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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

DICIOTTO ARTICOLI SULLE ELEZIONI PER IL QUIRINALE DAI GIORNALI DI VENERDI’ 30 GENNAIO 2015


1. MARCO GALLUZZO, CORRIERE DELLA SERA -
Mentre indica in modo ufficiale Sergio Mattarella, ne difende la storia e la carriera, lo presenta come esempio di buona politica, Matteo Renzi definisce il passaggio come «la vicenda istituzionale più rilevante che la Costituzione prevede», rivendica il ruolo che si è ritagliato, che «non è arroganza, tocca a noi l’hanno detto gli altri partiti».
Davanti a senatori e deputati democratici, di prima mattina, Renzi scopre le carte, accompagna la scelta definendola «occasione per cancellare lo smacco del 2013», l’affossamento della candidatura di Romano Prodi, chiarisce che si attende il massimo di compattezza e trasparenza dal suo partito: «Non ci deve essere spazio per i giochini del dopo. Se si sceglie un candidato lo si vota».
A chi avesse dei dubbi, a chi pensa che magari l’indicazione possa essere ancora una mossa tattica, Renzi — che in mattinata riceve il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone — risponde: «Il Colle non è un passaggio per cui ci divertiamo a fare i nomi. Chi vuole bruciare i nomi fa i falò. Chiedo la massima franchezza».
Se da Forza Italia accusano che la scelta significa la violazione di un patto, quello del Nazareno, è Debora Serracchiani, vicesegretario dem, a ricordare che l’accordo politico con Berlusconi «riguarda la legge elettorale e le riforme. Se Berlusconi ha cambiato idea lo vedremo, ma è certo che Renzi non ha violato alcun patto».
Mattarella sarà votato alla quarta votazione, sabato mattina, aggiunge Renzi, tracciando un ritratto del politico siciliano che non ha sfumature, se non positive: uomo dalla «schiena dritta, della battaglia contro le mafie e della politica con la P maiuscola». Ma non solo: Mattarella «uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dimettersi». E poi «è giudice costituzionale e noi stiamo cambiando la Costituzione. Mattarella è difensore della Carta che non significa imporne l’intangibilità, ma essere capace di valorizzare i processi di transizione».
Il Pd si esprime all’unanimità, anche Bersani elogia la scelta, e c’è anche da aggiungere, è sempre Renzi a farlo, che il candidato ha anche un solido profilo internazionale: come ministro della Difesa, «visse momenti difficili nella politica estera, nei Balcani gestimmo le missioni internazionali vicino a casa, un tema importante, perché una delle caratteristiche richieste a un capo dello Stato è la condivisione con gli alleati delle scelte di fondo».
E l’uomo ha avuto anche «il grande merito», con la legge elettorale definita Mattarellum, «di inserire almeno parzialmente i collegi, che impongono al politico di metterci la faccia». Insomma la scelta avrebbe il merito di schiudere «un settennato» all’insegna della «serenità». Dentro un percorso, conclude Renzi, «che ci porterà alla fine naturale della legislatura». Ieri la prima fumata nera, con il quorum a 673 voti. Le schede bianche (indicate da Pd, FI e Area popolare) sono state 538, meno del previsto. Ma nel Pd si dicono convinti che il quorum di 505 voti, sufficiente a eleggere Mattarella domani alla quarta votazione, sarà largamente superato.
Marco Galluzzo

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2. ALDO CAZZULLO, CORRIERE DELLA SERA -
12.42 A due ore dalla prima chiama una grande incognita fa vibrare il Palazzo e percorre il Paese: quanti voti avrà Giancarlo Magalli?

13.32 I giornalisti, categoria più impopolare di Giuliano Amato, sotto sotto sono lusingati dalla candidatura Feltri. Certo sarebbe un duro colpo se avesse meno voti di Magalli.

13.49 Mattarella (d’ora in avanti M.) non è impopolare per il semplice fatto che è scomparso da 15 anni e quindi il popolo non lo conosce o l’ha dimenticato.

14.18 Calderoli non è entusiasta di votare insieme con i Fratelli d’Italia, che lui chiama i Cugini di Campagna. Non crede a Mattarella e dice: Finocchiaro o Delrio.

15.02 Berlusconi ribadisce il no: «Quelli della sinistra dc sono i nostri atavici nemici». Ma La Russa e Civati sono convinti che nella notte B cederà.

15.38 Concluse le quirinarie online. Gettare Prodi o Bersani tra i piedi di Renzi era un’idea geniale, ma sopravvalutare l’intelligenza politica dei grillini è grave errore.

15.41 Bossi alla buvette: «M. per Berlusconi sarebbe la morte. Gli porterà via pure le televisioni».

16.41 Calderoli ha cambiato idea e sostiene che M. ce la farà: «Alfano ha un’autonomia di resistenza di tre minuti. Sta per cedere».

17.14 Il Paese si rinnova e il Palazzo pure: rivisti Pecoraro Scanio e Pillitteri, in gran forma: «Di questa giornata nei libri di storia resteranno tre righe; si aprì la Terza Repubblica tornando alla Prima».

17.17 L’entourage di Renzi è terrorizzato dalla pignoleria con cui M. esaminerebbe le leggi non sempre ineccepibili uscite da Palazzo Chigi.

17.25 Tra i 1.009 grandi elettori due non rispondono alla chiama perché sono agli arresti: Francantonio Genovese del Pd in galera, Galan di Forza Italia ai domiciliari nella sua villa palladiana.

17.28 Quagliariello: «Stiamo andando a ufficializzare il no a M. Ma restiamo al governo, eh?». Non ne dubitavamo.

17.40 Minzolini: «Renzi ci ha invitati a tavola, ma poi non ci ha lasciato mangiare».

17.42 Enrico Letta non parlava da sei mesi: «Anche io sono della sinistra Dc e Berlusconi votò il mio governo. Far politica vuol dire cambiare. Dalla legge Mammì sono passati 25 anni...».

18.07 Magalli fermo a un voto si aspettava di più. Stamattina già si vedeva governatore del mondo: «Se hanno eletto Reagan e Schwarzenegger, perché non io?».

18.21 Il leggendario Scilipoti, ingiustamente oscurato da Razzi: «Perché non dovremmo votare M.? È un galantuomo...».

19.27 Verdini, che per l’occasione aveva anche tagliato i capelli, visto di pessimo umore. Pare che Renzi abbia trattato malissimo al telefono Berlusconi, che si è offeso.

19.40 Renzi tenterà di ricucire anche perché non ha mai sperimentato cosa vuol dire avere l’impero editoriale di Berlusconi contro.

