Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 31 Sabato calendario

Mattarella eletto presidente della Repubblica. Sedici articoli su di lui


1. ATTILIO BOLZONI, LA REPUBBLICA -
In questa foto c’è il destino di un uomo.
C’è la storia di una famiglia che è l’attraversamento della Sicilia, c’è il confine fra la vita e la morte. Era ancora vivo, respirava ancora il Presidente della Regione Piersanti Mattarella quando suo fratello Sergio lo stava tirando fuori dalla berlina scura dove era rimasto schiacciato qualche istante prima da otto pallottole. Era ancora vivo quando lui cercava di prenderlo per le spalle e gli sorreggeva il capo mentre la moglie Irma gli spingeva le gambe, spingeva e spingeva senza sentire più il dolore per quelle dita spezzate da uno dei proiettili.
Questa è una foto che racconta molto dei Mattarella, padri, figli, fratelli, c’è dentro la Palermo degli Anni Ottanta, c’è dentro la paura, il prima e il dopo, c’è soprattutto l’attimo in cui cambia per sempre l’esistenza di un tranquillo professore universitario che ha fra le braccia il fratello morente e raccoglie l’eredità di una stirpe politica che con orme assai diverse ha profondamente segnato la vicenda siciliana fin dal dopoguerra. Proprio in qualche secondo è cambiato tutto per il professore Sergio Mattarella, fra le 12,30 e le 13 del giorno dell’Epifania del 1980. Strade quasi deserte dalla Statua fino al teatro Politeama, sole, chiese, campane e spari. Spari nella città dove si faceva politica con la pistola.
Ero lì, quella mattina del 6 gennaio. C’era qualcosa di informe fra quell’auto e l’asfalto, sembrava un manichino ma io – per non volere vedere un altro corpo massacrato di Palermo (capita ai giovani cronisti di «nera») - non distoglievo lo sguardo dalle dita di quella donna, la moglie Irma Chiazzese, l’indice e il pollice della mano sinistra frantumati, i tendini lacerati. Il fratello Sergio aveva la faccia più bianca dei suoi capelli, la figlia Maria si disperava sul sedile posteriore della Fiat 132 coprendosi il volto, il figlio Bernardo era immobile vicino al cancello.
Ero arrivato in via Libertà – la strada delle splendide ville liberty di Palermo che non c’erano più, fatte saltare in aria di notte con la dinamite per costruire palazzi di mafia - qualche minuto dopo Letizia Battaglia, la fotografa di questo scatto. «Chi è, Letizia? Dimmi chi è? Sai il nome?», le ho chiesto sicuro di una risposta. «Non lo so ancora, sono passata di qui e pensavo a un incidente stradale, poi ho visto qualcuno dentro la macchina e mi sono messa a correre e a tremare ». Letizia puntava l’obiettivo della sua camera dentro l’auto, Franco Zecchin – il suo compagno e fotografo anche lui – riprendeva gli uomini e le donne che si stavano radunando in silenzio davanti al marciapiedi di via Libertà numero 147, la casa dove abitava Piersanti Mattarella, allievo di Aldo Moro che stava portando la sua «rivoluzione» in un’isola che non voleva cambiare.
Stavano andando tutti a messa, come in ogni giorno di festa. Tutta la famiglia Mattarella. Soli, la scorta l’avevano lasciata libera. Poi quel «giovane in jeans e giubbotto che saltellava» e che era appena sceso da un’utilitaria bianca, aveva sparato quattro colpi, se n’era andato, era tornato indietro per spararne altri quattro. E poi quella scena, il fratello Sergio che provava a sollevarlo e tratteneva il suo corpo come per trattenere – in quel momento senza saperlo, senza neanche immaginare cosa sarebbe stata la sua vita dal giorno dopo e negli anni a venire – il suo lascito e il suo pensiero. L’eredità. Quella di Piersanti, gravosa e pericolosa. Quella del padre Bernardo ingombrante, molto scomoda. Avveniva tutto inspiegabilmente in mezzo al sangue e in mezzo al terrore, la cognata ferita, i nipoti sconvolti, tutto fra le 12,30 e le 13 di un giorno di Epifania in via Libertà a Palermo. Piersanti il fratello Presidente che voleva nuove regole e pulizia e il padre Bernardo con quelle ombre che scaraventavano in un passato cupo. Il fratello che sognava una Sicilia più libera e le voci sul padre che portavano indietro, a Castellammare del Golfo, patria dei «castellammaresi » che dal 1925 erano diventati re anche a New York, una moglie che si chiamava Maria Buccellato (famiglia di aristocrazia mafiosa), i sospetti sui suoi legami con i potentissimi Rimi di Alcamo, le accuse (mai provate) di Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo negli Anni Cinquanta, i dossier del sociologo triestino Danilo Dolci (condannato per diffamazione e amnistiato) sulle sue complicità nel Trapanese, le molte pagine dedicate dalla prima commissione parlamentare antimafia fino alle confessioni più recenti dell’ultimo pentito di Cosa Nostra Francesco Di Carlo.
Ma quel 6 gennaio del 1980 – in verità almeno da un paio di anni prima, quando Piersanti era stato eletto Presidente e subito aveva cominciato a manifestare il suo desiderio di ribaltare una Regione impastata di mafia - e quell’immagine del fratello in fin di vita sono diventate lo spartiacque fra Castellammare del Golfo e Palermo, il passaggio da una generazione all’altra, il cambio di passo. Non era forse proprio quella la ragione - il cambio di passo, la svolta – che aveva fatto ritrovare quella mattina il professore universitario piegato a sostenere il corpo martoriato del fratello? Non era stata forse la decisione e la forza di Piersanti a mettere paura a gente come Vito Ciancimino e a tutti quegli assassini che circolavano per la Sicilia e chissà dove altro ancora? Non lo sapeva ancora il tranquillo professore universitario che quelle otto pallottole rappresentavano non solo, come si diceva allora in Sicilia, un omicidio di tipo «preventivo», quelli che vengono ordinati per eliminare un pericolo imminente. Era anche «dimostrativo », di quegli altri omicidi che servono come monito, che portano sempre una minaccia che raggiunge tutti, omicidi che producono paura. La paura che c’è in questa foto. Prima di andarmene da via Libertà, quel giorno mi sono guardato intorno. A duecento metri avevano ucciso qualche mese prima il capo della squadra mobile Boris Giuliano, a trecento metri il consigliere istruttore Cesare Terranova, a cinquecento metri il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. E, a meno di un chilometro, il nostro bravissimo collega Mario Francese.

