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 2015  gennaio 31 Sabato calendario

LE PAROLE E LA REALTÀ

Alexis Tsipras, il nuovo premier greco, l’ha sempre detto: Atene non vuole uscire dall’euro. Eppure sui mercati finanziari il solo pensiero che questo possa accadere sta creando una serie di effetti a catena, che rischiano di mettere in ginocchio la Grecia prima ancora che il Governo agisca: la Borsa di Atene è crollata del 15% in tre giorni, il rendimento dei titoli di Stato triennali è lievitato al 19% e le banche greche hanno perso il 10% circa dei depositi. Ecco cosa accade solo a ventilare l’ipotesi dell’uscita di un Paese dall’euro: il mercato lo stecchisce prima ancora che questo accada.
Questo è il vero problema da non sottovalutare nel dibattito su «euro sì-euro no» che ormai divide le popolazioni europee come tra moderni guelfi e ghibellini: i mercati finanziari sono così integrati, così giganteschi, così veloci e così cinici che si muovono prima ancora che qualunque Governo possa convocare un consiglio dei ministri. A loro non importa se Tsipras abbia idee valide oppure no, se sia possibile trovare un compromesso sul debito con l’Europa oppure no: i mercati tendono sempre ad anticipare gli eventi. Purtroppo talvolta - come disse nel lontano 1994 George Soros - contribuiscono a crearli.
Così, nonostante le rassicurazioni di Tsipras, gli investitori ma anche i privati cittadini si stanno comportando come se la Grecia dovesse davvero uscire dall’euro. E, a lungo andare, rischiano di mettere Atene con le spalle al muro più della Troika o di Bruxelles. Chiamateli speculatori, locuste, sanguisughe: ma con questo mondo, purtroppo, bisogna confrontarsi.
2015: fuga da Atene
Il primo comportamento logico di chi teme che un Paese esca dall’euro è infatti quello di portare via i soldi dalle banche o dai titoli di quel Paese. Dato che l’eventuale «nuova dracma» si svaluterebbe rispetto all’euro (secondo uno studio del Cepr, nella storia l’abbandono di una forma di unione monetaria ha mediamente comportato una svalutazione del 46%), chiunque abbia depositi nelle banche greche o soldi investiti sui mercati greci avrebbe una perdita pari al ribasso della moneta. Questo vale per gli stranieri, per esempio per gli investitori europei o americani che hanno i bilanci in euro e dollari forti. Ma in fondo anche i greci stessi hanno poca convenienza a lasciare i risparmi nelle banche locali: semplicemente trasferendoli in Germania o in Svizzera, infatti, li metterebbero al riparo su valute forti. Anzi: in caso di svalutazione della «dracma», ci guadagnerebbero.
Questo è il motivo per cui i capitali fuggono da Atene. E scappano ora, prima che l’estrema ipotesi di «Grexit» si materializzi davvero. Solo a dicembre, quando i sondaggi davano già vincente Syriza, le banche greche hanno perso 4,5 miliardi di euro di depositi (dato Bce). Ma l’emorragia è poi continuata e le indiscrezioni, riportate ieri in uno studio di Barclays, indicano nelle ultime settimane un’uscita dagli istituti di credito di 20 miliardi di euro: cifra pari al 10% dei depositi totali. E il salasso continua. Questo fenomeno è da solo in grado di mandare al tappeto un Paese come quello ellenico. Le banche non possono sopportare un’emorragia del genere: la perdita di liquidità, soprattutto per istituti che non hanno accesso al mercato per reperire capitali, si traduce infatti ben presto in insolvenza. Per ora le banche greche stanno in piedi grazie alla «flebo» della Bce, che eroga loro liquidità attraverso la linea di emergenza chiamata «Ela». Ma sono vere e proprie banche-zombie. E presto (il 4 febbraio ci sarà la prima decisione in merito) la Bce potrebbe chiudere la «flebo»: in tal caso il default degli zombie sarebbe inevitabile.
L’altro problema derivante dalla fuga di capitali è legato agli squilibri che questo crea nel sistema dei pagamenti «Target 2». Ogni euro che esce dalla Grecia per andare - per esempio - in Germania, crea infatti uno squilibrio a livello di banche centrali: quella greca ha un euro di debito verso l’Eurosistema, mentre la Bundesbank (nel nostro esempio) ha un euro di credito. Più la fuga continua, più il debito greco su «Target 2» cresce. A dicembre il «buco» era già di 49 miliardi di euro, ma ora è verosimilmente molto più grosso. Questo accentua gli squilibri: problema che la Grecia dovrebbe affrontare anche dopo un’ipotetica uscita dall’euro.
Ma la fuga di capitali è forte anche sul mercato obbligazionario. Lo dimostra il fatto che i rendimenti dei titoli di Stato greci e delle obbligazioni aziendali sono ormai saliti su livelli estremi. I titoli di Stato triennali rendono ormai il 19%: questo significa che nessuno vuole più prestare soldi al Paese. Quindi neppure alle sue banche, né alle sue imprese. Più che di «credit crunch», si tratta di un «credit crack». Prima ancora che Tsipras abbia iniziato a trattare con Bruxelles, dunque, il mercato (ma anche i risparmiatori greci che hanno ancora soldi) ha tolto la linfa vitale al Paese: la liquidità. Il credito. Insomma: la sopravvivenza.
Dibattito su «Eurexit»
Quanto sta accadendo in questi giorni deve dunque offrire qualche elemento in più per il dibattito, anche in Italia, sulla permanenza o meno nell’euro. Che le regole europee siano ormai eccessive camicie di forza è fuori dubbio. È dunque comprensibile che tra le popolazioni maturi sempre più la voglia di uscire. Ma prima di valutare un’opzione del genere, bisogna porsi qualche domanda: un Paese in crisi ha le spalle abbastanza larghe per affrontare un’eventuale emorragia di capitali così forte? Anche stampando moneta (debole), sarebbe possibile resistere al contraccolpo?
In fondo l’euro rappresenta, pur con tutti i suoi problemi, un parafulmine per tutti. I tuoni che colpiscono Atene, solo perché il mercato sospetta che prima o poi possa uscirne, lo dimostrano. Ma la conferma arriva anche dal fatto che un Paese come l’Italia oggi - a differenza del 2012 - non sta subendo alcun effetto contagio dalla Grecia: perché oggi c’è la Bce (con il «quantitative easing» e soprattutto con lo scudo Omt) ad annullare i rischi e i contraccolpi. Insomma: è Mario Draghi a parare i fulmini. E in fondo lo stesso concetto è ribadito anche dalle contromosse che Paesi piccoli, fuori dall’euro, hanno dovuto adottare in questi giorni per far fronte agli effetti collaterali (per loro) del «bazooka» della Bce: dalla Svizzera alla Danimarca, fino alla Turchia.
Prima ancora di ragionare sui pro e i contro di una vita fuori dall’euro, bisogna dunque porsi il tema degli effetti collaterali immediati. Quelli fulminanti. Perché potrebbero essere non pochi: c’è il problema dei tanti debiti di imprese, banche e Enti locali espressi in obbligazioni, perché queste ultime sono disciplinate dalla legge inglese e andrebbero comunque rimborsate in euro. C’è il problema della fuga di capitali, in grado di ammazzare qualunque banca in pochi giorni. C’è il tema del rifinanziamento del debito pubblico e privato. E c’è il nodo di «Target 2». Tante, forse troppe, incognite.
Morya Longo, Il Sole 24 Ore 31/1/2015