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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

LA MAPPA DELL’ODIO IN 140 CARATTERI


Se free speech è libertà di parola, hate speech è parola dell’odio che può diventare incitamento e a volte crimine, hate crime. La parola che odia è quella che attacca e offende una persona o un gruppo sociale sulla base di caratteristiche come il genere, l’etnia, la religione, l’orientamento sessuale, la disabilità. In alcuni casi e Paesi la legge punisce l’hate speech. Spesso il dibattito giuridico rimane sospeso sul crepaccio che separa reato d’opinione e incitamento all’odio. Favorite dalla velocità e custodite dall’onnipotenza dello spazio cibernetico, le parole possono diventare pietre. Ma non per la ponderata gravità dei loro significati, come voleva Carlo Levi, bensì per pratiche, più o meno occasionali, di lapidazione. Immediate come un byte, umilianti come uno sputo, violente come un calcio, possono essere scagliate con un tweet. Identificate e geo-localizzate, vengono a formare una mappa. Più di un anno di lavoro e di monitoraggio, quasi 2 milioni di tweet estratti e studiati: il risultato è la prima mappa dell’odio in Italia. Un progetto sperimentale voluto da Vox-Osservatorio italiano sui diritti (una no profit che si occupa di diffondere la cultura del diritto nel nostro Paese, fondata da Silvia Brena e Marilisa D’Amico) e condotto in collaborazione con i dipartimenti di Diritto pubblico della Statale di Milano (Marilisa D’Amico), di Psicologia dinamica e clinica della Sapienza di Roma (insieme a chi scrive, c’è Nicola Carone), di Informatica dell’Università di Bari (Giovanni Semeraro e Cataldo Musto). Questi ultimi in particolare hanno seguito la mappatura vera e propria dei tweet, grazie a un software da loro progettato, che utilizza algoritmi d’intelligenza artificiale per comprendere la semantica del testo dei tweet e estrarre i contenuti richiesti.
Realizzata sul modello della Hate Map della Humboldt University della California, l’obiettivo era identificare le zone del nostro Paese dove l’intolleranza è più diffusa, seguendo una lista di hate-words riconducibili a cinque aree: donne, omosessuali, disabili, immigrati, ebrei. Per questo, nella locandina della ricerca, presentata il 28 gennaio nella Sala Monumentale della Presidenza del Consiglio dei ministri, un omino cerca di non essere calpestato, mentre su uno sfondo rosso, tappezzato di insulti, risalta la domanda «L’Italia è un Paese che odia?». Il periodo di rilevazione ha coperto buona parte del 2014, con 76 termini «sensibili» ai cinque gruppi. Quanto più vicino al rosso è il colore della mappa termografica, tanto più alto è il livello di intolleranza rispetto a una particolare dimensione in quella zona. Una geografia cromatica di parole basata sulla combinazione di elementi discorsivi pre-esistenti (razza, genere, religione, ecc.), l’innesto di elementi contingenti (paure, ansie, fastidi) e il suggello argomentativo di fatti personali o di cronaca (rapine, violenze, ecc.). Aree prive d’intensità termografiche non indicano assenza di tweet discriminatori, ma luoghi che mostrano una percentuale più bassa di tweet negativi rispetto alla media nazionale.
Perché Twitter e i suoi 140 caratteri? Sebbene non sia il social network più utilizzato, il fatto che permetta di re-tweettare dà l’idea di una comunità virtuale continuamente in relazione, dove l’hashtag offre una buona sintesi del punto di vista dell’utente, elidendo tuttavia forme di pensiero più articolate. E poi perché i twittatori dichiarano spesso la loro collocazione nello spazio geografico e non solo in quello virtuale. Di un lavoro così ambizioso non si possono ignorare, per ora, i limiti: dell’intera popolazione, chi twitta è una piccola minoranza; e sul numero complessivo di tweet, quelli geolocalizzabili costituiscono una porzione minoritaria, pur se in linea con le percentuali rilevate da altri studi. Tra i molti spunti che emergono da questo censimento, due sembrano i più rilevanti. La distribuzione dell’intolleranza è polarizzata soprattutto al Nord e al Sud, con minor riscontro nelle regioni centrali: situazione che si capovolge per l’antisemitismo, evidenziato soprattutto in Lazio e Abruzzo. I tweet antisemiti sono in assoluto i più geolocalizzati: il 18,3 per cento del totale, contro il 7,6 per cento di quelli omofobi, il 2,6 per cento di quelli contro le donne, l’1,2 per cento di quelli razzisti e lo 0,75 per cento di quelli contro i disabili. Ma il dato forse più eclatante è la netta preponderanza dei tweet misogini, tema su cui si concentra il maggior numero di rilevazioni: più di un milione in otto mesi, contro le 479 mila contro i disabili, le 154 mila di ispirazione razzista, le 110 mila contro gli omosessuali e le seimila contro gli ebrei (ma il periodo di rilevazione è stato in questo caso di soli cinque mesi).
L’offesa (verso donne, omosessuali, immigrati, ebrei e disabili) passa quasi sempre per la dimensione corporea e l’atto fisico: corpi sessualmente disprezzati, deformati, mutilati, mortificati, verbalmente picchiati o stuprati. Si tratta di un bisogno primitivo, non elaborato, ma evacuato su gruppi che culturalmente rappresentano ciò che è considerato debole o inferiore. Come scriveva Cesare Pavese, forse «si odiano gli altri perché si odia se stessi». Ecco dunque che l’insulto diventa una sorta di difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui. «Un’avversione profonda» scrive la filosofa Martha Nussbaum in Disgusto e umanità «simile a quella ispirata dagli escrementi, dagli insetti viscidi e dal cibo avariato». L’insulto non deforma semplicemente la parte del corpo coinvolta; è necessario disprezzarne i confini con l’idea della contaminazione e della sporcizia. «Frocio di merda»; «negro di merda»; «ebreo di merda»; «handicappato di merda», «troia di merda», una ripetizione quasi ossessiva del termine escrementizio che non si limita a reinterpretare l’altro manipolando segni e parole. È in atto un processo di disumanizzazione, che nell’attaccare l’altro lo rende abietto. E ancora, da rilevare che gli insulti spesso si accompagnano, nella veste perversa della contrazione lessicale, ai personaggi della contemporaneità più detestati o da detestare: così, negro vive accanto a terrone, a merda, e a Balotelli. Mentre Boldrini e Carfagna compaiono accanto ai peggiori insulti solitamente riservati alle donne (quelli forse impliciti nel dubbio che ha assalito Gasparri nel suo ormai celebre tweet sulle ragazze rapite in Siria?). La mappa dell’intolleranza può essere uno strumento utile per riflettere sull’indicibile quando questo viene pronunciato e, potenzialmente, agito. Del resto, da novembre 2014, Twitter ha iniziato a collaborare con l’associazione no profit americana WAM! (Women, Action & the Media) a un sistema di segnalazione delle molestie sul network.
Lo scopo è ridurre la quantità dei tweet che contengono minacce di violenza, doxxing (pubblicare informazioni personali altrui a scopo intimidatorio), insulti razzisti, omofobi o sessisti. E Vox, della sua mappa, cosa ne farà? «La doneremo» risponde Silvia Brena «ai Comuni, alle Regioni, alle scuole, a chiunque abbia bisogno di fare un’efficace azione di prevenzione sul territorio».
Vittorio Lingiardi