*****

2. FRANCESCO MERLO, LA REPUBBLICA -
Vedovo, dolente e creativo, è facile immaginarlo perduto nell’immensità soffocante del Quirinale come Casimiro, il triste Vicerè di Sicilia, che viveva in una sola stanza «a sognare e a temere il crollo della luna» e tutto il resto del Palazzo «gli era terra straniera». Soprattutto da quando è morta la sua Marisa, Sergio Mattarella cerca la compagnia del «caro paralume» che Massimo Severo Giannini consigliava ai suoi allievi. E quel paralume, «meglio se verde », è per Mattarella la metafora della lettura ma anche della solitudine e della malinconia che nella sua rara Sicilia “dolorista” è il contrario dei carretti colorati e del bacio, rituale del comparaggio sia nella forma del vasa vasa pubblico di Totò Cuffaro sia in quella del bacio segreto che Andreotti (non) diede a Totò Riina.
E sto dicendo che nel compromesso e nella mediazione, il siciliano schivo, coperto e cauto, non trova mai la festa ma sempre quel tormento, che il più dolorista di tutti, Aldo Moro, chiamava «senso della storia», e che lo spinse sino alle geniali e mostruose invenzioni del Mattarellum. All’inizio, da siciliano tragico e superbo che brancatianamente vede il nero anche nel sole, lo umiliava che “Mattarellum” fosse entrato nel vocabolario come sinonimo di pastrocchio e di inciucio. Credeva davvero che potesse passare alla storia con gli strambi nomi di ‘scorporo’ e di ‘doppio turno di coalizione’ quel suo raffinato ossimoro che è il maggioritario proporzionale, traduzione italiana del mito anglosassone, della civiltà dell’alternanza e della stabilità.
Quando, ai tempi della Bicamerale, lo avevano visto uscire dalla casa di Gianni Letta dove aveva cenato con Berlusconi e Fini, così Mattarella si giustificò con l’allora cronista dell’Unità Rosanna Lampugnani: «Davvero credete che nel 1947 non ci fossero cene e incontri riservati? L’articolo 7, per esempio. Pensate che si sarebbe potuto scrivere senza contatti riservati tra Togliatti, De Gasperi e il Vaticano?». Mattarella è insomma convinto che cenare in casa del diavolo sia una pesante necessità morale, un tipico dovere da padri della patria, non una gioia maligna come nell’andreottismo, o un’avidità allegra come nei socialisti, o una superbia elitaria come nei comunisti, meno che mai un’arraffa arraffa come nel berlusconismo.
«E’ dolorismo siciliano» concludeva il suo amico Rino Nicolosi che, evocando l’antica eresia cristiana, aveva soprannominato Sergio “il Martirello”. E non solo perché era fratello di un eroe martire dell’antimafia ma anche perché viveva la politica, alla quale aveva cercato fortemente di resistere, con la sofferenza tipica appunto del moroteismo e in più quel tocco speciale di antropologia dei siciliani sciasciani «di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio» come sta scritto nella dedica di «Morte dell’inquisitore’ che racconta di Diego La Matina, l’eretico racalmutese arso sul rogo di Palermo nel 1658. E come Sciascia, Mattarella è un siciliano muto, di quelli che coltivano l’utopia del Tommaseo che sognava di coniugare la concisione con la precisione. Ama così tanto la parola da considerarla uno spreco. Un taciturno palermitano con il tormento della politica, dunque, venuto a fare l’originale a Roma, dove aveva studiato da ragazzo quando il padre Bernardo era ministro di Aldo Moro. Anche Sergio Mattarella — come Sciascia, Sellerio, Bufalino, Consolo — imponeva il suo silenzio ai commensali, sempre quelli, che si portava dietro, tutti con gli occhi perduti dentro il piatto. Ne cercava la compagnia per mostrare la sua solitudine, che è quella della Sicilia terragna, Sicilia di scoglio diceva ancora Sciascia e non di mare aperto, mai di avventura. Di nuovo come Sciascia, che non fece mai in tutta la vita un solo bagno al mare, Mattarella non sa nuotare, ha bisogno del ‘ciambellum’ nonostante la bella casa di Scopello dove la famiglia andava in villeggiatura. Sono così i siciliani muti, nodosi, solitari, sobri, schivi e diffidenti, insomma i tanti siciliani fuori genere: il mare per loro è ancora il pericolo, non più dell’invasione ma dell’allegra follia, del puro capriccio dell’amore o di una pugnalata e della felicità sanguigna. Capita anche che questi siciliani d’altra razza abbiano dettagli fisici in dissonanza, i riccioli d’oro di Vincenzo Bellini, l’altezza dinoccolata di Bufalino, il rosso dei capelli di Antonio Sellerio, la bellezza nordica di Ludovico Corrao, la voce rauca da jazzista nero di Mario Biondi, il volto sufi di Battiato, i dolci colori di Stefania Prestigiacomo, gli occhi grigi di Anna Finocchiaro, e gli occhi di Sergio Mattarella che non solo sono celesti ma sono ipercontrollati, più di quelli di un piemontese. Al contrario di Calogero Sedara che istintivamente si passa una mano sugli occhi e cambia lo sguardo, mai il sentimento di Mattarella arriva sino a lì. «Guardalo — diceva Marcello Pera a Silvio Berlusconi — sembra uscito da un racconto curiale». A Palermo il professor Virga, che gli fu maestro, riferiva a lui un famoso e dotto aforisma: «Sergio si affretta sempre, ma lentamente». E Calogero Mannino: «E’ tenacissimo e insistente come la goccia che cade e poi ricade, ricade, ricade... ». E non è vero che sia il grigio il suo colore. In Sicilia il grigio non esiste. Il suo colore è il celeste, che può essere raccontato come un blu stinto, un blu indebolito, il gozzaniano “azzurro di stoviglia” oppure come il cielo; ed è vaniglia la sua personalità: dolciastra indecisione o sobrietà e festa di nuances?
E chissà come sarà, a partire da oggi, il suo Quirinale nella notte che per il Vicerè Casimiro «era l’ora delle ombre, delle apparenze, di fumose e sbieche riflessioni: ed ecco le Regine tiranne, i Cancellieri subdoli, i Ministri ladri, i violenti Donatori d’abbazie, i Vescovi impietosi…». In fondo sa molto di Sicilia lo sfarzo inutile e inappropriato del Quirinale che forse Mattarella, nemico di ogni eccesso estetico, umbratile e sensibile siciliano fenicio che non perdona, potrebbe finalmente liberare dall’ingombro della presidenza e trasformare in un museo.
«Per un cristiano la politica è insieme doverosa e impossibile» dicevano sia Mattarella e sia Martinazzoli che era bresciano e, somigliando ai Cristoni scalpellati e con pochi capelli della sua terra abitata dai santoni, si meravigliava che il Cristo di Mattarella non somigliasse alla Sicilia dei carretti e non fosse dunque colorato e sanguinante come nelle processioni di Palermo, quelle con le sette spade che trafiggono il petto dell’Addolorata, ma fosse invece di filigrana sottile, il Cristo con il sorriso dolce e amaro di una vita che è stata investita dalla tragedia.
Ma non bisogna credere che sia stata tutta così la sinistra democristiana perché, per esempio, allegrone e bon vivant era Marcora, e c’è pure De Mita che è stata tutta un’altra faccenda. «Io — mi disse una volta Mattarella — ho l’orgoglio della storia migliore della Dc che è un momento importante della storia migliore del Paese». E non è vero che rientra dalla porta del Quirinale il partito torrido e fronzuto che, via Palermo, era stato espulso dall’Italia. Sergio Mattarella, proprio grazie alla tragica Sicilia mafiosa e antimafiosa a cui appartiene, fu infatti la faccia drammatica dell’altra Dc, quella che dentro la Dc svolgeva il ruolo dell’anti Dc, quella che appunto già allora si ‘scorporava’ da sé, dal padre Bernardo, che fu un notabile palermitano, ma anche dal fratello Piersanti che era il suo opposto, il siciliano allegro, chiacchierone e spavaldo, l’hidalgo di quella Sicilia «che è più Spagna della Spagna». Fu infatti Sergio che diede vita alla primavera palermitana di Orlando, Sergio che cacciò le clientele ereditate dal padre, Sergio che ora non ha clero, non ha uomini nelle commissioni, negli enti locali, in Parlamento e neppure fa paura ai giornali. Non esiste il mattarellismo perché Sergio fu la Dc che in nome della Dc avvelenò i pozzi di casa. «Sergio diceva anche nei comizi — racconta oggi Vito Riggio — che la sua, la nostra, era la Dc come doveva essere, e non com’era». Da vicesegretario di Forlani apertamente criticava Forlani che reagiva così: «Sospetto che il mio vice faccia in realtà le veci di qualcun altro, ma non ho capito di chi». E Andreotti, di cui fu ministro della Pubblica istruzione: «Quel Mattarella che rilascia dichiarazioni contro il governo dev’essere un omonimo del ministro che sta nel mio governo». Ecco, Mattarella fu il sabotatore della casa, l’invenzione più riuscita della democristianità siciliana: quella che l’avvelenò per purificarla. Adesso, quando ormai non ci pensava più, il siciliano più testone d’Italia la riporta nel Palazzo del viceré Casimiro dove «si scrostano gli ori, crepano i cuoi, si scollano gli affreschi, le portantine crocchiano, s’affumicano i topazi, bruniscono gli argenti, muffiscono le sete, fioriscono d’arsenico i bronzi e gli oricalchi».

******

3. MATTIA FELTRI, LA STAMPA -
Previsione del titolo di un settennato: «La garanzia della fermezza silenziosa». Mette i brividi. Ma è un titolo rubato di bocca a Rosi Bindi, che è la statua equestre della sinistra democristiana, donna di pelle dura che però si commuove appena sente pronunciare due parole: Sergio Mattarella. Ecco il presidente che sarà, «un difensore non manifestato della Costituzione». O anche «l’autorevolezza nella riservatezza». Per venire a un gergo meno istituzionalmente spirituale, Mattarella «non firmerà le leggi che riterrà incostituzionali, ma senza trambusti, riservatamente, impedendo che diventi faccenda di strepito giornalistico». La sentite già la nuova quiete? Magari apparente ma silenziosa, il ritorno di un capo dello Stato già consegnato all’iconografia di uomo di studi, chino sulle ponderose dottrine, programmato per citare l’articolo acconcio e il comma confacente, opporlo con tono fra lo ieratico e l’accademico all’esuberanza legislativa del governo di Matteo Renzi. Un tipo di presidente ormai sperduto nelle epoche, cancellato dalla popolare ruvidezza di Sandro Pertini, dalla sfacciataggine del picconatore Francesco Cossiga alla fine della Prima repubblica, dal ringhio etico di Oscar Luigi Scalfaro, anche quando si oppose alla magistratura che quell’etica aveva messo in dubbio («Io non ci sto», disse a reti unificate). Cancellato anche dagli imprevedibili nove anni di Giorgio Napolitano, trascinato dagli eventi su terreni mai battuti dai predecessori, e in fondo anche da Carlo Azeglio Ciampi, in cui pesavano i trascorsi nel Partito d’azione e l’irresistibile scalata in Banca d’Italia.
Il professorone silente
Qui, dicono tutti, siamo di fronte a un professorone che non si è guadagnato il titolo nella declinazione spregiativa assegnata dai ragazzi dell’esecutivo ai cattedratici antiriforme: Mattarella era troppo impegnato a tacere. Un professorone silente la cui ultima intervista video - come scriveva ieri Massimo Gramellini - risale a quattro anni fa, giorno in cui dottoreggiò sul ruolo della cultura: «Credo che il bombardamento commercializzato di modelli di vita cui oggi siamo sottoposti abbia agevolato e accresciuto, se non nella tendenza, il pericolo di abbassamento di valori di riferimento». Una critica della tv privata e berlusconiana sotto forma di prolusione, mentre l’ultimo intervento su carta è del 2009, quando scrisse su Europa dei nostri soldati in Afghanistan, e in particolare sulla differenza fra regole d’ingaggio e codice militare di pace o di guerra; richiamava in tal proposito l’articolo tre del suddetto codice e l’articolo 75 della carta costituzionale eccetera eccetera. Insomma, non un sollevatore di tafferugli. Non lo si sentirà lanciare severi moniti, non lo si vedrà coniare soprannomi alla «zombie coi baffi», né accorrere sul luogo della tragedia per versare la patria lacrima.
Rare fiammate
Però, come tutti, anche Mattarella è stato giovane, e non sempre misurato fino all’ascetismo come nell’ultimo lustro. È già stato ricordato lo scandalo che suscitò in lui, obbligandolo al grido di dolore, un Tour di Madonna arrivato in Italia nel 1990, il Blond Ambition Tour; Mattarella era ministro dell’Istruzione e gli corse l’obbligo di dichiarare «eretico» lo spettacolo della popstar. Una nota ufficiale diffuse l’opinione del titolare del ministero sull’«offesa al buongusto» meritevole della «condanna nei confronti di miss Luisa Veronica Ciccone, colpevole di usare e abusare in scena di simboli ed emblemi religiosi» (si noti l’uso di «miss Luisa Veronica Ciccone» al posto dello sconveniente «Madonna»). Altre volte disse a Berlusconi tutto quello che pensava di lui - e si capirà l’attuale devastazione psicologica del capo di Forza Italia. «Il programma di Berlusconi è un pacchetto che disegna una fisionomia dai tratti illiberali»; «c’è incompatibilità tra la condizione di presidente del Consiglio e di padrone di tre tv»; «Berlusconi antepone gli interessi di parte a quelli della funzionalità delle istituzioni». E, infine, quando Berlusconi entrò nel Ppe, Mattarella lo scansò: «Non basta invadere l’Impero per diventare civis romanis»: barbaro eri e barbaro resterai. E allora conviene dare retta a quel vecchio frequentatore della alte istituzioni, secondo cui «un giudice costituzionale ha il dovere di tacere, un politico in pensione è naturalmente schivo, ma un presidente della Repubblica può ricominciare a parlare».

