un impatto sull’economia reale), traction (la capacità di risposta delle economie alle strategie politiche), e time consistency, la coerenza della tempistica (l’incrollabile certezza della promessa da parte delle autorità di raggiungere dei target come piena occupazione e stabilità dei prezzi). Nonostante la reazione positiva dei mercati al Qe, per non parlare dell’autocompiacimento della Fed negli Usa, l’analisi basata sulle tre T dovrebbe far riflettere la Bce.
In termini di trasmissione, la Fed si è focalizzata sul cosiddetto effetto benessere. Innanzitutto, l’allargamento del bilancio a 3,6 miliardi di dollari a partire dalla fine del 2008 (che è poi andato oltre i 2,5 trilioni di dollari in termini di crescita nominale del Pil nel periodo di quantitative easing) ha fatto crescere i mercati finanziari. Si è arrivati a pensare che il miglioramento della prestazione del portafoglio degli investitori, rispecchiato in una crescita pari a tre volte tanto la quotazione dell’indice S&P 500 dal valore più basso raggiunto a marzo 2009 a causa della crisi, avrebbe portato a un rapido aumento dei consumi da parte di cittadini sempre più benestanti. La Banca del Giappone ha usato un’argomentazione simile per la propria politica di quantitative e qualitative easing.
La Bce, tuttavia, avrà maggiori difficoltà a puntare sull’effetto benessere, soprattutto perché il possesso di capitale da parte degli individui (sia diretto sia tramite conti pensione) è numericamente molto più basso in Europa rispetto a Stati Uniti o Giappone. Per l’Europa sembra più probabile che la trasmissione avvenga attraverso le banche oppure attraverso i canali valutari in quanto un euro più debole (sceso del 15% circa rispetto al dollaro nell’ultimo anno) tende a incoraggiare le esportazioni.
Lo scoglio maggiore per il quantitative easing riguarda tuttavia la trazione. Gli Stati Uniti, dove il consumo ha rappresentato l’entità del disavanzo nella fase di ripresa successiva alla crisi, sono un caso esemplificativo in questo senso. In un ambiente di eccesso di debito e di risparmio inadeguato, l’effetto benessere non ha fatto molto per migliorare il bilancio della recessione che ha colpito duramente le famiglie statunitensi quando sono scoppiate la bolla immobiliare e la bolla creditizia. Infatti, la crescita del consumo reale su base annuale si è stabilizzata sin dall’inizio del 2008 solo all’1,3%. Con l’attuale ripresa del Pil reale grazie ad una crescita annuale intorno al 2,3%, pari a due punti percentuali al di sotto della media dei cicli precedenti, è difficile giustificare il diffuso apprezzamento del quantitative easing.
L’enorme campagna a favore del quantitative easing da parte del Giappone ha avuto dei problemi simili legati alla trazione. Dopo aver allargato il proprio bilancio fino a circa il 60% del Pil (ovvero il doppio rispetto alla Fed), la Banca del Giappone si sta accorgendo che la sua strategia per porre fine alla deflazione è sempre più inefficace. Il Giappone è infatti ricaduto in recessione e la Banca del Giappone ha appena ridotto il target d’inflazione per l’anno in corso dall’1,7% all’1%.
Infine, la politica del quantitative easing ha deluso anche in termini di coerenza del tempo. La Fed ha da tempo definito la strategia di normalizzazione successiva al quantitative easing con una serie di condizioni legate ad un insieme di dati relativi allo stato dell’economia ed ai rischi dell’inflazione. Inoltre, utilizza messaggi ambigui nel definire le linee guida per i mercati finanziari passando dalla recente promessa di mantenere i tassi bassi per un periodo di tempo “considerevole”, all’ impegno di decidere “con calma” quando alzare i tassi.
Ma è stata in realtà la Banca nazionale svizzera, che ha stampato moneta per evitare un apprezzamento eccessivo dopo aver ancorato la sua valuta all’euro nel 2011, a dare il colpo di grazia al quantitative easing. Abbandonando all’improvviso l’ancoraggio all’euro lo scorso 15 gennaio, ovvero solo un mese dopo aver ribadito l’impegno nei confronti della moneta unica, la Banca nazionale svizzera, un tempo molto disciplinata, ha così distrutto la credibilità dei requisiti di coerenza della tempistica.
Dato che il capitale della Banca nazionale svizzera rappresenta circa il 90% del Pil della Svizzera, quest’inversione di tendenza solleva quesiti importanti sia sui limiti sia sulle ripercussioni di un quantitative easing aperto. E serve inoltre a ricordare la fragilità delle promesse, come quella fatta dal presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto ciò che serve» per salvare l’euro.
Nell’era del quantitative easing, la politica monetaria ha perso qualsiasi sembianza di disciplina e coerenza. Mentre Draghi cerca di ottenere qualche risultato nel suo mandato di quasi due anni e mezzo, i limiti delle sue promesse, proprio come le rassicurazioni analoghe da parte della Fed e della Banca del Giappone, potrebbero diventare sempre più evidenti. Proprio come dei lemming sull’orlo del precipizio, le banche centrali continuano a negare i rischi che si trovano di fronte.
(Traduzione di Marzia Pecorari)
Stephen S. Roach, Il Sole 24 Ore 31/1/2015