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3. GIAN ANTONIO STELLA, CORRIERE DELLA SERA –
«Cucù!» Silvio Berlusconi barcolla sorpreso: Matteo Renzi, a quanto pare, gli ha rifilato lo scherzo che lui, anni fa, aveva fatto ad Angela Merkel. Solo che quello, pur esponendo l’allora premier alle ironie di mezzo mondo, era una sorpresa innocua. Questa no. Questo «cucù» può essere letale. Non solo per la battaglia quirinalizia ma per i suoi stessi destini politici. Certo, lui non può ammettere se non a mezza bocca di sentirsi bidonato da quel ragazzo al quale aveva perdonato perfino di aver detto che lui, l’ex Cavaliere, poteva essere suo nonno. E dunque contiene la collera con quelle parole che un tempo, al debutto in politica contro i «faniguttùn», quando era insofferente ogni sfumatura del politichese, sarebbero state molto più dure: «Non siamo noi a non aver rispettato il patto ma Renzi». E poi: «Questa situazione segna comunque un altolà al patto del Nazareno». Traduzione: adesso salta tutto. Forse. Chissà. Probabilmente. Dipende dal senso di isolamento…
Sia chiaro: la storia delle elezioni del presidente della Repubblica è costellata di tali incidenti di percorso da consigliare estrema cautela nelle previsioni di una facile vittoria mattarelliana. Basti ricordare quanti leader, entrati papi nel conclave parlamentare, sono usciti cardinali. E bastonati, a volte, solo per una manciata di voti. E dopo il tormentone di due anni fa nessuno ha il fegato di dare per già fatta l’elezione di Sergio Mattarella. Resta valida la diagnosi di Carlo Donat-Cattin chiamato a suo tempo da Aldo Moro a bloccare l’elezione di Giovanni Leone: «I mezzi tecnici», rispose, «sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori». Sempre lì. Sullo sfondo .
Solo Wikipedia, nel pomeriggio, per l’incursione di un hacker ferocemente buontempone, dà la cosa per fatta: «Il 29 gennaio 2015 Sergio Mattarella diventa presidente della Repubblica con 679 voti alla prima votazione, raggiungendo la maggioranza qualificata grazie all’appoggio del Partito democratico, di Forza Italia e di Giancarlo Magalli». Man mano che passano le ore, però, l’incubo di una riapparizione di quelli che Bettino Craxi chiamava «una razza di deputati bastardi che affiorano nelle zone paludose del nostro ordinamento parlamentare», sembra (sembra!) sciogliersi nelle manifestazioni di ottimismo, i sorrisi, le pacche sulle spalle, le battute distensive delle diverse anime del Partito democratico e di tutta la costellazione del centrosinistra.
Ignazio La Russa la butta sul ridere: «Ho fatto un tweet: “dal patto del Nazareno siamo passati al patto del menga”». Sottinteso goliardico: intraducibile. Censura. Sfreccia via, ghignando, Maurizio Gasparri. Nella scia di poeti parlamentari come il risorgimentale Giovanni Prati, Gabriele d’Annunzio, Trilussa e Mario Luzi, si è scoperto lui pure una vena artistica e si è messo ad armamentare intorno a rime baciate che libera nell’aere a Un giorno da pecora . Ecco l’ultima: «Tutto è pronto, addobbi e sale / per la sfida Quirinale. / Nazareno, Mattarella, / scegli questo oppure quella. / A dozzin stanno lì fuori / schiere di manovratori / e gli illusi sono tanti / di apparir determinanti. / Poi c’è Sergio Mattarella, / pronto al balzo sulla sella, / ma al momento sono ancor tanti / gli aspiranti e i questuanti».
Al di là della poesiola, il vicepresidente del Senato detta all’Adnkronos parole di fuoco: «Renzi, come in altre occasioni, preferisce l’arroganza. Sarà il difetto che lo porterà nel tempo alla sconfitta». I renziani che leggono il dispaccio ridacchiano: «Nel tempo! Nel tempo!» Per ora, a vedere come i protagonisti di tutte le lancinanti battaglie intestine di questi mesi dentro il Pd su tutte ma proprio tutte le iniziative renziane, gironzolano per il Transatlantico ostentando sorrisi e serenità, pare che la vittoria (fatta la tara alla scaramanzia) l’abbiano davvero già in tasca .
E pare una vittoria di tutti. Gongola Giuseppe Fioroni che tanto invocava sul Colle un inquilino cattolico. Gongola il trentino Lorenzo Dellai, l’ideatore della Margherita, che nel 2001 scatenò la guerra contro «l’amico Sergio» che era stato paracadutato dal partito a farsi eleggere nel collegio sicurissimo sulle montagne dolomitiche: «Non possiamo venire a sapere che uno si candida qui, com’è accaduto, dal Giornale di Sicilia ». Sia chiaro, ammicca oggi, «tra tutti quelli che ci potevano imporre Sergio era il migliore. E dopo aver posto la questione di principio della nostra autonomia non gli facemmo mancare il nostro sostegno». «La raccolta delle firme sì, però», ridacchia Gianclaudio Bressa, «Se non fosse stato per noi che venivano da fuori…». Ma gongola anche lui. Come Stefano Fassina, che pure da mesi è con Renzi ai ferri corti: «Questa volta Matteo ha fatto la mossa giusta. Di unità per tutto il partito». Vuol dire che quando arriverà in aula alla Camera l’Italicum l’opposizione interna sarà un po’ più conciliante e non pretenderà nuove modifiche? «Qualche modifica dovrà essere fatta senz’altro…», ma perché litigare oggi?
Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia, sprizza euforia: tre lustri dopo la botta micidiale del sessantun parlamentari a zero incassata dalla destra trionfante berlusconiana, l’isola che si riconosce nel Pd potrebbe ritrovarsi con due palermitani, Mattarella e Grasso, ai vertici dello Stato: «Per noi, se si passa Sergio, è una svolta storica. Lui lo sa, cos’è la mafia. Non ne ha sentito parlare così, genericamente. Suo fratello Piersanti, assassinato da chi non voleva che la Sicilia cambiasse, è morto tra le sue braccia. E bene ha fatto Renzi a ricordarlo». I siciliani, scommette, «lo voteranno tutti. Tutti. Anche i berlusconiani».
Dall’altra parte, sventagliate di battute invelenite. Ecco Daniela Santanchè, che si dice schifata da quello che bolla come un tradimento degli accordi. L’altra pasionaria berlusconiana, Michaela Biancofiore, si è sfogata dicendo di avere «l’impressione sgradevole» che Renzi abbia «deciso che tutto il resto del mondo non gli serva più» e di aver capito che «gli piace fare il furbetto». Lei rincara: «Sono fiera di appartenere ad un movimento politico di uomini che quando danno una parola la mantengono e rispettano i patti. Provo tristezza per chi sta con i quaquaraqua». Augusto Minzolini ride: «Glielo avevo detto, a Berlusconi, che finiva così. Gli avevo detto di puntare su Prodi, per spaccare la sinistra. Oggi mi ha detto: avevi ragione tu. Tardi…». Maurizio Sacconi spiega che no, non si fa così e che lui e i parlamentari del Nuovo centrodestra resteranno fermi e compatti sul no alla candidatura imposta: «Ormai è chiaro che in prospettiva andiamo verso una specie di cancellierato: il capo dello Stato non può sceglierselo l’aspirante cancelliere».
Maria Elena Boschi è convinta invece che no, non è detto che il terzo giorno il centrodestra resterà arroccato sulle posizioni di oggi: «Tre giorni, in politica, possono essere un’era geologica…». E Buttiglione? Che farà, a prescindere dalle decisioni dei suoi amici di partito, l’ex segretario che vent’anni fa spostò un pezzo del Partito popolare a destra? Un ventennio basta e avanza, per fare pace. Ma certo, allora, lo scontro con Sergio Mattarella, convintissimo che andasse confermata la scelta storica della Dc degasperiana del «partito di centro che guarda a sinistra», fu durissimo. Tanto da spingere Mattarella, generalmente così freddo e razionale da guadagnare il nomignolo «On. Metallo», a lanciarsi in quella che viene ricordata come l’unica battuta della sua vita: «El general golpista Roquito Butilione...» .
Gian Antonio Stella