*****
4. AMEDEO LA MATTINA, LA STAMPA -
«Il primo presidente della Repubblica siciliano e di Palermo mi inorgoglisce enormemente, soprattutto perché si chiama Mattarella: io e Sergio il 6 gennaio del 1980, quando Piersanti venne ucciso dalla mafia, decidemmo insieme di entrare in politica con i suoi valori e la sua tensione morale». Leoluca Orlando era assistente universitario e stretto collaboratore di Piersanti, il fratello maggiore di colui che oggi diventerà il nuovo presidente della Repubblica. «Conosco Sergio da 50 anni, ne conosco la forza, la preparazione e la serietà: per lui il rispetto della Costituzione è una religione laica. Sarà un capo dello Stato che molti impareranno ad apprezzare».
Anche coloro che oggi non lo voteranno, come Berlusconi e Forza Italia?
«Porsi il problema di Berlusconi e di chiunque altro è una storia minore».
Sarà un presidente della Repubblica rigoroso come Scalfaro?
«Non faccio paragoni. Sicuramente Sergio Mattarella sarà di straordinario rigore e gli italiani impareranno ad apprezzarlo, stimarlo per il suo stile: sarà un modello di sobrietà di cui l’Italia ha molto bisogno».
Quando vi siete conosciuti?
«Piersanti era assistente di diritto privato di mio padre. Io poi divento assistente di Piersanti. Il legame politico con Sergio nasce nel 1980 quando la Dc siciliana venne commissariata e noi due venimmo chiamati a ripulire le liste dagli uomini di Ciancimino. Nell’85 io divenni sindaco di Palermo e nell’87 guidai una giunta Dc sostenuta dal Pci, e questo prima della caduta del Muro di Berlino. Era la Primavera di Palermo. Poi le nostre strade si separarono perché io ero convinto che i nostri valori non potevano camminare dentro la Dc; io fondai la Rete, mentre Sergio rimase nella Dc. Ci rincontrammo nell’Ulivo, sempre seguendo la migliore tradizione cattolica democratica».
Questa tradizione come verrà declinata al Quirinale?
«Sergio Mattarella è cresciuto nella cultura del dialogo, non ha mai concepito l’invasione dei partiti nella società civile. Rispetto delle idee altrui, capacità di difendere le posizioni degli altri».
Ieri a Montecitorio molti grandi elettori di ogni gruppo erano stupiti dalla forte trasversalità siciliana a favore di Mattarella. Come la spiega?
«Non credo che si tratti di una questione campanilistica e territorialità. Credo sia scattato il richiamo alla serietà, alla tensione morale, alla professionalità».
Come possono convivere due personalità così diverse come Mattarella e Renzi?
«In Italia abbiamo bisogno di un sindaco come Orlando, di un premier come Renzi e di un presidente della Repubblica come Mattarella».
Ha notato che sono già partiti gli attacchi alla memoria di Piersanti e allo stesso Sergio?
«È un momento troppo importante per rispondere ai professionisti del fango».
La prima e la seconda carica dello Stato sono palermitani.
«Quando venne ucciso Piersanti, io venni interrogato come persona informata dei fatti. Il giudice era Pietro Grasso. Credo che quel 6 gennaio 1980 abbia segnato non solo me e Sergio, ma anche l’attuale presidente della Camera».

*****

5. FABRIZIO RONCONE, CORRIERE DELLA SERA -
Ha smesso di piovere. Adesso, pensa Sergio Mattarella, esco e vado in ufficio.
Stringe il nodo della cravatta, infila l’impermeabile.
Abita nella foresteria della Corte costituzionale. Deve percorrere solo un vicolo.
Per scrupolo sposta la tenda della finestra, e guarda giù. Ma giù, ad aspettarlo, ci sono fotografi e cameraman.
Togliere l’impermeabile.
Sedersi alla scrivania.
Avvertire la segretaria Leandra.
«Sono assediato».
La riservatezza di Sergio Mattarella, nel volgere di un giorno e mezzo, è già diventata proverbiale. L’agenzia Ansa batte un lancio e conferma: negli ultimi sette anni, Mattarella non ha rilasciato una sola dichiarazione. Al bar all’angolo dicono che è di poche parole anche quando si ferma per prendere un toast (di solito, prosciutto cotto e formaggio: poi saluta, ringrazia, lascia la mancia. «Un vero signore d’altri tempi»).
Certi anziani senatori amici suoi, ex democristiani non pentiti, avevano avvertito: quando voi cronisti descriverete il personaggio, non lasciatevi imbrogliare dall’aspetto esteriore. Il personaggio è certamente sobrio, frugale, un cattolico non bigotto, un politico che detesta il rumore della politica, un siciliano di 73 anni mite al punto da sembrare timido: ma sappiate che sa essere anche estremamente determinato, capace di estenuanti mediazioni, equilibrato, bravissimo a controllare le emozioni (del resto, se ti muore un fratello tra le braccia, il corpo crivellato da un killer di mafia, dentro poi ti cresce il fil di ferro).
Poche ore fa, per dire, Mattarella non pensava di dover parlare con il Cavaliere. Pensava che la telefonata di Gianni Letta fosse un gesto di pura cortesia. E invece, ad un certo punto, Letta gli fa: «Posso passarti una persona?».
Immaginate pure il tono di Berlusconi. La disinvoltura, l’empatia che si fonde alla franchezza, in certe situazioni è sempre stata la sua grande arma segreta.
Si danno, ovviamente, del lei.
«Caro Mattarella, vorrei solo dirle che non ho nulla nei suoi confronti, davvero non c’è niente di personale... e lasciamo stare, mi creda, anche certe storie, quello che accadde tra noi tanti anni fa ai tempi della legge Mammì...» (è la legge che lanciò l’impero Fininvest e per la quale, in segno di protesta, Mattarella si dimise da ministro del governo presieduto da Giulio Andreotti: era la sera del 26 luglio 1990).
Mattarella, muto.
«Purtroppo noi non possiamo tollerare certi metodi del premier Renzi... l’idea dell’imposizione, del non condividere, ecco, questo ci crea dei conseguenti gravi problemi politici».
Mattarella: «Sì, capisco...» (la voce come un soffio).
Ancora Berlusconi: «Però, guardi: per dimostrarle rispetto, lei è persona di alto profilo, degnissima, le prometto che noi non faremo, in sede di voto, il nome di un altro candidato. Noi: o voteremo scheda bianca o usciremo dall’Aula».
Questa possibilità che Forza Italia potesse uscire dall’Aula alla quarta votazione era rimasta lì, appesa in coda alla telefonata. Però poi ha preso consistenza improvvisa. Non solo: persino Area popolare (Ncd-Udc) tentenna. Così, il pomeriggio che per Mattarella dovrebbe essere solo di attesa (riceve la visita della nipote Maria, figlia di suo fratello Piersanti, che lo mette di ottimo umore) diventa un pomeriggio di telefonate, in un miscuglio di apprensione e fastidio. L’idea di diventare presidente della Repubblica con mezzo Parlamento che, al momento del voto, esce dall’Aula, gli è parso uno scenario mortificante e intollerabile (valutava, è chiaro, con lo spirito del docente di Diritto parlamentare, del costituzionalista di rango, del giudice).
Qualche colloquio, intorno alle 19, un poco lo rinfranca. Ci sono dosi di ottimismo. Un suo amico, un po’ scherzando, un po’ sul serio, gli propone addirittura di cominciare ad abbozzare qualche passaggio del discorso che, se tutto dovesse andare come a molti osservatori — a questo punto — sembra andrà, dovrà formulare davanti alle Camere riunite, dopo il giuramento.
«Ma che dici? E la scaramanzia?».
Nemmeno a evocare Romano Prodi, e ciò che gli accadde diciannove mesi fa, in una situazione simile.
No, ecco, appunto: Prodi nemmeno a nominarlo.

