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 2015  gennaio 31 Sabato calendario

QUESTIONE DI MANAGER

La prima volta nella storia recente fu il 20 febbraio 1999. Quel sabato pomeriggio, sotto il tendone di Boccabusa, alla periferia di Mantova, i soci della Banca Agricola Mantovana votarono la trasformazione in società per azioni, abbandonando quella forma cooperativa che lo storico istituto lombardo aveva scelto oltre 120 anni prima. Chi partecipò all’assemblea ricorda ancora oggi la tenace battaglia di quei giorni, testimoniata dal risultato tutt’altro che unanime della votazione: solo 5.700 azionisti su quasi 10 mila si espressero a favore della nuova governance, ultima tappa dell’offerta lanciata dal Montepaschi di Pier Luigi Fabrizi e Divo Gronchi alla fine del 1998. Anche se la Bam era tutt’altro che un’istituzione provinciale (lo testimonia lo stretto legame intercorso con le famiglie Marcegaglia, Colaninno, Lonati e Zanetti e la sterzata verso il potere capitolino con il tentativo di entrare in Banca di Roma), le ragioni del localismo si fecero sentire con forza nel corpo sociale. Si parlò di una «svendita» e di una «perdita di autonomia e di occupazione» e Assopopolari, l’associazione di categoria allora guidata da Siro Lombardini (presidente della Banca popolare di Novara), attaccò senza mezzi termini il progetto di trasformazione, invitando i soci della Bam a votare contro la proposta. Alla fine però le ragioni del mercato ebbero la meglio e, sebbene non siano mancate polemiche sulla sessantina di bus arrivati da Roma, lo storico presidente Piermaria Pacchioni uscì di scena con il massimo del fair play: «Il matrimonio ha molti dolori, ma il celibato non ha gioie».
A ben vedere però i soci della Bam non andarono incontro al futuro nefasto che le cassandre avevano prefigurato. Perché se è vero che gli impieghi della controllata di Mps si assottigliarono lievemente, anche le spese amministrative registrarono un’inversione di tendenza, calando dai 594 miliardi di lire del 1998 ai 307 milioni di euro del 2001. Il flusso cedolare risultò generoso e, oltre al dividendo straordinario di 2 mila lire staccato nel 1999, negli esercizi successivi gli azionisti furono remunerati con cedole in costante crescita (600 lire nel 1999, 700 lire nel 2000, 0,46 euro nel 2001 e 0,53 euro nel 2002). È pur vero comunque che, perduta l’indipendenza, la Bam non avrebbe fatto ancora molta strada. Nel febbraio 2003 l’assemblea del Monte approvò a maggioranza la fusione per incorporazione di Bam e Banca Toscana (entrambe quotate) nella capogruppo, spazzando via uno dei nomi storici della finanza italiana, che sarebbe rimasto solo come marchio. Con quale contropartita? Agli azionisti vennero offerti titoli del gruppo senese in un concambio di 4,15 azioni ordinarie Mps per ciascuna ordinaria Bam. Anche se oggi quello scambio può apparire tutt’altro che vantaggioso per lo spaventoso depauperamento subito dal titolo Montepaschi, all’epoca sembrò equo agli esperti di mercato.
Esiti diversi ebbe un’altra grande trasformazione da popolare a società per azioni, quella della Banca Antonveneta, nata come Banca popolare Antoniana Veneta. In quel caso l’assemblea decisiva si tenne venerdì 7 settembre 2001 alla Fiera di Padova, dove si riunirono i 2.200 soci dell’istituto patavino allora guidato dal direttore generale Silvano Pontello (regista dell’operazione) e dal presidente Dino Marchiorello.
A differenza del caso mantovano, per Antonveneta il cambio di governance fu assai meno traumatico, anche perché non era finalizzato a un passaggio di proprietà, come avvenuto per la Bam, ma a una quotazione in Piazza Affari. E così la platea di venerdì 7 settembre 2001, composta tra gli altri da Gilberto Benetton, Emilio Gnutti, Giuseppe Stefanel e Paolo Sinigaglia tributò un consenso quasi unanime al nuovo statuto. «Il gruppo ha ormai una dimensione nazionale e la Spa appare il modello organizzativo più adatto a sostenere il futuro sviluppo», spiegò Pontello, esponendo ragioni che gli eventi successivi avrebbero solo parzialmente confermato. La nuova Antonveneta spa riservò infatti più di una doccia gelata agli azionisti. Se nel 2002 il dividendo restò invariato a 0,60 euro, l’anno successivo tutti rimasero a bocca asciutta per una perdita da 843 milioni, mentre nel 2004 ci si accontentò di una cedola di appena 0,45 euro. Anche gli impieghi subirono una contrazione che li portò dai 36,9 miliardi del 2002 ai 35,2 miliardi del 2005, mentre le spese amministrative crebbero del 5%, a quota 1,18 miliardi. Le vicissitudini di Bancopoli, l’interregno di Abn Amro e Santander e la sfortunata acquisizione da parte del Montepaschi erano ancora di là da venire, ma molti erano già convinti che l’operazione del 2001 fosse stata un magro affare. Va da sé insomma che ogni trasformazione da banca popolare a società per azioni ha una storia propria, con esiti legati soprattutto alle strategie industriali e al contesto di mercato in cui la banca si trova a operare. «A dimostrazione che spesso un buon management vale più di un buono statuto», chiosa garbatamente un ex banchiere.
Luca Gualtieri, MilanoFinanza 31/1/2015