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4. FABRIZIO RONCONE, CORRIERE DELLA SERA -
«Scherziamo?», si scandalizzano i suoi amici deputati. «Nessuno di noi rivelerebbe una cosa simile, in un momento tanto delicato».
Sono ore complesse, è vero.
Sono ore in cui il riserbo si fa più prezioso.
Ma questo, più che un segreto, sembra essere solo un capriccio del destino.
Sergio Mattarella già abita sul Colle del Quirinale. Nella foresteria che è a disposizione dei giudici della Corte costituzionale. Osservando il palazzo dove andrà a risiedere il nuovo Capo dello Stato, la foresteria è sulla destra. Se davvero l’incarico toccherà a Mattarella, egli non dovrà che attraversare la strada. Meno di cento passi. Poi, lo accoglieranno i corazzieri sull’attenti.
Il suo appartamento è spartano. Pieno di libri e faldoni, e molto caldo: un caldo simile a quello di un centro benessere, poiché Mattarella è assai freddoloso. Ha deciso di trasferirsi lì un anno fa, dopo la scomparsa della moglie Marisa (la coppia, prima, viveva in affitto).
Il candidato di Matteo Renzi alla Presidenza della Repubblica ha trascorso tutto il giorno chiuso nel suo ufficio, lavorando. La sua segretaria storica, la signora Leandra, non risponde al telefono. Lui parla solo con poche fidate persone.
Una di loro, dopo essersi fatta giurare che sarebbe rimasta nell’anonimato, riferisce di aver ricevuto questa risposta: «Io, Presidente? Non ho alcuna ansia. Se mi chiedessero di ricoprire un ruolo così, sarebbe un onore enorme. Tuttavia, ecco: il mio attuale lavoro di giudice mi piace moltissimo».
Parla con voce bassa, la grisaglia grigia d’estate e d’inverno, detesta le interviste e le telecamere, il rumore della politica e le polemiche: è nato a Palermo 73 anni fa — ancora adesso il suo soprannome è «Sergiuzzo» — ha tre figli (Laura, Francesco e Bernardo Giorgio, docente di Diritto amministrativo, responsabile dell’Ufficio legislativo del ministero della Pubblica amministrazione). Suo padre Bernardo fu ministro, deputato e potente democristiano in Sicilia.
Tutte le biografie di Mattarella cominciano descrivendo la figura, a volte discussa, del padre.
Poi vanno a capo.
Nel secondo capoverso, ti dicono che Sergio Mattarella avrebbe voluto fare il professore di Diritto pubblico.
Nel terzo capoverso, subito una data: 6 gennaio del 1980, una domenica, quando la mafia uccide suo fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia, che non voleva piegarsi alle regole di Cosa nostra.
L’agguato, in via Libertà, sotto casa: palermitani fermi sul marciapiede e lui, Sergio, che scende avvertito dal nipote. Il killer è appena fuggito. Sergio apre lo sportello dell’auto e soccorre Piersanti. L’ambulanza non arriva, partono verso l’ospedale a bordo di una volante: i due agenti davanti, dietro Sergio tiene sulle gambe suo fratello; che — dopo poco — gli muore tra le braccia (per tutto il pomeriggio, Sergio continuerà a parlare con investigatori e cronisti indossando il maglione sporco di sangue).
È un uomo mite fino a quasi ad apparire fragile: ma non bisogna farsi imbrogliare dalla timidezza. In Transatlantico, molte voci sicure: «Guardate che quello, dentro, ha il fil di ferro».
Tre anni dopo la morte di Piersanti, viene eletto deputato: Ciriaco De Mita, diventato segretario della Balena Bianca (cit. Gianpaolo Pansa), gli chiede di tornare a Palermo, chirurgo della dicì infetta di Lima e Ciancimino. Sarà lui, Mattarella, a decidere l’identità del nuovo sindaco: Leoluca Orlando.
Fil di ferro.
Ripensate alla sera del 26 luglio 1990.
Quando con un atto che il Cavaliere non ha mai dimenticato, Mattarella si dimette da ministro della Pubblica istruzione dopo che Giulio Andreotti, all’epoca premier, ha posto la fiducia sulla legge Mammì, quella che sancisce, definitivamente, l’esistenza delle tre reti televisive Fininvest (con lui si dimisero Martinazzoli, Fracanzani, Misasi e Mannino).
Un gesto, di solito, avverte che sta per perdere la pazienza: quando si porta le mani agli occhialini e cerca di aggiustarseli sul naso. Ma capita di rado. Tutte le biografie concordano: coltiva le virtù della pacatezza e dell’equilibrio, della prudenza (l’altra sera ha preferito non partecipare alla festa di congedo del suo amico Francesco Maria Greco, il nostro ambasciatore presso la Santa Sede) e del dialogo. È, forse, l’ultimo moroteo.
Certo è uno dei fondatori dell’Ulivo di Romano Prodi e, prima ancora, del Partito popolare. Nel 1993 lega il suo nome alla riforma della legge elettorale in chiave maggioritaria, nota — appunto — con l’appellativo Mattarellum . Con Massimo D’Alema a Palazzo Chigi è vicepresidente del Consiglio e ministro della Difesa. Dal 2011 è giudice costituzionale.
Poi, fuori dalle biografie ufficiali: non sa nuotare, una volta — quand’era direttore del Popolo — accettò di giocare con i suoi redattori a Risiko, è un buon intenditore di calcio e tifa Palermo (con una debolezza, sembra, per l’Inter).