*****

6. MARIA ANTONIETTA CALABRO’, CORRIERE DELLA SERA -
Salvatore Butera, economista siciliano, è un amico d’infanzia, di più, l’amico di una vita, di Sergio Mattarella.
Cosa direbbe a un ragazzo di vent’anni che le chiedesse del prossimo presidente della Repubblica?
«Fidati, perché è una persona straordinaria».
Straordinaria, come?
«È di una grande bontà d’animo, pacato, contrario alle guerre, un po’ come Aldo Moro».
Ma un ragazzo di oggi, un ragazzo 2.0, non lo vedrà
forse un po’ freddo?
«No, non è freddo, è solo una persona composta, è un uomo che ha sofferto tanto, e proprio per questo comprende gli altri, comprende la sofferenza degli altri. Ha una grande umanità. Sembrano frasi fatte, ma è proprio così, non sono cose che si possono descrivere».
Come uomo di governo ha avuto incarichi di grande delicatezza...
«È un uomo di una riservatezza totale. È sempre venuto spesso a Palermo, dove ora è sepolta sua moglie, morta il primo marzo
di 3 anni fa, e dove ha la sua vera casa, mai una parola del lavoro.
E poi ha delle grandi capacità
ed è uno che è sempre disposto
a studiare».
Buono, sì, ma anche molto determinato...
«Abbiamo studiato insieme
al San Leone Magno prima e poi
al Gonzaga di Palermo, istituti
dei Gesuiti. Eravamo tutti e tre insieme, io e i due fratelli Mattarella, oltre a Sergio anche Piersanti. Sergio è un cattolico praticante, le sue radici sono quelle. Ha le sue convinzioni e i suoi principi. Ed è un galantuomo».
M.Antonietta Calabrò

*****
7. MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO -
A sera, nella foresteria della Consulta, riceve la visita del presidente del Consiglio Renzi. Per il resto, quella di ieri per Sergio Mattarella è stata una giornata «quasi» come le altre. «Il momento è difficile. Dobbiamo mettercela tutta e tutti insieme». E’ la frase più sbilanciata che dice il candidato al Colle, e solo agli amici più intimi. Ed è quella che lo svela come uno che, nonostante l’equilibrio coltivato da sempre con meticolosità certosina, crede proprio che ormai sia fatta. La telefonata di Matteo Renzi alle 18, che annuncia a Mattarella l’appello che sta per fare ai grandi elettori, mentre il candidato vicino alla meta sta al lavoro nel suo studio al terzo piano nel Palazzo della Consulta, è di quelle che riescono a scuotere perfino un tipo come lui. Il quale già da qualche ora non risponde più alla valanga degli sms che gli arrivano dai cattolici democratici ormai egemoni in Transatlantico con la formula ripetuta in questi giorni («L’ipotesi non è facile»), ma lascia trasparire («Vediamo») una qualche speranza che si rafforza con il passare delle ore e diventa semi-certezza all’ora di cena, quando anche Alfano e i suoi semi-depongono le armi.
C’è una piccola grande novità nelle abitudini di Mattarella che ieri hanno cominciato un po’ a cambiare - è arrivato in ufficio all’alba per non farsi vedere da nessuno - ed è questa: chino sulle carte delle sentenze costituzionali a cui sta lavorando, ogni tanto butta un’occhio allo schermo di Sky per aggiornarsi sulla cronaca che lo riguarda oppure guarda sul monitor le agenzie di stampa per aggiornarsi sui giochi politici in atto. E insomma, è lontano come sempre dal contesto ma è anche da ieri - come riserva della Repubblica in via di lucidatura a nuovo - molto più vicino a quel contesto politico nel quale si troverà ad agire, se le cose andranno come dovrebbero andare, e a quel punto Mattarella il suo format da presidente già ce l’ha e i confidenti lo sintetizzano così: «Sarà un Capo dello Stato poco interventista. Più alla Einaudi che alla Pertini».
CHIAMATE

Intanto Renzi lo ha chiamato, lui lo ha ringraziato ancora una volta. E agli sms che gli ribadiscono da giorni «la grande unità del nostro partito sul tuo nome», le sue riposte sono del tipo: «Ne sento tutta la responsabilità». Capisce bene, ovviamente, le implicazioni del tutto. Cioè di essere una figura scelta da Renzi e che dovrà ricompattare un mondo ma soprattutto garantire un Paese. Il libro che in questi giorni ha sul comodino della sua stanza da letto, nella foresteria della Consulta in cui vive (ma ieri ha pranzato alla mensa dell’ufficio e nel suo angolo cottura domestico), è la «Storia d’Europa nel secolo decimonono» di Benedetto Croce. E lo spirito della sua presidenza - quasi un programma ideale e politico - può essere rintracciato dentro queste pagine. Dove si parla della libertà come di una «visione totale del mondo, vivificata di passione civile e morale». E si parla della società che «non lavora da sé e ha bisogno di chi la metta in moto e la regoli». E ancora: Croce - che pure ebbe forti polemiche con Luigi Sturzo, idolo di Mattarella - parla della crisi degli Stati, tema d’attualità stringente, e della «calcolata azione partigiana» che nell’Ottocento rovinò le istituzioni e la vita civile dei popoli. La crisi di allora, la crisi di oggi. La grande politica, ma non solo quella.
A Mattarella arrivano indirettamente segnali di non ostilità particolare da parte di Silvio Berlusconi. Il quale a Cesano Boscone ieri, mentre qui fervevano le ultime trattative, raccontava le barzellette ai vecchietti e non appariva affatto turbato dall’ascesa di Mattarella al Quirinale: «E’ una brava persona». Poteva andare meglio all’ex Cavaliere o poteva andare peggio: è andata così e la vita di Silvio continua. Questo è il mood interessante che viene fatto penetrare nelle stanze ovattate della Consulta. Lo stesso Palazzo nel quale Mattarella, insieme agli altri colleghi del collegio giudicante, bocciò come incostituzionale nel gennaio 2014, il Procellum. Ossia la legge elettorale che ha eletto il Parlamento che adesso elegge Mattarella al Colle. A parte il gioco di parole, il paradosso della cosa è evidente. Ma adesso, per Mattarella, è il momento di ricevere i nipoti. Anzi, una: Maria, figlia di Piersanti Mattarella. La famiglia, molto numerosa, sarà molto presente nella presidenza Mattarella, se non altro come supporto morale.
Quanto alla nuova squadra che porterà al Quirinale, sulla quale impazzano i gossip a Montecitorio, lui avverte tutti: «Ogni cosa al momento opportuno». Le autocandidature si sprecano. Alla Farnesina, già girano - a vanvera - tre o quattro team diplomatici ognuno dei quali assicura che è pronto al trasloco alla presidenza. Come segretario generale del Colle, l’altro giorno si faceva il nome di Ugo Zampetti, mentre ieri Alessandro Pajno, 67 anni, giurista palermitano e consigliere di Stato, veniva dato in pole position: è stato al fianco di Mattarella in quasi tutti gli incarichi ministeriali dell’amico Sergio ma anche sottosegretario a Palazzo Chigi nel primo governo Prodi. E quest’ultimo particolare poterebbe risultare sgradito fuori dal Pd, e soprattutto agli occhi berlusconiani. Ma, appunto, alla squadra Mattarella penserà da domani. Prima o dopo essere andato in preghiera, per la sua prima messa da presidente, nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, proprio a due passi dalla sede del partito che lo avrà portato sul Colle più alto.
Mario Ajello

*****
8. PAOLO BRACALINI, IL GIORNALE -
Un lungo silenzio, un’intervista cinque anni fa e poi basta, un distacco che fa apparire Sergio Mattarella grigio, scialbo, facilmente malleabile e perciò perfetto per il decisionista Renzi. Un’impressione ingannevole, però, prodotta dal silenzio in cui si è riparato l’ex vicepremier del governo D’Alema da quando ha lasciato il Parlamento (nel 2008) ed è diventato prima presidente del Consiglio della giustizia amministrativa e poi giudice della Consulta. In realtà «Sergio il Tenace», come lo definì Giampaolo Pansa all’epoca della Dc, da politico ha esternato eccome, e anche con durezza. Ecco, in pillole, il pensiero politico del nuovo presidente in pectore della Repubblica.

Silvio Berlusconi/1
«Il lupo, ammonisce un antico detto, perde il pelo ma non il vizio. Il lupo in questo caso risponde al nome di Silvio Berlusconi. E il vizio è quello di ricorrere ai sondaggi fasulli. Il suo programma politico? Ha tratti illiberali». 23 maggio 1994, primo governo Berlusconi.
Silvio Berlusconi/2
«Chi definisce la par condicio come un provvedimento liberticida è lo stesso che, per concessione dello Stato, possiede tre tv nazionali. Dovrebbe essere più misurato nei termini». 9 agosto 1999.
Silvio Berlusconi/3
«Da una parte abbiamo l’Ulivo, che in cinque anni ha dimostrato capacità di governo. Dall’altra Berlusconi che dice di essere il più bravo del mondo. Una dichiarazione del genere già di per sé genera allarme, ma io sono convinto che ci creda ed è questo che mi preoccupa di più». 10 marzo 2001.
Forza Italia
«Forza Italia nei Popolari europei? Mi sembra un incubo irrazionale. Il partito europeo si fonda sul senso della misura, e questi di Forza Italia non ne hanno, evocano il comunismo tentando di tenere l’Italia ingabbiata in schemi di mezzo secolo fa». 6 giugno 1999.
Partito democratico
«Il manifesto del Pd è un documento proiettato sul futuro, rivolto in particolare ai giovani. Il Pd è necessario perché il nostro Paese ha bisogno di un baricentro nel sistema politico». 24 febbraio 2007.
Lega Nord
«Quella del Nord oppresso è una battuta che fa sorridere, che arriva al limite del ridicolo. Dell’alleanza Polo-Lega tutto si può dire tranne che sia in favore del Meridione, visti i programmi antimeridionalisti di Umberto Bossi. Fini e An per la smania di occupare il governo hanno accettato senza difficoltà l’inquietante proposta di Bossi di spaccare l’Italia, barattando il federalismo con la promessa di presidenzialismo». 9 aprile 1994.
Destra e sinistra
«Destra e sinistra hanno dato vita a una lotta politica rissosa, aggressiva, senza esclusione di colpi e si sono dimostrate politicamente inaffidabili. Il Partito popolare si contrappone ai due schieramenti e si presenta con un programma: non con slogan, promesse facili e frasi ad effetto come fanno la destra e la sinistra». 25 marzo 1994.
Comunismo
«Sono personalmente convinto, avendo sempre militato in una forza politica che ha contrastato il comunismo, quando questo era forte e comandava in molti Stati d’Europa, che l’ideologia comunista o, volendo essere più precisi, il marxismo-leninismo, rappresenti una negazione della libertà e sia in conflitto, insuperabile, con i principi di una democrazia liberale». 20 ottobre 1999.
Oscar Luigi Scalfaro
«Grazie signor presidente, per la grande sensibilità e saggezza con la quale ha retto in questi sette anni le istituzioni, riuscendo a portarle verso una ripresa di autorevolezza». 21 marzo 1999.
Istituzioni
«È un errore pensare che chi vince le elezioni può occupare, possedere le istituzioni. Le istituzioni sono di tutti». 25 ottobre 2005.
Porcellum
«È una legge che danneggia il Paese. Voi cambiate la legge elettorale solo per avere delle regole che vi fanno comodo. Vi siete giovati di un sistema che vi ha garantito stabilità e ora cercate di danneggiare il prossimo Parlamento. È davvero inammissibile che per fare i vostri interessi voi sacrifichiate quelli dei cittadini italiani!». 13 ottobre 2005.
Conflitto di interesse
«La maggioranza (di centrodestra, ndr) farà la legge che dichiara legittimo il conflitto di interesse, ed esso resterà politicamente e moralmente irrisolto, un macigno sulla strada di questo governo». 26 febbraio 2002.
Fecondazione assistita
«I deputati del Ppi sono contrari alla fecondazione assistita cosiddetta eterologa, cioè fuori dal matrimonio e contro la possibilità che venga concessa anche alle coppie di fatto». 14 maggio 1998.
Madonna (la popstar)
«Il ministro della Pubblica Istruzione Sergio Mattarella si schiera con i vescovi e parla dell’ultimo show della rockstar italoamericana come di un’offesa al buongusto e si associa nella loro condanna nei confronti di miss Luisa Veronica Ciccone, colpevole di usare e abusare in scena di simboli ed emblemi religiosi». Luglio 1990.

