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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

SERIAL KILLER NEI SECOLI


L’etimologia di mostro, monstrum in latino, deriva dal termine monere, avvisare, ammonire, ma sta pure a indicare un accenno divino, un prodigio. Insomma, parlare di mostri significa parlare di cose straordinarie, che trascendono la natura e si palesano all’improvviso, costringendo l’uomo a una difficile interpretazione: si tratta di un segno propizio o funesto, di un avvertimento o una indicazione, possiamo guardare al futuro con serenità o paura?
Nel linguaggio di tutti i giorni, ecco perciò il grande artista definito un «mostro di bravura», così come altri «mostri», ben meno nobili, sono gli specialisti dell’efferatezza criminale, da quello di Düsseldorf a quelli di Firenze e Milwaukee.
A proposito di questi ultimi «tipi» di mostro, i serial killer, che tanto continuano a piacere agli autori di thriller e agli sceneggiatori delle serie televisive, possiamo dire senza paura di essere smentiti che la loro presenza sul palcoscenico del delitto non è un fatto recente. La storia documentata di un primo assassino seriale è già negli scritti di Apuleio.

Veleni a palazzo
Nel 54 d.C. Agrippina, madre di Nerone, chiama Lucusta, nota come l’Avvelenatrice, e le affida un incarico: preparare un piatto di funghi letali per il marito, l’imperatore Claudio. Lucusta svolge il suo compito con diligenza ed efficacia, ma poi la fortuna le volta le spalle, e la donna viene collegata a un secondo delitto, quindi incarcerata.
Nerone, salito al trono dopo la scomparsa di Claudio, si ricorda però dei suoi talenti, e decide di impiegarli ancora una volta; invia i pretoriani a prelevarla dal carcere, salvandola da un’esecuzione già fissata, ma in cambio le impone di eliminare Britannico, figlio di Claudio e legittimo erede. Un primo tentativo fallisce, ma al secondo Britannico muore. Per Lucusta l’immunità è garantita, peccato che il suicidio di Nerone, nel 68 d.C. la lasci in balia dei suoi nemici. L’anno dopo Galba ne ordina una spettacolare esecuzione pubblica, facendola divorare viva da tigri e leoni nell’arena del Circo Massimo.
Un salto di un migliaio d’anni e più, ed ecco il caso del maresciallo di Francia Gilles de Rais.
Di nobili origini, nato nel 1404, Gilles combatte accanto a Giovanna d’Arco prima di ritirarsi a vita privata. Abbandonate armature e spade, inizia presto una vita di dissolute stravaganze. Pedofilo sadico, molesta e uccide i figli dei contadini del luogo, indifferentemente maschi e femmine. Si dedica alla cartomanzia, all’alchimia, alla magia nera, dando fondo alle proprie risorse economiche, vendendo terre e palazzi.
Nel 1439 incontra Francesco Prelati, un prete scomunicato, e i due si lanciano nel tentativo alchemico di trasformare il piombo in oro, usando come catalizzatore il sangue di giovani vittime. Sempre più a corto di denaro per i suoi folli esperimenti, Gilles de Rais ignora il richiamo del re a una maggiore temperanza, e finisce per aggredire un religioso inviatogli in ambasciata.
Un errore imperdonabile. Nell’inchiesta riservata, commissionata dalla Santa Sede, si legge tra l’altro: «14 luglio 1440, corrispondenza del Vescovo di Nantes. Diamo notizia per mezzo di queste lettere che, visitando la parrocchia di Sainte-Marie, in Nantes, nella quale Gilles de Rais, qui sotto designato, soventemente risiede [...], ci sono giunte alcune voci insistenti, poi le accuse e le dichiarazioni di buone e discrete persone [...] Abbiamo appreso fra le altre cose che il nobiluomo messer Gilles de Rais [...] con il concorso di certi suoi complici, aveva sgozzato, ucciso e massacrato in modo odioso numerosi fanciulli innocenti, che aveva praticato con detti fanciulli la lussuria contro natura e il vizio di sodomia, sovente fatto e fatto fare l’orribile evocazione dei demoni, aveva a questi sacrificato e stretto patti con essi, e perpetrato altri enormi crimini».
Catturato nell’ottobre del 1440, Gilles De Rais è torturato insieme a complici e servitori, mentre nella torre di una delle sue dimore vengono ritrovati i resti di 50 cadaveri, e altrettanti in un seconda residenza. Il 26 ottobre prima è strangolato, poi il suo corpo viene dato alle fiamme. Gli studiosi più cauti gli attribuiscono almeno 200 omicidi, altri parlano di una cifra quattro volte superiore.