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5. MARZIO BREDA, CORRIERE DELLA SERA -
Quando mette piede nell’aula di Montecitorio Giorgio Napolitano, pallidissimo, si guarda intorno con la curiosità prensile di chi, anziché concentrarsi sulla gente che subito lo circonda, vuole soprattutto annusare l’aria che tira. Ed è un’aria buona, per lui, che è il primo a votare nello scrutinio con cui si apre la sfida per eleggere il dodicesimo capo dello Stato.
Infatti è lunghissimo l’applauso con il quale il Parlamento lo accoglie. Così lungo e intenso da annullare qualche scontato «buuh» e fischio dei grillini. E da non fargli notare, forse, i cartelli che esibiscono lo slogan «non moriremo democristiani» inalberati dalla pattuglia leghista. Gli altri sono tutti in piedi. Compresi i grandi elettori di Forza Italia, che esprimono un omaggio a metà, rinunciando a battere le mani .
Ha un po’ il sapore di un risarcimento, dopo certe amarezze e polemiche degli ultimi tempi, il ritorno di Napolitano alla Camera. Lo circondano con affettuosa premura i parlamentari del Partito democratico. Gli fanno quasi da scorta, sempre affiancati da Mario Monti, mentre in corteo lo accompagnano nel settore loro riservato dell’emiciclo («un posto che conosco bene, ci sono stato seduto per 38 anni», dice). Lo seguono mentre si accomoda nello scranno sotto quello di Anna Finocchiaro e si preoccupano perfino di arginare i troppi peones che vogliono scattare un selfie con lui, senza peraltro essere respinti.
Così è Laura Boldrini a ricordare al microfono che i regolamenti non ammettono foto in aula e a riportare la «festa» a un livello più composto, istituzionale. Saluti e sorrisi sono comunque questione di poco, una decina di minuti. Scatta la «chiama» e Napolitano raggiunge il catafalco dove esprimerà il proprio voto. E, dalla brevità della sua sosta dietro i panneggi di velluto, è impossibile dire se abbia scelto scheda bianca o se abbia invece scritto un nome.
Per chi ha votato, presidente?, gli chiedono i giornalisti. «Sono domande proibite», è la replica. Non ha per caso ricevuto telefonate per convincerla a restare ancora sul Colle?, scherzano. «Nessuna telefonata», sta al gioco lui. «E poi, che dovevano fare? Scassare la Costituzione per farmi tornare?» E della candidatura ufficializzata poche ore fa che cosa pensa?, insistono. «Sono contento in linea di principio per chiunque sia il mio successore...». Insomma, quale opinione ha di Sergio Mattarella? «È una persona di assoluta lealtà, correttezza, coerenza democratica e alta sensibilità costituzionale».
Ecco il punto politico che incuriosiva parecchi, ieri, a Montecitorio. Era Mattarella il candidato in cui l’ex capo dello Stato intimamente confidava come proprio successore? Chi aveva suggerito a Matteo Renzi, se qualche nome aveva davvero suggerito, nelle settimane scorse? Sono interrogativi ai quali non c’è risposta, almeno per il momento. Anche se di sicuro Mattarella è tra coloro che hanno il profilo giusto e un curriculum adeguato per raccogliere l’eredità di un predecessore con un simile peso nella storia repubblicana. Quello che invece è poco probabile abbia consigliato al premier è il ricorso a un metodo tanto spregiudicato e, per alcuni aspetti, rischioso, nel giocare la partita del Quirinale. Ma, si sa, Napolitano ha un forte spirito di realismo e di sicuro ne ha compreso le ragioni di fondo.
Marzio Breda

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6. ALESSANDRO TROCINO, CORRIERE DELLA SERA -
Il voto è segreto, ma fino a un certo punto. Almeno per i due 5 Stelle Barbara Lezzi e Matteo Dell’Osso, che hanno fotografato la scheda con il nome di Imposimato ( foto ), nonostante il divieto dei regolamenti parlamentari. Non è la prima volta che accade. Ma stavolta si va oltre. Manlio Di Stefano fa un video con il suo telefonino, posta e poi rimuove: «Vi porto in cabina a votare con me il presidente che ci avete indicato. Speriamo che la Boldrini non ci cazzi e nessuno ci becchi. Vi metto nel taschino, venite con me». A rimproverarli ci pensa Luigi Di Maio: «Alla capigruppo abbiamo chiesto di togliere la tenda dal catafalco, per evitare che si potessero fotografare i voti. Chi ha fotografato ha sbagliato, e so che ci sono i nostri tra questi». E ancora: «Va bene l’euforia della trasparenza, ma il M5S ha fatto una battaglia proprio perché si evitasse di controllare i voti». Sui social si sprecano commenti e ironie. Ma anche un collega dei 5 Stelle si arrabbia: «Sono dei bimbiminkia, ma come si fa».
Alessandro Trocino