*****

9. GUIDO GENTILI, IL SOLE 24 ORE -
«i limiti non valicabili posti dalla Costituzione ad una visione troppo estensiva del ruolo del Capo dello Stato». Sergio Mattarella, che non ha mai amato la ribalta mediatica, viene dipinto come “silente”. Tutto vero, ma fino a un certo punto. Perché ad una delle domande chiave che sfarfallano nella pancia del sistema dei partiti – se sarà eletto interpreterà il suo ruolo “alla Scalfaro” o sceglierà un profilo più neutro e comunque meno interventista?- lui una prima risposta l’ha forse già data. Continua pagina 7

Continua da pagina 1
Risposta tanto più significativa se letta oggi, visto che il programma delle riforme impostato da Matteo Renzi, e fin qui condiviso da Silvio Berlusconi, finirà per impattare di fatto anche sul ruolo del Presidente della Repubblica (in particolare con la nuova legge elettorale, che rafforza l’impianto maggioritario del nostro sistema politico).
Novembre 2008. Su «Europa», quotidiano dell’allora Margherita, Mattarella ricorda Leopoldo Elia, scomparso poche settimane prima. Elia era stato un grande giurista, giudice e poi presidente della Corte costituzionale, cattolico democratico e politico democristiano, ministro delle riforme del Governo Ciampi al tempo del varo della nuova legge elettorale chiamata “Mattarellum”. Con lui, Mattarella aveva condiviso in Parlamento molte battaglie, da quella, dopo decenni di tentativi, per la prima legge sulla Presidenza del Consiglio a quella del 2005 contro la riforma della Costituzione voluta dal Governo Berlusconi (e che sarà bocciata dal referendum popolare nel 2006).
Per Mattarella Elia è «un Maestro». Un anno prima, nel 2007, Giuffrè Editore aveva mandato in libreria due volumi tosti dal titolo «Poteri, garanzie e diritti a sessanta anni dalla Costituzione». Tra i contributi più autorevoli quello di Elia: un rapido saggio su una “Lettera” confidenziale che il giudice costituzionale Mario Bracci aveva scritto nel dicembre 1958, anche sull’onda della riforma costituzionale gollista appena varata in Francia, al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Su «Europa» Mattarella richiama proprio quel saggio e la riconferma di Elia di quei paletti «invalicabili» posti dalla Costituzione ad una visione «troppo estensiva del ruolo del Capo dello Stato». Già, perché Bracci (scrivendo al presidente Gronchi, accusato dal fondatore del Partito popolare don Luigi Sturzo di eccessivo interventismo) poneva un problema: «Spostare il regime nei limiti consentiti dalla interpretazione della Costituzione, e per quanto sia politicamente possibile, dalla tradizionale prevalenza del Parlamento, spesso velleitaria, alla prevalenza del Presidenza della Repubblica verso quel tipo originale di repubblica presidenziale, che è resa possibile dalla lettera e dallo spirito della Costituzione e che il corso degli avvenimenti rivelerà, plasmerà e renderà adeguata alle esigenze del Paese». Insomma, il Presidente ha già tutti i poteri necessari, compresi quello di indirizzo di politico e «la permanente minaccia dello scioglimento delle Camere».
Elia scrive di «ipervalutazione» delle possibilità di intervento del Quirinale e ricorda un altro costituzionalista, Carlo Esposito, che aveva ritenuto anche lui che «fuori dalla grandi crisi» , il Presidente della repubblica parlamentare «dovesse in ogni suo atto procedere in collaborazione col governo, lasciando la decisione finale a chi portava la responsabilità degli atti presidenziali».
Mattarella, nel 2008, è sulla linea di Elia e lo interpreta riaffermando i principi della Costituzione come argine alla visione «troppo estensiva» del mestiere del Presidente della Repubblica. Il messaggio è felpato, indiretto, caratteristico di una disquisizione giuridica di alto profilo in lessico democristiano. E parrebbe non bastare per rispondere alla domanda «se verrà eletto, Mattarella seguirà un sentiero modello Oscar Luigi Scalfaro o una strada alla Cossiga-picconatore o alla Pertini?».
In realtà il Maestro di Sergio Mattarella, Leopoldo Elia, nell’unico scritto richiamato dall’oggi candidato Presidente della Repubblica per ricordarlo, scrive che gli «sembra innegabile che, sia pure nel quadro di una funzione di ultima garanzia del sistema, Pertini e Scalfaro abbiano utilizzato vie e mezzi molto simili a quelli indicati da Bracci». Il quale però, come abbiamo visto, «ipervalutava» i poteri del Presidente della Repubblica e sottovalutava «la forza dei partiti maggiori».

*****

10. VITTORIO NUTI, IL SOLE 24 ORE -
L’ultima pronuncia della Corte costituzionale redatta dal giudice Sergio Mattarella - oggi candidato a presidente della Repubblica - è stata depositata appena quattro giorni fa, e certo non piace a Regioni e Comuni (e a molti ordini forensi) che negli ultimi anni hanno lottato contro il taglio, per ragioni organizzative e di spending review, di tribunali e uffici giudiziari sparsi sul territorio. La sentenza n. 5/2015 boccia infatti i tre quesiti referendari promossi da ben cinque regioni (con l’appoggio di altre quattro) per ripristinare i 30 tribunali e procure e le 220 sezioni distaccate di tribunale soppressi nel 2012 dal governo Monti, attraverso l’abrogazione di sedi giudiziarie elencate nelle tabelle dell’Ordinamento giudiziario (la cosiddetta geografia giudiziaria).
Richiesta inammissibile, spiega la Corte, coerente con la sua giurisprudenza, «attesa l’inidoneità dello strumento referendario a raggiungere il fine» insito nei quesiti: «fare “rivivere”, in tutto o in parte, le disposizioni che prevedevano gli uffici giudiziari soppressi».
Avvocato e docente di Diritto parlamentare, oltre che politico di razza, Mattarella siede a palazzo della Consulta dall’ottobre del 2011. Uomo notoriamente pacato e riflessivo («Forlani, in confronto a Mattarella, è un movimentista», secondo una battuta attribuita a Ciriaco De Mita), lo stile di Mattarella si riflette nelle “sue” sentenze costituzionali (anche se è bene ricordare che le decisioni della Consulta sono sempre collegiali), generalmente chiare e poco prolisse.
Anche per questo spicca, tra le 63 pronunce (39 sentenze e 24 ordinanze) firmate in qualità da relatore in poco più di tre anni alla Corte, la chilometrica sentenza n. 39/2014 sul decreto legge “Salva Enti” (Dl 174/2012), varato dal premier Monti dopo lo scandalo delle spese pazze dei partiti nelle Regioni. Obiettivo: ridurre i costi della politica e soprattutto a introdurre controlli più incisivi su attività e spese dei gruppi politici dei consigli regionali. La sentenza Mattarella salva l’impianto della legge, riconoscendo il suo carattere di norma fondamentale per «l’armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica». Ma dichiara l’illegittimità di numerose disposizioni che pretendevano di regolare le modalità e i rapporti tra giunta e consiglio regionale.
Con la sentenza (99/2014), sempre firmata da Mattarella, la Corte ha invece assolto l’obbligo per i consiglieri regionali e i titolari di qualsiasi carica elettiva, di svolgere gratuitamente eventuali altri incarichi conferiti proprio in ragione della carica ricoperta, fatte salve le spese e un minimo gettone di presenza. La disposizione, introdotta da un decreto precedente, ha cercato di disboscare la giungla di indennità, gettoni, remunerazioni, costruite da pubblici apparati e gruppi politici.
Negli ultimi anni, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione, uno dei fronti caldi dell’attività della Corte, per numero delle pronunce e dei ricorsi, ha riguardato la definizione, in linea con il dettato costituzionale, degli ambiti d’azione di Stato e Regioni.
Un contenzioso infinito, in cui il giudice-relatore Mattarella è più volte intervenuto per dichiarare l’illegittimità costituzionale di alcune norme, soprattutto leggi regionali impugnate dal governo. Nessuno strappo, ma un fine lavoro di analisi per circoscrive nel dettaglio le singole norme, talvolta perfino le singole parole, che violano la ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni, stabilita dalla Costituzione.
Nelle sentenze redatte da Mattarella non c’è traccia quindi di revirement giurisprudenziali, cambi di rotta rispetto alla linea della Corte, ma un attento lavoro di cesello per distinguere ciò che è costituzionale da ciò che non lo è. All’insegna dell’equilibrio (per Renzi, la necessaria caratteristica di un presidente della Repubblica), che tornerà molto utile se oggi il giudice, uscito dal palazzo della Consulta e attraversata la piazza, si insedierà come nuovo inquilino nel Palazzo del Quirinale.
Dal Colle, potrà continuare ad ammonire il Legislatore a fare il proprio dovere, come ad esempio nella sentenza 67/2014. La Corte, si legge nella pronuncia, «non può esimersi dall’affermare l’opportunità che lo Stato provveda sollecitamente» a fissare, nel caso specifico, i criteri per le garanzie finanziere relative alla gestione degli impianti di smaltimento rifiuti, tema delle norme regionali bocciate dalla stessa sentenza.
Vittorio Nuti

