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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

«AFFILATA COME UNA LAMA BASTONAVA TUTTI

E NON IMBROGLIAVA MAI» –
«Dico: se uno viene qui, in Vietnam, riesce a capire quanto grande è il valore della vita. E l’Oriana, quella frase lì, se la mette in bocca. Mentre lei fa il Vietnam con la macchina da scrivere, io faccio tre servizi fotografici col botto. Gli suscià dei viet li racconto io, cosa fanno, dove dormono, quando vanno a pulire le scarpe ai soldati. Corrono dietro all’americano per farsi dare dei soldi, vanno al mercato a rubare la frutta e se qualcuno li scopre scappano via e si tuffano nel Me- kong. Poi faccio la storia di una recluta che combinazione si chiama Kennedy, un bel ragazzetto mandato in prima linea sulla Montagna della Vergine, zona pericolosa perché è tra la fine della Strada di Ho Chi Minh e la Cambogia. Lì vado con l’elicottero. In Vietnam c’è la regola: prima i feriti, poi i fotografi e i giornalisti, poi le truppe, poi il resto. E infine la storia dell’ambasciatore americano sfidato dai vietcong a farsi ammazzare. Lui accetta: “Vi dico tutto quello che faccio, dalla mattina alla sera, e voi venite a uccidermi, se ne siete capaci”. Sto con lui un paio di giorni, senza paura. Figuriamoci: ho fatto il Burundi, il massacro dei watussi con Monicelli, la guerra indo-pachistana, da solo. Ho un’esperienza di scontri duri, e ho imparato a sopravvivere alle falsità dei pericoli nascosti. Con l’Oriana sono stato in Libano non so quante volte, e in nessun altro posto al mondo è più facile morire. Avevo ottenuto i permessi dai vari gruppi religiosi e politici, cristiani e sciiti, musulmani e hezbollah. Però non sapevi mai chi ti stava fermando, e allora tanto valeva non avere permessi in tasca, stracciarli tutti, così, se ti perquisivano, come due volte mi è capitato, stavi tranquillo. Io mettevo nel passaporto dei soldi, se erano due soldati, cinque dollari, se erano quattro ragazzi, dieci. E tutto filava via liscio. Quando arrivavo a un posto di blocco di africani, se vedevo gli occhi rossi mi muovevo lentamente, stavo a sentire, esploravo e dicevo: “Ci facciamo una fumatina insieme?”. Se avevano gli occhi rossi, voleva dire che erano drogati: i neri non fanno la sentinella per quattro ore, a volte li sbattono lì alla mattina alle otto e li lasciano in piedi per una settimana. Ogni tanto passa un camion che lascia da bere e qualcosa da mangiare. Per resistere si arrangiano masticando foglie come quelle di coca. Ma sono pericolosi. Non devi avere orologi o catenine; se tiri fuori i soldi, devi far vedere solo gli spiccioli, anche se lo sanno che non hai solo quelli. Per gli altri, prendi un bel cerotto e fingi una medicazione all’altezza della cintura, così se uno ti palpa sente duro ma ci passa sopra».
Così hai visto nascere il mito di Oriana Fallaci, forse l’unico che ha valicato le Alpi. Come è potuto accadere?