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7. ALESSANDRA LONGO, LA REPUBBLICA -
La seduta è sospesa, dice Laura Boldrini. Sono le sette della sera a Montecitorio. Fumata nera. Ma Sergio Mattarella è già, nella mente dei più, il nuovo presidente. Fumata nera e visi scurissimi nel centrodestra. Altero Matteoli, uomo di lunga navigazione, ammette: «Renzi ci ha fregato». Giornata di transizione, di posizionamento, come pretende la liturgia dell’elezione. Giornata che si trasforma in un primo, caldo omaggio al vecchio presidente. Giorgio Napolitano entra in aula nel primo pomeriggio, il passo incerto, il sorriso sulle labbra. Standing ovation. A sinistra tutti in piedi.
C’è sempre qualcuno che stona anche in occasioni come queste. Partono i «buh», i grillini si accendono, la senatrice Taverna, armata di borsa leopardo, si agita dalla sua postazione. Qualcuno sussurra anche «un vergogna » che il vecchio presidente non sente, frastornato com’è dagli applausi e dalle strette di mano. Senatori, deputati e Grandi Elettori, fanno i turisti. Clic: via con i selfie accanto al vecchio padre della patria. Napolitano si infila nel catafalco-urna e ne esce velocemente, guadagnando l’uscita. Può finalmente parlare in Transatlantico con i cronisti senza il peso del ruolo. Presidente, non ha ricevuto nessuna telefonata questa volta? «Che dovevano fare? Scassare la Costituzione per farmi ritornare?». Presidente, le piace Mattarella? E lui: «Sono contento in linea di principio per chiunque sia il mio successore». Però, poi, qualcosa la dice su quello che sarà con ogni probabilità l’erede: «È una persona di assoluta lealtà, correttezza, coerenza democratica e alta sensibilità costituzionale, garantirà le riforme». Lo ha votato? «Sono domande proibite». Che cattivo umore laggiù, a destra, la sensazione, sempre pessima, tanto più in politica, di non contare niente. Lo schema di gioco l’ha imposto Renzi, l’opposizione interna del Pd ha gradito, il sempre più ammaccato fondatore di Forza Italia ha subìto. Immagini che riassumono il clima. Ecco Antonio Martino, solo, in un angolo dell’emiciclo. Hanno usato il suo nome come candidato di bandiera e poi l’hanno gettato via. L’occhio zooma sulle facce degli altri. Sorridono Rosy Bindi e Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e Anna Finocchiaro, pur quirinabile. Mattarella piace anche a Sel, a Nichi Vendola, a Franco Giordano, già Rifondazione.
Sullo scranno più alto presiedono due donne: Laura Boldrini e la rossa Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato. Al momento dello spoglio, saranno sei signore a passarsi le schede. «Segno tangibile del cambiamento dei tempi», enfatizza Stefano Pedica, Pd. Diciamo pure: immagine a parzialissima compensazione del genere maschile del futuro presidente.
No, non è un’aula turbolenta, non c’è il clima di due anni fa. Oltre alla performance dei grillini (ce n’è uno, non identificato per miopia, che fa il pugno comunista e poi il braccio teso tanto per divertirsi), c’è il blitz dei leghisti. Nei primi tre minuti della seduta spendono la loro unica protesta: un cartello che ripropone la prima pagina del «manifesto» e quel titolo dell’editoriale di Pintor che diceva: «Non moriremo democristiani». Boldrini alza la voce: «Via quei cartelli!». I provocatori obbediscono, finisce lì. Il resto è una lunga, e anche un po’ noiosa, marcia verso la fumata nera. Nessuno sta al suo posto, Scilipoti e Razzi tirano pacche sulle spalle ai colleghi. Calderoli e il senatore a vita Carlo Rubbia votano con la sciarpa al collo. L’avvocato Ghedini, stranamente non impegnato a difendere il suo assistito, guarda le sagome dei catafalchi e il rapido passaggio dei colleghi. Con 538 schede bianche si fa presto, entri ed esci. Qualcuno sta di più al riparo del velluto rosso, per esempio Mara Carfagna e Luca Zaia, il governatore del Veneto. Vai a sapere perché. Civati vota Prodi e lo dice, Cuperlo esce platealmente con la scheda immacolata e la piega in diretta prima di infilarla nell’urna. Il ministro Boschi, in abitino grigio, è circondata dalla dovuta venerazione. Enrico Letta, all’apparenza molto rilassato, chiacchiera lontano dai suoi accoltellatori, voltando loro le spalle. Gasparri, autore di un sonetto per l’elezione presidenziale, si agita parlando con la Gelmini: «Così come l’ha messa il Pd, non si può votare Mattarella». Il problema è come uscire dall’angolo e anche Alfano è messo male. Dorina Bianchi, in golf catarifrangente, sembra l’unica Ncd a mantenere la calma. Mancano all’appello, tra gli altri, Maria Rosaria Rossi (rimasta con il Capo), Tremonti e Formigoni. Ma nessuno se ne accorge.
Il rito dello spoglio delle schede è veloce. I grillini, quasi tutti, votano Imposimato, 538 sono le schede bianche e il resto è una macedonia umorale: 9 voti a Prodi, 5 a Bersani, persino 4 a Scognamiglio, due ad Ezio Greggio, uno ad Arnaldo Forlani e Sabrina Ferilli. Vittorio Feltri, sponsorizzato dalla Meloni, si ferma a 49, Luciana Castellina a 37. 25 voti vanno ad Emma Bonino e sanno di sincero omaggio. Magalli il presentatore festeggia il suo unico voto con i fan di Facebook in piazza del Quirinale. Oggi si ricomincia.

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8. TOMMASO CIRIACO, LA REPUBBLICA -
Attraversa il cortile della foresteria della Consulta poco dopo le dieci. Ad attenderlo c’è un autista. Sergio Mattarella monta su un attimo prima di essere catturato da una telecamera. Da tre anni il giudice costituzionale percorre a piedi i centocinquanta metri che lo separano dalla Consulta e non gli capita spesso di cambiare abitudini. In questa giornata, però, è impossibile non stravolgere il programma. Non c’entrano comprensibili ragioni di sicurezza - almeno non ancora, perché da oggi la protezione sarà rafforzata - piuttosto la volontà di tenere lontani flash e cronisti.
Come un big bang, così la candidatura al Quirinale mette sottosopra la vita di un giudice riservato. «Sono tranquillissimo - assicura a chi lo contatta nelle ore più intense della sua carriera - E ho l’anima in pace perché non ho fatto nulla per arrivare fino a questo punto ». Prima che la danza cominci, prima che Matteo Renzi lo lanci ufficialmente per il Colle, Mattarella è già blindato nel suo rifugio. È dallo studio di giudice costituzionale, a due passi da quello di Giuliano Amato, che l’ex ministro diccì segue il primo scrutinio. Minuto per minuto, voto per voto. Resterà lì, nel cuore della Consulta, fino a tarda sera.
Il pranzo assomiglia a una missione impossibile. Il cellulare non smette di squillare. Centinaia di sms, decine di chiamate. Fra i primi c’è proprio Renzi. Lo squillo politicamente più importante è però quello di Gianni Letta. Arriva da Palazzo Grazioli e permette al candidato di scambiare qualche parola con Silvio Berlusconi. Telefonano Angelino Alfano, Massimo D’Alema, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani e un’affettuosissima Rosy Bindi. Con tutti Mattarella mostra cautela, come sempre. E a tutti affida soprattutto un pensiero: «Se andrà bene, sarà un onore. E il mio impegno sarà massimo».
Se si escludono alcune “trasferte” palermitane, la vita di Mattarella è racchiusa in un fazzoletto di sampietrini e palazzi alle spalle di piazza del Quirinale. Prima di diventare vedovo, a dire il vero, viveva a via della Mercede. Poi ha deciso di affittare quella abitazione («ogni tanto chiacchieravamo delle questioni condominiali, niente di più», raccontano oggi gli inquilini) e di trasferirsi nei locali della foresteria della Consulta. In questi cinquanta metri quadrati il giudice fa ritorno ogni sera, intorno alle 21. Da quando il suo nome è entrato prepotentemente nella lista dei papabili per il Colle, ha scelto un profilo ancora più basso, se possibile. Niente più cena al Santa Cristina, il ristorante che confina con la foresteria. E addio anche al Caffè del Quirinale, dove pranzava con una pizzetta prosciutto e formaggio, occhio di bue o pasticcini, yogurt e Pocket Coffee. Sobriamente.