Sangue ungherese
Erzsebet, o Elisabeth, Bathory non è da meno del collega francese.
Nasce nel 1569, figlia di un aristocratico e della sorella del re di Polonia; una nobile famiglia che, tuttavia, da alcuni decenni registra segnali di chiara e inarrestabile decadenza. Oltre ad annoverare magistrati e re, giudici e prelati, la casata Bathory si distingue per la presenza di assassini, stupratori, alcolizzati, satanisti. Erszebet stessa, durante l’adolescenza, viene introdotta al culto di Satana e ai piaceri della tortura. La sua bellezza deve fare i conti con invisibili e distruttive tare genetiche.
Il 5 maggio 1575 sposa il conte Ferenc Nadasdy. La coppia si stabilisce nel castello di famiglia, nel nord-ovest dell’Ungheria, dove vengono allestite speciali camere della tortura, per venire incontro ai desideri ed ai bisogni perversi della donna. Rituali alchemici, rapporti sessuali disordinati, con uomini e donne indifferentemente; quando la rabbia o la noia si fanno eccessive, la Bathory ama porvi rimedio infliggendo torture alle ragazze che servono a palazzo. Il conte cerca di frenare le dissolutezze della moglie ma è impaurito dalla sua ferocia e cerca di passare la maggior parte del tempo lontano da lei. Quando muore, nel 1604, Erzsebet Bathory perde qualunque freno inibitore.
Ma anche lei, come già Gilles de Rais, commette un errore imperdonabile: nel 1609 tra le nuove vittime sceglie una giovane appartenente alla nobiltà minore del luogo. La notizia raggiunge il trono ungherese, e re Mattia invia il conte Gyorgy Thurzo a investigare. Il 26 dicembre 1610, durante un’ispezione notturna, Thurzo sorprende Erzsebet e i suoi servitori nel mezzo di una sanguinaria orgia di tortura, perversione e morte.
Inevitabile l’arresto e il processo. Ma mentre i complici sono giustiziati la contessa ha salva la vita. Trascorre tre anni e mezzo in una stanza del castello di Csejthe, porte e finestre sono murate, lasciando solo una piccola apertura per il passaggio dell’aria e del cibo. Il 21 agosto 1614 viene ritrovata morta.

Il primo italiano
Un altro salto nel tempo ed eccoci al primo serial killer italiano dell’era moderna: Antonio Boggia, passato alla cronaca come il «mostro della stretta Bagnera».
Siamo a Milano, e la stretta Bagnera è un vicolo oggi scomparso dalle parti di via Torino, nel centro della città. Il 26 febbraio 1860 Giovanni Maurier denuncia la scomparsa della madre, Ester Maria Perrocchio. Della donna non si hanno più notizie da un anno o, per meglio dire, la si pensa trasferita sul Lago di Como, dopo aver lasciato l’amministrazione dei suoi immobili al signor Boggia, suo uomo di fiducia.
La denuncia avvia le indagini, centrate proprio sul Boggia, nato a Urio, nel comasco, il 23 dicembre 1799 e trasferitosi a Milano nel 1818. Piccolo imprenditore fallito, era di indole tranquilla, riservata, un bravo cristiano che frequentava la chiesa e aveva la stima dei vicini. Strano quindi scoprire un fascicolo penale a suo carico, che risaliva al 1851, e addirittura parlava di un tentato omicidio.
Il Boggia aveva attirato un tal Comi, di professione contabile, nei locali che possedeva nella stretta Bagnera, poi gli aveva assestato un fendente alla testa, che tuttavia non era bastato a ucciderlo. Il Comi era fuggito sanguinante e il Boggia era finito per qualche anno in manicomio.
I timori sulla fine della signora Perrocchio si fanno perciò ancora più pressanti, e alla fine si scova qualcuno che ricorda. L’ultima volta che l’avevano vista, l’anziana signora stava discutendo con il Boggia, che nel corso della stessa giornata aveva fatto alla portinaia dello stabile una strana richiesta, quella di un paio di secchi d’acqua.
Ormai è questione di ore. Messo alle strette, il Boggia confessa l’omicidio e il cadavere della Perrocchio salta fuori, murato nel sottoscala. Ma non è tutto, e la perquisizione nei locali di proprietà dell’assassino riserva terribili sorprese. Documenti e procure di un tal Ribbone, di un signor Marchesotti e anche del signor Meazza. Tutti scomparsi anni prima, senza che nessuno abbia mai sospettato nulla.
Il 18 novembre 1861 si apre il processo a carico di Antonio Boggia, a cui sono contestati quattro omicidi a scopo di rapina e un tentato omicidio. Bastano cinque giorni per stabilire la colpevolezza dell’uomo, che tenta la carta dell’infermità di mente. Lamenta mali al capo, in cella si spoglia e canta di notte, a giudici e giuria dice di non sapere che cosa gli aveva preso, che era stato senz’altro un raptus.
La sua triste esistenza si conclude nell’aprile del 1862, giustiziato per impiccagione; il corpo viene sepolto nel cimitero del Gentilino e la testa donata alla scienza, a Cesare Lombroso.
Antonio Boggia, un «mostro». Per anni resta l’esempio del male, e i milanesi che vogliono mettere l’accento sulla cattiveria di qualcuno gli si rivolgono dicendogli «Te set un Boggia!» («Sei un Boggia!»). Fino al 1911, quando un altro «mostro», questa volta di caratura internazionale, gli ruberà la scena, e pure il detto, trasformando l’insulto in «Te set un Landrù!».