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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

DAI MARTINITT ALLA ERRE VERDE: COSÌ È NATO IL “CUMENDA”

Non è una storia, anche se è la “vera storia”. Ma non è neanche soltanto una raccolta di aneddoti perché, anzi, ne smonta parecchi che imperversano da decenni. È uno scambio di ricordi accurati fra due signori che sono stati testimoni diretti dell’ascesa e della caduta (meno della resurrezione) di un impero editoriale, parenti stretti dei protagonisti e protagonisti loro stessi. Nicola Carraro e Alberto Rizzoli — cugini, entrambi nipoti di Angelo Rizzoli, il fondatore della casa editrice — si sono messi assieme a comporre una sinfonia a due voci, un carteggio dove ogni lettera innesca la risposta del corrispondente, scrivendo Rizzoli – La vera storia di una grande famiglia italiana, ora in uscita per Mondadori Electa. Emergono retroscena intimi, curiosi — talvolta anche piccanti — e, in mezzo, vicende controverse su cui l’opera trasmette notizie non irrilevanti.
A far da sfondo, la “erre”, naturalmente verde come erano verdi le matite che adoprava Angelo, il capostipite, cresciuto coi “martinitt” (gli orfani, in dialetto milanese), attentissimo ai conti e ben consapevole che i lapis verdi erano i meno venduti e quindi i più economici — e come era verde l’enorme insegna che troneggiava sui palazzi aziendali di via Civitavecchia, zona Crescenzago, periferia est milanese. Quelli che dettero il segno dell’inesorabile successo raggiunto, tirati su dal 1957 al 1960 abbandonando la sede originaria in piazza Carlo Erba, già devastata dai bombardamenti alleati durante la guerra. E, contemporaneamente, sconfortando assai alcuni “rizzoliani” storici, come Giovannino Guareschi che mal digerì il trasloco (del resto, aveva casa vicino allo stabilimento antico), tanto da disegnare una memorabile vignetta, con lui, la moglie e i figli, tutti derelitti e accampati sotto una tenda accanto ai grandi e nuovissimi edifici in quella che sarebbe presto diventata via Rizzoli.

Un debito con la fortuna. Il verde in genere ritorna nell’epopea societaria, simbolo di fortuna, quella che Rizzoli evocava spesso per l’origine dell’impresa (la prima “pedalina”, una macchina da stampa, acquistata coi soldi avuti all’uscita dall’orfanatrofio, che poteva rovinarsi e sbriciolarsi all’altezza di Porta Venezia e invece restò intera) e quella che volentieri sfidava al tavolo verde, giocando — e perdendo — milioni: «Mi ha portato la prima volta in un casinò quando avevo dodici anni – sì, non avrebbero dovuto ammettermi perché ero minorenne, ma quando Angelo Rizzoli varcava la soglia del casinò di Sanremo o di Venezia tutti si scappellavano e gli srotolavano davanti i tappeti rossi», ricorda Carraro e cita un articolo di Oriana Fallaci sull’Europeo: «Il mio sospetto… è che non giocasse per vincere, bensì per perdere e pagare il suo debito alla fortuna. Parlava troppo della fortuna, era troppo convinto che la fortuna fosse la componente definitiva del suo successo…».
Detto per inciso, un piccolo punto da chiarire coi due autori è la grafia del soprannome con cui tutti in azienda indicavano il proprietario. Nel libro, è scritto “Commenda”. In dialetto milanese, quello che parlava la gran parte dei poligrafici, la pronuncia è piuttosto “cumenda”. Sorride, Alberto Rizzoli: «Vero, ma noi in famiglia parlavamo italiano. Lui diceva spesso: “Chiamatemi zio”, e rideva. Non l’abbiamo mai chiamato nonno. Abbiamo sempre detto “Commenda”».

La richiesta del “nemico”. Ci sono i ricordi dei grandi trionfi, come la nascita della BUR o l’avventura cinematografica culminata nella produzione della Dolce vita, e anche delle iniziative abortite, come l’Oggi: aveva uno slogan azzeccato — “Il quotidiano di domani” — e venne studiato e provato a lungo negli anni Sessanta, senza mai vedere la luce. Emergono aspetti curiosi nella dimestichezza con grandi giornalisti, come Indro Montanelli. A chi gli chiedeva perché non avesse la direzione di un giornale, il Commenda rispondeva: «Quando il direttore di un quotidiano è più importante e famoso della testata che dirige non c’è più spazio per un editore professionista». E vengono corrette versioni inesatte che rischiano di valere per l’eternità. Come una proposta da Gaetano Afeltra. Col quale Carraro ebbe una querelle aspra: «In un suo articolo sostenne che un giorno il Commenda lo aveva chiamato perché scrivesse per Time, che gliel’aveva richiesta (e qui già i conti non tornano, perché Afeltra non sapeva una parola d’inglese…), una sorta di cover story sulla sua vita e i suoi successi. “Faccia lei”, gli avrebbe detto il nonno, “io le do solo l’attacco: se Rizzoli piscia all’angolo di una strada, in quell’angolo cresce una rosa…”. Una stronzata spesso ripresa dalla stampa ogni volta che si ricorda il Commenda… Angelo Rizzoli non era mai volgare e non avrebbe certo dettato una nota biografica così greve. Figuriamoci poi per l’austero Time».
Meno sviluppato un altro filone, quello della concorrenza con l’altro grande editore che si affermava in quegli anni, Arnoldo Mondadori. «Non si amavano ma si rispettavano. La concorrenza era sui giornali, ma Rizzoli si muoveva molto anche in altri campi, a partire dal cinema, dove Mondadori non c’era».
È inevitabile un’ultima domanda: «Ora, uscire per i tipi di Mondadori non farà rivoltare il “Commenda” nella tomba?». Risponde Carraro: «Penso proprio di no… Remore non le abbiamo avute. E poi è la Mondadori che ce l’ha chiesto, magari con la Rcs avremmo avuto qualche imbarazzo in più. Comunque, la presentazione la facciamo alla libreria Rizzoli…».