«L’Oriana è stata il numero uno, ma non ha mai avuto rapporti con la gente: lei fa la diva. Dopo vent’anni è riuscita a litigare anche con me, per una banalità. E non l’ho più rivista. La conoscevo bene, in tutto, più che una sorella, più che una moglie, più che un’amante: vent’anni non sono pochi. Era opportunista, molto egoista, ma sul lavoro era un mostro, nelle interviste era una lama affilata. Con lei ho fatto i grandi servizi del Vietnam, sei o sette volte, e gli Incontri con la Storia, cioè le interviste ai grandi personaggi. Ricordo bene lo scià di Persia, che già conoscevo perché ho fatto il paparazzo a Ginevra: però non lo beccavo quasi mai, perché i suoi lavoretti li faceva di notte. Un bel giorno si sposa con Farah Diba. E io ci sono. Che tempi! Arrivo con l’aereo privato della Rizzoli, con due fotografi di Oggi, un giornalista di Oggi e uno dell’Europeo. Siamo all’Hilton. All’Ufficio di accoglienza guardano la lista delle richieste e ti danno il pass per il giornalista e quello per il fotografo, che si mettono in zone differenti. I fotografi sono in due o tre aree diverse: bisogna indovinare la buona. Io scelgo quella da dove sarebbero entrati nella grande sala. Alla fine della cerimonia lunghissima, perché lui si sentiva discendente diretto di Maometto, li vedo arrivare, lei bella ragazza, lui grande presenza. Sparano i flash e si muove tutto: persone, seggiole, bancarelle, transenne. Sono mitragliatrici che vanno: io faccio tre foto secche. Siamo rimasti tre giorni. Teheran non era in un’atmosfera di grande festa, non è mai stata una città di grande festa. Poi l’ho intervistato con l’Oriana, che riusciva ad avere questi personaggi grazie alle ambasciate italiane. La sua grande fortuna, però, è venuta con l’intervista a Kissinger, ma io non c’ero. Siamo stati lì quattro giorni; mentre aspettavamo siamo andati in giro a vedere il bello di Teheran. Poi siamo andati all’ambasciata per sapere come ci si doveva comportare, ma non c’erano grandi obblighi, perché lo scià era un democratico. Ci si presenta a palazzo, arriva il colonnello, la guardia, ti accompagnano, c’è il segretario personale: Sua Maestà ci attende. L’Oriana parla in inglese. Il segretario bussa, entra, ci annuncia, esce. Arriva lui, lo scià. Entra prima la donna, poi io, senza fare il baciamano perché lui è imperatore e non si abbassa. Sempre con un’aria molto democratica. Io ho la tentazione di rubargli le tartarughe: cinque, d’oro, in scala sul tavolino. Il problema è che se domani mattina la donna delle pulizie si accorge che ne manca una capiscono subito che sono stato io. E allora le rimetto a posto. Tutto dura un’ora e mezza, due forse. Ben fatto: lui parla in inglese e anche molto bene in francese. L’Oriana, però, preferisce l’inglese».
Nella creazione del mito, ha contato di più il carattere della Fallaci o la sua professionalità?
«Non ha mai imbrogliato, con nessuno, nelle interviste. Faceva la domanda e magari, poi, quando iniziava il suo pezzo, la ponderava o l’aggiustava, ma senza uscire dagli schemi. Dopo, ultimamente, si è fatta beccare in castagna, ma io non c’ero, credo fosse con Khomeini. In Vietnam si muoveva come un uomo: non ha mai giocato sull’equivoco di essere femmina. Bastonava duro. Io ho letto tutto il suo libro. Quando l’ha scritto sono nate delle discussioni tra noi, perché il giornalista, quando diventa scrittore, certe situazioni le ritocca. Io l’ho rimproverata. Quando fece il Vietnam tutti i giornali di sinistra scrivevano: “Ecco il vero Vietnam, è quello raccontato da Oriana Fallaci”. Dopo, l’Oriana va ad Hanoi con una commissione di donne italiane comuniste. Lì, lei bastona a morte: dice che quello che vede è già tutto preparato come un teatrino, che voleva andare in chiesa e gliel’hanno proibito e poi è arrivata al massimo dei massimi dicendo che le avevano proibito di andare al gabinetto. E allora è diventata di destra».
Come mai un editore come Rizzoli decide di mandare una donna a fare un servizio da “uomini” come la guerra del Vietnam. Allora non è vero che si facevano discriminazioni?
«La prima volta che lei arrivò in Vietnam fu insieme a me. Io ero già andato prima, nel ’64, a fare foto-testi. Poi sono tornato e Giglio mi chiede se me la sento di portare l’Oriana in Vietnam. Io gli rispondo che è interessante, anzi, che con l’Oriana sarebbe stato un super Vietnam. Non era ancora la grande Oriana: aveva scritto dei libri, ma il grande salto l’ha fatto dopo. Ho lavorato con lei vent’anni, dal ’62, ma ho fatto dei servizi anche prima: il festival di San Remo, il festival del cinema di Venezia e quello di Cannes. Però lei faceva il suo servizio e io le mie fotografie: si faceva il personaggio di Mina ed io mi sbattevo facendo le foto. Ma non c’era matrimonio. Poi è arrivato il grande botto: il Vietnam».