*****

11. FAUSTO CARIOTI, LIBERO -
Più a suo agio quando deve scrivere leggi e ragionare in politichese che nel fare polemica, malgrado i tantissimi incarichi pubblici ricoperti Sergio Mattarella non ha lasciato grandi tracce nel dibattito quotidiano dal 1983 (anno in cui entrò in Parlamento) ad oggi. Della antipatia per Silvio Berlusconi si sa già tutto; dagli altri suoi (rari) interventi è possibile fare una mappa delle idee del probabile nuovo Capo dello Stato.
TRA MADONNA E CICCIOLINA
Estate, stagione di concerti. L’evento canoro di quella del 1990 è il tour di Madonna. La Conferenza episcopale insorge contro la cantante, messa all’indice per «lo scarso contenuto artistico e la volgarità nel mescolare sacro e profano». Al fianco dei vescovi si schiera l’allora ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti: il democristiano Mattarella. Gli risponde la deputata radicale Ilona Staller: «Si preoccupi dell’educazione sessuale nelle scuole anziché del carattere educativo dei concerti rock».
TENDENZA SCALFARO
Il settennato che il Cavaliere ritiene il peggiore di tutti è per Mattarella il modello cui ispirarsi. Nel 1998, quando il mandato di Oscar Luigi Scalfaro si avvicinava alla scadenza e mezza Italia contava i giorni che mancavano all’addio, Mattarella insisteva: «Rieleggiamo Scalfaro al Quirinale». Quella volta nessuno lo prese sul serio.
LE GIOIE DEL TRATTINO
Il grande argomento che scuote l’alleanza di governo nell’estate del 1999 è il trattino. E qui Mattarella è un esperto. «Mi fa vedere come ha scritto “centrosinistra”?» fa al giornalista di Repubblica che lo intervista. «Senza trattino? No, guardi, così non va bene: così perdiamo... Scriva “centro-trattino-sinistra”: rende meglio l’idea di un’alleanza tra due soggetti diversi». (Ovviamente le elezioni le vinse Berlusconi).
COMUNISTI SÌ, RADICALI NO
Nel febbraio del 2005 fervono le trattative dell’Unione per allargare l’alleanza ai radicali. Mattarella è contrario: «Sono convinto che l’accordo con i radicali ci farebbe perdere consistenti fasce del nostro elettorato», sbotta. Perché Armando Cossutta sì e Marco Pannella no? «Con gli alleati dell’Unione vi è in comune il valore della solidarietà», risponde. «Condividiamo il rifiuto dell’individualismo esasperato nell’economia e nella vita sociale. Non è così con i radicali».
CON I GAY E CON LA BINDI
Il 2006 è l’anno dei Pacs, le unioni civili (anche) tra gay proposte dal centrosinistra. Mattarella si tiene alla larga dalle polemiche; Rosy Bindi, ministro della Famiglia, no. In un’intervista al Corriere difende i Pacs e sostiene che quelli delle coppie omosessuali sono «diritti da garantire». Si scatena il pandemonio, ma Mattarella accorre in difesa della sua amica: quella intervista, dice, è «equilibrata ed ineccepibile, cristianamente ispirata».

*****

12. FRANCO BECHIS, LIBERO -
Sono stati gli eredi della Dc a lanciarne la candidatura già due settimane fa, capitanati da Giuseppe Fioroni nel ristorante «Scusate il ritardo» di piazza della Rotonda, a due passi dal Pantheon. Ed è stato ancora una volta Fioroni a tessere la trattativa ieri fra Matteo Renzi e Angelino Alfano che ha riportato su Sergio Mattarella quei voti Ncd che morivano dalla voglia di finire su quella scheda. Si sentiva talmente profumo di scudocrociato, che da giorni vecchie volpi della Dc sono convenute magicamente a palazzo, da Calogero Mannino a Pierluigi Castagnetti, da Ciriaco De Mita a Paolo Cirino Pomicino a tanti altri. Ed è stata una fortuna, perchè è anche grazie a loro che forse si riesce a costruire un personaggio di cui c’è scarsissima traccia nelle rassegne stampa del passato. I vecchi amici raccontano di un rapporto molto stretto con l’ex segretario generale della Camera, Ugo Zampetti, che ha accompagnato le presidenze di Luciano Violante, Pierferdinando Casini, Fausto Bertinotti, Gianfranco Fini e anche di Laura Boldrini fino a un paio di settimane fa. Si conoscevano i padri di Zampetti e di Mattarella, sono divenuti amici anche i loro figli. Tanto che le famiglie riunite (finchè era viva Marisa, la moglie del futuro presidente della Repubblica, prematuramente scomparsa nel 2012) ogni domenica andavano a messa insieme nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Un rapporto che non è solo curiosità: a questo punto Zampetti è in pole position per sostituire l’attuale segretario generale del Quirinale, Donato Marra. Altre notizie rilevanti che vengono dagli ex amici? Non poche. La rete di rapporti con il Vaticano: ovviamente gli arcivescovi di Palermo, compreso l’attuale Paolo Romeo. Un’amicizia con il cardinale Achille Silvestrini, classe 1923, per lustri diplomatico di primissimo piano della Santa Sede. E un rapporto quasi fraterno con monsignor Claudio Maria Celli, arcivescovo riminese che Papa Benedetto XVI ha voluto (e Papa Francesco confermato) alla guida del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali e del Centro Televisivo Vaticano. Apprendiamo sempre dai vecchi Dc calati a Roma per festeggiarlo come Mattarella non sia affatto sconosciuto nei consessi internazionali. Grazie alle varie esperienze vissute durante i governi guidati da Massimo D’Alema e Giuliano Amato ha costruito una tela di rapporti importanti nel settore della Difesa, di cui iniziò ad occuparsi nel D’Alema bis e per cui fu imposto come ministro da Carlo Azeglio Ciampi ad Amato: stava seguendo il coordinamento interforze a livello Nato, e il suo lavoro non andava interrotto. Ma grazie al breve periodo in cui fu vicepresidente del Consiglio nel D’Alema 1, fu ammesso nel direttorio ristretto del Ppe, dove conobbe due leader che oggi non valgono poco: Angela Merkel e Jean Claude Juncker. Non finirebbero più di raccontarlo il loro amico Mattarella i vecchi Dc, e quindi spazio anche alle poche passioni: grande amante del calcio, tifoso del Palermo e dell’Inter, studiava le formazioni storiche di tute le squadre del campionato di serie A. E poi sfidava a pranzo l’amico Leopoldo Elia, nei due ristoranti del cuore: uno vicino al Pantheon (Settimio, il preferito della vecchia Dc), e l’altro a due passi da Fontana di Trevi. Però perdeva sempre: Elia sapeva a memoria anche qualsiasi formazione della Pro Patria dei primi campionati. Sarà quel ritorno a palazzo degli ex, ma anche tutti quelli che furono Dc in quei tempi e poi hanno preso altre strade sembravano avere trovato nuova linfa e vita. Era impensabile resistessero a lungo nelle barricate opposte quelli del Nuovo centrodestra, che piantano le radici nella stessa storia di Mattarella. Che maldipancia fino alla decisione finale di Alfano. Poche ore prima era furioso Roberto Formigoni per la partita giocata secondo lui così male da tenerlo lontano dall’agognato voto al nuovo presidente. E addirittura minacciava regolamenti di conti dentro al partito, sospettando di qualche compagno: «Sono venuto a sapere che due nostri ministri sapevano che Renzi avrebbe indicato Mattarella già a dicembre. Ma si sono giocati per conto loro quell’informazione, senza condividerla con i gruppi parlamentari, mandandoci allo sbaraglio nella trattativa come è avvenuto». Allo sbaraglio poi Ncd avrebbe mandato poche ore dopo i ritrovati amici di Forza Italia, tornando all’ovile Dc senza tanti complimenti e grazie a una simil-moina di Renzi. Se qualche falla ancora c’era a sinistra, si muovevano come un esercito solo i vari Fioroni e Rosy Bindi, magicamente all’unisono con le truppe renziane che fino a una settimana prima avevano avversato con toni apertamente ostili. È il miracolo di quello scudo crociato, che ha richiamato a casa chiunque fosse nato lì. Una cosa però a Renzi l’hanno soffiata: quella narrazione del nuovo presidente che a lui stava tanto a cuore. Ma è piccolo prezzo da pagare.