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9. CARMELO LOPAPA, LA REPUBBLICA -
Forza Italia e Nuovo centrodestra sono due partiti sul punto di esplodere, alla vigilia dell’elezione del nuovo capo dello Stato. In pieno psicodramma: in serata si contano decine di parlamentari pronti a disertare la linea e votare da domani Sergio Mattarella. La gran parte dei fedeli a Fitto, tra i forzisti; almeno una ventina di alfaniani, siciliani e non solo, nella squadra Ncd.
Silvio Berlusconi e Angelino Alfano decidono di rifiutare l’offerta finale di Renzi, la ritengono un «tradimento» del patto del Nazareno, passa il no a Sergio Mattarella. «Ora vogliamo l’azzeramento totale nel partito e nei gruppi, impensabile che dopo un fallimento politico totale, i cultori del Nazareno ora pretendano di travestirsi da oppositori di Renzi», è la nota al curaro dettata da Raffaele Fitto dopo aver riunito il suo drappello di 36. È il giorno in cui “Silvio e Angelino” tornano ad abbracciarsi, a sognare un futuro politico insieme sulla scia dello strappo, ma col passare delle ore non sono più convinti, temono di restare col cerino in mano, si terranno in contatto tutto quest’oggi. Nulla è davvero deciso. In serata i capannelli in Transatlantico dei loro 217 grandi elettori sono altrettanti piccoli vulcani in ebollizione e nessuno dei parlamentari è disposto a scommettere un euro sulla scheda bianca quando si andrà domattina alla quarta e decisiva votazione.
Palazzo Grazioli in prima mattinata è un porto di mare. Gianni Letta e Fedele Confalonieri (c’è anche lui) sembrano aver convinto il padrone di casa sulla necessità di una scelta in linea con le riforme varate e poi «puoi intestarti l’elezione di un moderato, finalmente non più un ex comunista al Colle». Ma sono gli argomenti del presidente Mediaset a risultare più convincenti: «Non possiamo ritrovarci con un premier e un presidente della Repubblica contro». Verdini, il gran tessitore del patto, è lì ma stavolta tace. Poi arrivano alla spicciolata in tanti. Giovanni Toti e Deborah Bergamini, i capigruppo Romani e Brunetta e sono loro a mostrare al capo gli sms dei colleghi parlamentari in rivolta contro l’imposizione di Mattarella. Berlusconi capisce che non può reggere, «così mi salta per aria il partito ». Si fa chiamare Matteo Renzi, gli spiega, è una telefonata dai toni rudi: «Questo è un tradimento, la nostra collaborazione sulle riforme si chiude qui». Quindi, si fa chiamare da Gianni Letta lo stesso Sergio Mattarella. A lui spiega che non c’è alcuna preclusione nei suoi confronti, è solo un problema di metodo. Quel che poi in Transatlantico spiegherà Niccolò Ghedini: «Mattarella è persona pregevole, il problema è Renzi che ce lo ha imposto. Se si fosse seduto con noi dicendo: “Vorremmo lui, facciamolo uscire insieme”, sarebbe stato diverso. Adesso non può esserci alcun ripensamento ». L’ex Cavaliere è furente e tormentato, alle 13 molla tutti, esce da Grazioli e si dilegua per un’ora, «shopping in centro per rilassarmi», fa sapere. Alle 14 vede a tu per tu Alfano, con pochi fidati presenti. Il leader forzista lo sprona: «Renzi ha tradito te e me, se uscirai dal governo, andrà per aria anche la legge elettorale, si torna al voto col proporzionale e noi saremo di nuovo insieme». Semmai dovesse accadere, sembra sia stata la controproposta del ministro dell’Interno, «dovrei essere io e non certo Salvini il candidato premier e leader della coalizione». Poi i due si presentano ai rispettivi gruppi e annunciano la strategia: scheda bianca a oltranza. Ma nel giro di un paio d’ore nell’Ncd scoppia il caos. I governativi, da Giuseppe Castiglione a Luigi Casero, chiedono e ottengono da Alfano una nuova riunione. «Che senso ha non votare un cattolico, moderato, come Mattarella?», lo incalzano loro e tanti altri, preannunciando il voto per il giudice costituzionale. Dalla De Girolamo a Schifani, tanti sono sull’altra linea. Alfano sembra aver fatto la sua scelta: «È un problema di prospettiva politica, Renzi ha fatto la sua scelta. Elegge il presidente con altri e per noi si consuma un passaggio importante per la costruzione di una nuova alleanza. Se avessimo accettato, saremmo diventati un cespuglio del Pd».
Alle 19, stesso caos, al cubo, dentro Forza Italia. Toti è circondato da capannelli di dubbiosi e incerti. Berlusconi è costretto a rientrare a Milano, il Tribunale di Sorveglianza non lo autorizza a restare a Roma. A tarda ora Fitto a cena coi suoi lancia il suo pronostico: «Silvio e Angelino fanno già a gara per chi tornerà per primo su Mattarella».