*****

13. ANTONELLO CAPORALE, IL FATTO QUOTIDIANO -
Siamo alla macchina del tempo. Il corpo di Sergio Mattarella, senza sua colpa, è stato sbrinato e servito a tavola. Ma come i croupier con le carte da gioco, l’intera figura ancora non è pubblica. Ci si è fermati al volto, formato tessera o ristretto nell’abito di giudice costituzionale con quella meravigliosa ruota merlettata al collo. Una traccia di busto a livello del polmone, la più aggiornata evidentemente, lo ritrae nel solito grigio esistenziale in una cerimonia pubblica a fianco di un interdetto Matteo Renzi costretto al silenzio per via dell’abitudine del suo occasionale compagno di sedia a non agitare una sola lettera dell’alfabeto. Molti elettori del candidato in via di definitiva quirinalizzazione, avevano sei anni quando lui abbandonò il governo per via dei favori a Silvio Berlusconi, sempre lui. Giuditta Pini, del suo stesso partito, deputata di Modena, ne aveva invece quattro. Aveva lasciato da poco la pappa. Da giovanetta il primo e ultimo contatto. “Conobbi il nome di Mattarella perchè il mio moroso non fece il militare. Lui è nato nell’86 e la sua classe anagrafica fu la prima a essere graziata dalla naja. Perciò sapemmo della legge e quindi di Mattarella. Ma la curiosità finì lì”.
Il Parlamento più giovane, composto per un terzo da volenterosi trentenni, si trova frullato nell’età democristiana della prima Repubblica. E vota uno sconosciuto, nel senso proprio del termine.
Khalid Chauki ha 34 anni: “Mattarella mi ricorda la naja. Poi il Mattarellum. Poi basta, ho solo questi flash”. Conosceva il suo volto? “No”. Ha mai ascoltato la sua voce? “No, mai. Ancora adesso non conosco il tono. Dicono che non sia squillante, non uno che sorrida. Severo, così pare”.
Avrà modo il giovane Khalid di ascoltarlo forse martedì, se tutto come sembra andrà a buon fine. Ma Paolo Nicolò Romano che ha compiuto i trent’anni solo da qualche mese e frequenta il Palazzo solo grazie alla recente infatuazione per Grillo giura di non sapere un’acca di questo uomo così illustre. Astigiano, classe 1984, la prima volta che l’onorevole Romano è andato in un seggio elettorale ha ricevuto in mano la scheda figlia del Porcellum: “Io davvero non ne so niente di niente. Di lui zero”. Nelle ultime settimane, per dovere d’ufficio, ha consultato Wikipedia. “Anch’io ho votato per la prima volta col Porcellum, però Mattarella lo cobnosco per averlo letto nel tomo di preparazione all’esame di diritto costituzionale”. Lui è Luca Frusone , grande elettore ciociaro. Angelo Tofano, 1981, salernitano, ha un vuoto di memoria. Ha studiato ingegneria civile e voticchiava senza bussola. “Una volta a destra, un’altra a sinistra”. Poi è arrivato Grillo. Mattarella mai.
Esistono anche fenomenali sorprese di traviamento in età puberale. Al quarantenne cagliaritano Marco Meloni, per esempio, il cognome Mattarella e la sua successiva declinazione in Mattarellum erano parole amiche dall’infanzia. “Andavo per comizi già a dodici anni, credo di aver parlato in pubblico in seconda media e fatto una campagna elettorale a 14 anni. Ma sono un ammalato, non faccio testo”.
La memoria vuota, cieca, nera di questa parte del Parlamento è quella dell’Italia che non esisteva al tempo di De Mita. E nemmeno di Occhetto. E manco di Prodi. Applaudirà un marziano, e vedremo come.
Disseppellita la Democrazia cristiana nella versione più integra e commestibile, si è dovuto lavorare a ritroso al punto che i cronisti hanno dovuto rintracciare persone ritenute trapassate. Un piemontese dc di lunghissima e onorata carriera come Guido Bodrato - considerato dai più, senza nessuna malizia malvagia, scomparso dalla vita terrena - ha piacevolmente trascorso le due ultime serate (e altre occorreranno di sicuro) a illustrare le doti, le qualità, l’eccellenza dell’amico Sergio. E anche Ciriaco De Mita scenderà da Nusco per dire la sua. Ottantenni impenitenti, vestigia di un tesoro dimenticato, salgono anch’essi al Colle nella più incredibile chiamata alle armi da parte del rottamatore, oggi forse già molto ex. Chi lo doveva dire? Un grande mondo antico svelato e riluci-dato.
Tutto torna?
Torna la Dc ma non il Pci. Uscito dalle tenebre il primo partito italiano del secolo scorso, finisce nelle tenebre il secondo partito di quel secolo, il più grande movimento politico della sinistra. Gli eredi legittimi di Botteghe oscure hanno fondato il Pd occupando tutte le poltrone. Poi in pochi mesi il mondo è andato alla rovescia o, ma questi sono punti di vista, ha cambiato verso. Dopo Bersani, l’ultimo dei mohicani, è toccato al boy scout Renzi assumere il comando del partito con furiosi iniezioni fiorentine, tutte strette dalla maglia del giglio magico. Roba sua. Scomparso ogni rosso possibile, compresa l’Unità, il giornale di Gramsci, sono declinati fino a scomparire del tutto i nomi che avessero avuto una filiazione anche lontana, anche purgata con l’antica bandiera. Due anni fa per scegliere il successore dell’ex comunista Napolitano poi rieletto, si parlò dell’ex comunista Luciano Violante, infine dell’ex comunista Massimo D’Alema. Niente e niente. Nel biennio un’altra selva di nomi rossi sono stati sparati come possibili quirinabili. Dal più forte Veltroni al più debole Chiamparino, passando per le giovani donne che hanno fatto carriera: Anna Finocchiaro e Roberta Pinotti.
Ra-tà-tà: una mitragliata e via. Tutto cambia. Oppure, convenientemente, tutto torna.

*****

14. MARCO PALOMBI, IL FATTO QUOTIDIANO –
Gli sponsor di Sergio Mattarella aumentano di minuto in minuto e il loro numero, se oggi andrà come sembra, diventerà in breve legione. Pier Luigi Bersani, per dire, già s’intesta la candidatura al Colle ricordando che il candidato di Renzi era già nella sua short list nel 2013. Il Transatlantico, però, è un luogo spietato: conosce il potere e le sue interconnessioni e le dimostra a suon di capannelli e saluti. Il buon Bersani, ahilui, non è “mattarelliano”. Al contrario Francesco Saverio Garofani, uomo vicino al ministro Dario Franceschini, ieri s’è scoperto un sacco di nuovi amici e ha reagito come si suole: cominciando a concedere il saluto con più parsimonia.
Il nostro infatti, ai tempi della spartizione delle spoglie democristiane tra Ppi e Cdu, fu il direttore con cui Sergio Mattarella e Gerardo Bianco tentarono di rifondare Il Popolo dopo un breve interregno targato Rocco Buttiglione. “Francesco è il suo figlio spirituale”, dice ora Franceschini, mattarelliano per interposto peones (Garofani, peraltro , fu brevemente famoso come cliente del Madoff dei Parioli e per aver usato lo scudo fiscale di Tremonti per rimpatriare dei soldi detenuti all’estero). Sorride intensamente, circondato da rinnovato capannello, anche Beppe Fioroni, uno degli organizzatori della cena che ha lanciato in maniera ufficiale la lobby bianca a favore di Sergio Mattarella ancor prima che Giorgio Napolitano lasciasse ufficialmente il Quirinale. Evocativa la sede scelta per la immaginiamo sobria riunione: il ristorante romano “Scusate il ritardo”, al Pantheon. Al tavolo, accanto a Fioroni, un uomo che non aveva bisogno del “mattarellismo” per scatenare i capannelli di Montecitorio: il vicesegretario vero del Pd (nel senso che l’altra è Debora Serracchiani), Lorenzo Guerini, già sindaco di Lodi e Dc doc, di scuola forlaniana, ma comunque passato al Ppi e alla Margherita proprio come Mattarella. Non lontani da Guerini, per restare ai renziani pro-Mattarella, al desco dei cinquanta e più penitenti democristiani sedeva pure Matteo Richetti, recentemente tornato nelle grazie del capo dopo aver rischiato l’ostracismo.
Non si può non citare - anche se in Transatlantico s’è fatto vedere solo giorni fa, quando Mattarella aveva pochissimi amici e ancor meno sponsor - Ciriaco De Mita, che per uno di quegli slittamenti che erano la vita stessa della Dc, finì per essere il capo corrente del forse prossimo capo dello Stato, nato invece mo-roteo. All’ex presidente del Consiglio, già “intellettuale della Magna Grecia” (copyright: Giovanni Agnelli), è bastato un giro in Transatlantico per compattare le truppe democristiane sparse praticamente in tutti i partiti: checché ne dicano i gruppi di appartenenza, Mattarella avrà i loro voti.
Ovviamente, da contare, c’è pure Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi. Tutti dicono che sia stato lui a convincere Renzi a scegliere Mattarella e il nostro, come tutti i vincitori, lui non ha bisogno di vantarsi: è il capannello che parla per lui. Niente assembramenti di giornalisti e politici, anche perché se ne sta nella sua Firenze, ma anche un altro democristiano doc ha detto una buona parola per Mattarella è Giuseppe Matulli, ex deputato della sinistra Dc, proconsole di De Mita in Toscana, l’uomo sotto la cui egida è iniziata la carriera democristiana di Matteo Renzi. Inizialmente si era speso per Ugo De Siervo, altro dc caro al premier, ma Mattarella è sempre una persona di famiglia.
Tornando ai capannelli, invece, quanto prima li avrà indietro anche l’ex cda Rai Nino Rizzo Nervo, oggi a capo del Consorzio da cui dipende la “Scuola di giornalismo radiotelevisiva” di Perugia: il nostro fu assistente dell’attuale giudice costituzionale. A proposito di giuristi, poi, va citato anche il network attraverso cui sbarca il lunario Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di, capo del legislativo della ministro Marianna Madia, docente di diritto amministrativo a Siena e alla Luiss, nonché membro del comitato direttivo dell’Irpa (Istituto di ricerche sulla P.A.), dove siede assieme a Giulio Napolitano, figlio di, suo coautore in diverse occasioni, sotto l’occhio benevolo dell’anziano maestro Sabino Cassese, quirinabile pure lui, ma senza la necessaria “Lobby Bianca”. Che poi, se a palazzo Chigi c’è un vecchio democristiano travestito da giovane democratico la lobby ha vita molto più facile.

*****

15. ENRICO FIERRO, IL FATTO QUOTIDIANO –
Dai nemici mi guardi Iddio ché dagli amici mi guardo io”. Oggi tutti “mattarelliani”, tutti per “Sergiuzzo”, soprattutto i balenotteri invecchiati e superstiti della grande Balena bianca. Torna la Dc, no, non è mai andata via, nei secoli fedele come l’Arma, anche se dispersa un po’ nel Pd renziano, un pezzetto nei vari tronconi del berlusconismo, un pizzico nelle sigle neocentriste. Ha i lucciconi agli occhi Rocco Buttiglione, “Sergio è amico mio”, si commuove Clemente Mastella, fa battute carine Pino Pisicchio, ma quante botte si sono dati ai tempi d’oro della Dc. Ai congressi, certo, ma ancora di più nei convegni che le varie correnti del partitone organizzavano in ovattati conventi, lontano da occhi e orecchie indiscreti. Abiti grigi, modi curiali, articolati pensieri per disegnare feroci mappe del potere. Leonardo Sciascia fu affascinato da quel mondo e scrisse Todo Modo. Poi, certo, si scadeva nella sguaiata volgarità e i nemici venivano triturati. Franco Evangelisti, ras romano del potere andreottiano, poco prima di morire raccontò i pranzi a casa di Salvo Lima, potente viceré siciliano. A pranzo finito, quando ormai sulla tavola primeggiavano cannoli e cassate, il proconsole del Divo Giulio praticava un rito, sempre lo stesso. Alzava il cucchiaio in alto. “Quello era il segnale – è il racconto di Evangelisti -. Salvo divideva il mondo in uomini e ricchioni,chepoivolevadiretutto:cattivooslealeo nemico, magari solo antipatico, ma sempre ricchione. Salvo, dunque, agitava il cucchiaio come uno scettro, tu facevi un nome, e lui: ricchione. Sergio Mattarella: ricchione, e qualche volta anche cornuto…”.
Lui, il cavallo di razza ora in corsa per il Quirinale, sapeva di questa strana usanza, aveva messo nel conto l’odio di Lima e Ciancimino, ma come da tradizione, cultura, carattere e formazione, non replicava. “In confronto a lui Arnaldo (Forlani, ai tempi detto coniglio mannaro, ndr) è un movimentista”, dice ancora oggi Ciriaco De Mita quando gli chiedono un giudizio su Mattarella. Sopire, smussare, chetare. Solo una volta il promesso inquilino del Quirinale perse le staffe e prese di petto Rocco Buttiglione. Era il 1995 e Buttiglione si impadronì di Piazza del Gesù con l’obiettivo di traghettare quello che rimaneva della Dc nei sicuri porti berlusconiani. Dismesso l’abito grigio Mattarella, insieme ad una infuocata Rosi Bindi, gli urlò “fascista, fascista, fascista”, tre volte, per sovrappeso lo definì “el general golpista Roquito Buttiglione”. Rocco non si scompose, fece quello che doveva fare, e per vendetta staccò luce, gas e telefoni agli altri occupanti abusivi di quello che fu il quartier generale dei democristiani. Gli anni passano e gettano acqua sugli ardori del passato. “Quella – dice oggi Buttiglione non più golpista – fu una esperienza dolorosa. Sergio ha un carattere e quindi talvolta un cattivo carattere. Sarà un buon presidente…”. “Sergio è amico mio, continuo a chiamarlo così, ma dai prossimi giorni per me sarà il Presidente. Avrà uno stile einaudiano”. Anche Clemente Mastella ha i lucciconi, anche lui ha dimenticato quel terribile 1993, quando si candidò a segretario della Dc. Sergio suo e Bodrato gli spezzarono le gambe: “Un partito moderato e conservatore non può essere il nostro partito”. Pure l’onorevole Lorenzo Dellai promette sostegno e voti, anche lui ha accantonato il passato e quella imposizione rutelliana del 2001 che volle catapultato nel suo Trentino il siculo Mattarella. “Non possiamo venire a sapere che uno si candida qui leggendo il Giornale di Sicilia”, disse al tempo. Da Sergio mai una replica, una polemica, finanche qualche sorrisetto alle accuse di essere un menagramo lanciate in pieno Parlamento da un deputato siciliano. Massimo D’Alema affondò Prodi e arrivò finalmente al governo, come vice scelse proprio Mattarella. Ilario Foresta, imprenditore siculo e deputato di Forza Italia, attinse a piene mani da Pirandello. “Onorevole D’Alema, Lei ha compiuto un grave errore nel nominare alla vicepresidenza l’onorevole Mattarella, persona che stimo, ma che coloro che lo conoscono bene affermano abbia una grave prerogativa”. Toccatina unanime. Ma se, come dice Buttiglione, Mattarella ha un cattivo carattere, lo nasconde bene. “Sarà un buon presidente – dice il filosofo – ma Renzi non lo conosce bene”. Un cattivo presagio per il renzismo pigliatutto.

*****

16. EMILIANO LIUZZI, IL FATTO QUOTIDIANO -
Era il più autorevole tra gli ignorati. Negli ultimi anni hanno avuto più prime pagine Scilipoti e Razzi che non Sergio Mattarella. Poi, all’improvviso gli italiani, quelli col pelo sullo stomaco e della “nave del vincitore”, hanno scoperto di avere in casa un grande statista, paragonabile solo a Roosevelt, Churchill, De Gaulle. Qualcuno lo aveva sempre saputo, si era dimenticato però. Commentatori in televisione, sempre dalla parte del vincitore, passati da Massimo D’Alema a Silvio Berlusconi, da Daniela Santanchè a Matteo Renzi. Tutti a idolatrare il candidato Mattarella. Alcune cose le hanno scoperte anche i parlamentari del Pd: “Grande giurista”, “uomo di ferro”, “combattente per la Costituzione”, “un voto al quale non si può che dire sì”.
Un ritornello che si ripresenta sui grandi giornali. La Repubblica, nata combattiva, riesce in un titolo formidabile: “Dagli ex popolari (attenti a non nominare la Democrazia Cristiana ndr) agli amici del San Leone, il mondo riservato del giudice costituzionale”. Le premesse per un quadro perfetto, senza sbavature, un ritratto che non ammette nessuna criticità. Per intendersi: il quotidiano di Largo Fochetti nomina tutti, da don Luigi Sturzo a Giorgio La Pira, da Sabino Cassese a Benigno Zaccagnini, e quelle “giornate passate a discutere di diritto costituzionale con Leopoldo Elia”. Non è nominato, per esempio, Nicola Mancino, uno degli uomini più vicini a Mattarella. Perché Mancino di questi tempi si può ricordare, ma anche no. Scomodo, visto che Mancino è imputato nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia e Mattarella potrebbe essere convocato come testimone in quel processo. Meglio sorvolare sul duo Mattarella- Mancino che furono artefici della risurrezione della vecchia Dc nel dopo tangentopoli. Guai ricordare anche l’età, perché il messaggio di Renzi è quello che sia una scelta anche giovane.
Sulla stessa linea anche ilCorriere della Sera. “L’attesa del mite Sergio, ultimo moroteo”. “Guardate che ha dentro il fil di ferro”, è il messaggio del titolista tra virgolette, anche se la dichiarazione è del giornale, perché nessuno lo definisce fil di ferro. Solo l’articolista. Aldo Moro non è citato su Repubblica, ci pensa il corrierone a ricordare chi è davvero, ma nel pezzo di Moro neanche l’ombra. Sappiamo però che viveva in affitto, che la sua segretaria storica si chiama Leandra, ma poi non siamo certi di nulla, se non “che tifa Palermo, con una debolezza, pare, per l’Inter”.
Attestati di stima incondizionata, in queste ore, arrivano da tutti i politici, di questo e quell’altro mondo. Alle 19.49 di ieri l’Ansa firmata dal sindaco di Roma Ignazio Marino: “Grandissima preparazione e persona molto seria”. Pietro Grasso, presidente supplente e tra le alte cariche dello Stato che un pensierino al Colle l’avevano fatto, si dice dispiaciuto “per non poterlo votare”. Oppure Walter Veltroni, anche lui candidato, che se la sbriga con una “persona di primo livello, un uomo delle istituzioni”. Tra i pochi fuori dal coro, Pupi Avati, al quale Mattarella non piace: avrebbe preferito il “cinefilo Veltroni”.
Ma citare tutti quelli che le agenzie hanno scovato è impensabile: Carmelo Barbagallo della Uil, Maurizio Ronconi per l’Udc in Umbria, il titolare del bar dove Mattarella va a prendere ogni tanto il caffè, il portiere della casa della famiglia a Palermo. Tra gli ultrà non poteva mancare il barbiere.