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10. PAOLO EMILIO RUSSO, LIBERO -
Romano Prodi ha preso nove voti, Pierluigi Bersani cinque, molti meno di Emma Bonino il cui nome è stato scritto ben 25 volte sulle schede. Tutti loro - due ex premier, un ex commissario europeo - hanno fatto brutta figura di fronte ai 120 voti espressi per l’ex magistrato Ferdinando Imposimato e ai 49 presi dal direttore Vittorio Feltri. La prima riunione del Parlamento riunito in seduta comune e “allargata” ai delegati delle Regioni, convocata per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica è andata “in bianco”. Su 975 votanti, infatti, lo spoglio ha restituito ben 538 schede bianche. La maggioranza richiesta per eleggere il successore di Giorgio Napolitano era di 673 preferenze, ma i partiti più grandi (Pd e Fi in testa) hanno scelto la strada più semplice, quella della scheda bianca. Come in ogni votazione per il Colle, la “prima chiama” è servita anche per mandare messaggi trasversali, contarsi, dare dimostrazioni di compattezza ed affidabilità. Come inizio, non è andata un granchè bene: le bianche sono state 123 in meno della somma algebrica di quelle annunciate da Pd (444), Fi (142) e Ncd (75). Chissà chi sono i cinque grandi elettori che hanno votato - in contrasto con quanto chiesto dal premier - per Sergio Mattarella, per esempio o i due che hanno scelto Anna Finocchiaro. Più facile individuare - al Senato, all’interno della minoranza Pd - gli 8 che hanno espresso la loro preferenza per il senatore dem Massimo Caleo. Più compatto il Movimento 5 stelle, che su 123 grandi elettori, restituisce 120 preferenze al candidato di bandiera, Ferdinando Imposimato. Meglio ancora è andata a Sel la cui candidata Luciana Castellina è riuscita ad incassare ben 5 voti in più - probabilmente del Pd - rispetto ai 32 previsti. Sarebbe un consigliere di una municipalità di Napoli in quota Sel anche lo «sconosciuto» Mauro Morelli, che ha collezionato nove voti e ha fatto impazzire il giornalista Enrico Mentana, mentre era collegato in diretta: «Ma chi c... è questo Morelli?». Quest’ultimo nome, però, potrebbe essere anche un segnale lanciato dai campani di Fi. Se Feltri ha racimolato un voto in più di quelli “promessi” da Lega Nord e Fdi, Stefano Rodotà, un tempo candidato dei grillini, si è fermato a 23. Solido il gruppo di Mario Mauro che, per contarsi, ha votato compattamente per il Quirinale l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini. I voti alla Bonino sono targati Psi di Riccardo Nencini, mentre - tutto sommato - la dispersione dei voti finiti in “burla” è stata modesta. Se una preferenza è andata al Conte Mascetti, personaggio di Amici Miei, il comico Ezio Greggio ne ha presi due come l’attrice Sabrina Ferilli, mentre i giornalisti Paolo Mieli, Giuliano Ferrara e Massimo Giletti si sono fermati ad uno, molti meno degli 11 di Claudio Sabelli Fioretti. Dediche calcistiche sono andate a Francesco Totti e Gigi Riva, mentre il vero sconfitto della giornata è Giancarlo Magalli. Il conduttore - che forse si era preso troppo sul serio - ha incassato giusto due voti. Un solo voto ciascuno per Antonio Razzi ed Enrico Letta. Due voti espressi per un giornalista siciliano dimostrano - come sottolinea un esperto di tattiche - che è la Sicilia l’area dalla quale provengono maggiori segnali di “disponibilità”.

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11. FRANCESCA SCHIANCHI, LA STAMPA -
Come ampiamente previsto, a «vincere» il primo scrutinio di ieri è stata la scheda bianca, con tutte le ironie che si sono lette sui social network su chi sia questa signora Bianca Scheda che arriva a 538 preferenze su 975 votanti. Segue Ferdinando Imposimato, il candidato del M5S, e poi il giornalista Vittorio Feltri, sponsorizzato da Lega e Fratelli d’Italia, 49 voti. Da Sel ne arrivano 37 alla giornalista Luciana Castellina, mentre un gruzzolo di schede – 25 - porta il nome della radicale Emma Bonino: i socialisti la votano in «omaggio a una storia che ha reso il Paese più civile e più giusto». 23 voti anche per Stefano Rodotà, riproposto dagli ex grillini di Alternativa libera.
Poi, a parte qualche voto sparso a politici di vari schieramenti (14 ad Albertini, 9 a Prodi, 5 a Bersani, 3 all’ex parlamentare Marianetti e altrettanti ad Antonio Martino, 2 per la Finocchiaro), arriva la solita carrellata di preferenze varie: dalle 11 per Sabelli Fioretti alle 2 per Ezio Greggio alle 2 per Sabrina Ferilli, 3 per il giornalista siciliano Zitelli, 1 per Gigi Riva e 1 per Totti (che però non verrà registrata: il calciatore non ha l’età). Ne racimola 8 il senatore Pd Caleo e 9 un tale Mauro Morelli, talmente sconosciuto da fare inciampare anche Enrico Mentana in una gaffe fuorionda: «Chi c… è?». Forse chi l’ha votato pensava a un consigliere municipale di Napoli. E tra i voti dispersi c’è anche quello per una giovane giornalista: raccontava ieri alla Camera che il fidanzato allergico al matrimonio ha scherzato: «Ti sposo solo se prendi un voto». Un parlamentare del Pd che passava di lì l’ha preso sul serio.

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12. MATTIA FELTRI, LA STAMPA -
Brutta fine per le filosofie sistematiche. Lì, sui divani alla Camera, si ricostruivano gli scacchieri numero per numero, si fornivano quadri psicologici dei protagonisti, si buttava nella mischia l’ultimo soffio della fonte privilegiata, si delineava al dettaglio la teoria A in piena contraddizione con la teoria B, eppure la prima era solida quanto la seconda. E di colpo tutto è stato spazzato via dalla prosaica concretezza bergamasca di Roberto Calderoli, il cui incedere spiccava catarifrangente per il piumino verde padania: «Con Mattarella, Berlusconi l’ha preso come al solito nel...». Al termine di una giornata trascorsa dentro al tempio della dissimulazione lessicale, o forse dell’illusione che limare l’aggettivo sia ancora indispensabile, rimangono in testa due o tre frasi in dolce disarmonia, perfette per restituire il senso delle cose. E non ci resterà male Calderoli se la testa della classifica va a un vecchio socialista ieri di passaggio a Montecitorio, l’ex sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, che la faccenda l’ha spiegata così: «Per entrare nella Terza repubblica i parlamentari della Seconda eleggono uno della Prima».
Il sublime esito della legislatura dell’antipolitica e del premier più giovane di sempre è che a tirare i calci di rigore si sono ritrovati Giuliano Amato, fra i cui molti titoli c’è quello di craxiano, e Sergio Mattarella, lanciato nella Dc da Ciriaco De Mita. Ma non c’era tempo per le quisquilie storiche, tutto il tempo era giustamente impegnato a favorire o contrastare il nuovo che avanza. Dalla tarda mattinata le energie migliori erano state dedicate a immaginare che avrebbe fatto Silvio Berlusconi, se una convergenza su Mattarella da subito, una convergenza alla quarta votazione, un no perenne. Impressioni raccolte alla rinfusa: «No, no e poi no!»; «c’era un’indisponibilità che ora mi pare giù meno indisponibile»; «c’è una riunione in corso, vediamo»; «aspetto ordini, e comunque io con Mattarella andrei benissimo perché siamo cresciuti tutti e due nella sinistra Dc». A parte l’ultima dichiarazione, che appartiene orgogliosamente ad Antonio Razzi, le altre sono tutte anonime per la grande tradizione forzista di non dire nulla contro Berlusconi e, siccome non si sa di che idea era Berlusconi mezzora prima e di che idea sarà mezzora dopo, meglio tacere. O parlare a taccuini chiusi, come si dice. E qui arriva l’ultimo medagliato del turno, il professore Antonio Martino, che doveva essere il candidato di bandiera e invece nulla. Lui ha preso la vicenda come prende un po’ tutte quelle di casa: «Quando depennarono San Gennaro dal calendario, sui muri di Napoli apparve una scritta: San Genna’, futtitenne...».
Nell’incertezza cupa di destra e in quella sollevata di sinistra, che produceva schiere di duchi di Wellington, maestri della lettura strategica, molti avevano deciso di impegnare il pomeriggio in qualcosa di più ludico: arrivavano i voti a Claudio Sabelli Fioretti, a Sabrina Ferilli, a Ezio Greggio, uno pure ad Arnaldo Forlani, e purtroppo l’abilità della presidenza era riuscita a sventare uno scherzo organizzato con Striscia la Notizia, pronta a inserirsi con un suo candidato. Che dire, sono ragazzi, e non li ha sovrastati il vocione del Nobel Carlo Rubbia: «Io, Emma Bonino».

13. ANTONELLO CAPORALE, IL FATTO QUOTIDIANO -
L’andatura fa l’umore. Umberto Bossi procede a zig zag, visibilmente scosso e intorpidito. “Quello lo frega sicuramente”. Quello è Mattarella, il fregato è Berlusconi. Sergio Chiamparino anche è un po’ fregato. Quirinabile sconfitto. Zig zag e testa china. Ritorno in Piemonte previsto per domani sera e addio sogni di gloria.

Rosy Bindi, invece, a testa alta e a passo lento perché tutti notino la novità.

Nichi Vendola, festoso, ha appena detto che Mattarella è la versione uomo della Bindi. Lei: “Molto meglio di me”. Lui: “Renzi ha messo due dita nell’occhio di Berlusconi. Sono contentissimo”.

C’è un cumulo di forzisti in disarmo, corpi adagiati sul divano di destra dell’aula. Ex valchirie berlusconiane segnano la disfatta con movimenti asimmetrici.

Laura Ravetto, ipercinetica: “So tante di quelle cose ma non le dico”. Mara Carfagna è sul grigio esistenziale, lenta a cogliere l’atto doloroso. Annagrazia Calabria piuttosto intontita: “Che?”. Michaela Biancofiore stravolta. Mariastella Gelmini ficcante: “Mancava solo che Renzi facesse un tweet con l’hashtag silviostaisereno”. A un passo Paolo Romani, mani in tasca e sguardo vuoto. Cosa ne sarà di lui senza il Nazareno? I siciliani, oggi molto ispirati, invece si mostrano in gruppo. Rosario Crocetta, in qualità di presidente della Regione, il vincitore territoriale, si dilunga sul bacio come espressione sentimentale della politica in Trinacria . Il suo predecessore, Totò Cuffaro (ora in carcere) era giustamente soprannominato “Vasa vasa”. Lui, noto omosessuale, annuncia che ha cambiato verso rispetto alle tecniche di approccio elettorale: “Non bacio più nessuno. Forse altri colleghi del Palazzo lo fanno e magari di notte e con travestiti”. Arriva Giorgio Napolitano scortato da un commesso. Applauso reverenziale. Ecco i colleghi senatori a vita Carlo Rubbia e Renzo Piano, senza commessi e senza applausi, spaesati. La presidente Laura Boldrini, con quattro commessi: “Andrà bene”. Anche Domenico Scilipoti , ve lo ricordate?, c’è: “Mattarella, perché no?”.

Inizia la chiama. Prima i senatori a vita (secondo applauso a Napolitano), poi il resto. Lettera G. Galan? L’onorevole Giancarlo Galan è agli arresti domiciliari. Pure l’onorevole Francantonio Genovese (siciliano di Messina) poteva essere qui ma purtroppo è tenuto al domicilio coatto.

Giancarlo Magalli seppure lo volesse, non potrebbe entrare. Non è grande elettore. Berlusconi purtroppo anche. Fa strano ma è così.

Emanuele Fiano, renziano saltellante: “Chapeau a Matteo. Anche voi del Fatto dovreste dirlo che è un grande”. Laura Venittelli, pidina molisana: “Non ero molto convinta, poi però...”.

Il Transatlantico è zeppo come il corso cittadino al sabato sera. Strusci e ristrusci, ombrelli, telecamere, soliti conciliaboli. I calabresi, molto uniti, si stringono davanti ai tramezzini. Paolo Bonaiuti, ex portavoce berlusconiano, tiene il conto delle noccioline. Va bene uno spritz? Domani tutto passa. Hanno vinto quelli che stanno al lato sinistro del Transatlantico, hanno perso quelli di destra. Così sembra, e tutto appare chiaro. “Mi appare chiarissimo”, dice Cesare Damiano. Ignazio La Russa fa il presagio intuendo un varco dei possibili voltagabbana: “B. cambia idea spesso. Sabato farà il dietrofront”. Roberto Calderoli: “Il no di Alfano a Mattarella dura tre minuti, massimo cinque. Poi si accoda”. Bruno Vespa sintetizza: “So per certo che Berlusconi aveva detto sì a Renzi su Mattarella. Poi qualcosa è successo”. Forse che Marina, la figliola, gli ha telefonato? “Papà, mai. Lui è il nostro nemico storico!”.

È un giorno importante e anche alcuni reduci si uniscono al branco. Toh, c’è Alfonso Pecoraro Scanio. Era verde una volta. Anche Carlo Vizzini, un mito socialdemocratico, roba del secolo scorso. Siciliano come lui: “Io e Mattarella, quante battaglie”.

I risultati del primo giorno sono per certi versi clamorosi. Magalli, molto gettonato dal web, non figura nemmeno tra gli ultimi posti dei perdenti. Ottimo piazzamento della Prima Repubblica con Arnaldo Forlani, appaiato a Vittorio Feltri. Exploit di un tale che di cognome fa Morelli, poi un filotto di schede bianche. Quindi la gioia di chi sente la vittoria in tasca e le lacrime di chi, come Augusto Minzolini, avverte aria di pietanze lasciate in cucina: “Renzi ci ha fatto sedere a tavola ma poi non ci ha fatto mangiare”.

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14. RENATO PEZZINI, IL MESSAGGERO -
Dopo l’annunciatissima fumata nera della prima votazione la questione che tiene banco nella bolgia di Montecitorio non riguarda le chanches di Sergio Mattarella di salire al Colle, ma la tenuta del Patto del Nazareno: l’accordo fra Renzi e Berlusconi finisce qui? Domanda inevitabile a conclusione di una giornata turbolenta iniziata con l’affondo del premier sul suo candidato, la reazione irata di Berlusconi e dei forzisti, e l’inutile voto serale: molte schede bianche, i 120 voti dei grillini per Imposimato (scelto dal web) e altri nomi di bandiera utili ai partiti minori per contarsi.
Dunque, il Pd ha deciso di forzare la mano alle trattative e puntare deciso su Sergio Mattarella. Era nell’aria da mercoledì. La conferma ufficiale arriva prima dell’ora di pranzo in un centro congressi dalle parti di via Margutta dove Renzi ha convocato i suoi grandi elettori: «Punteremo su Sergio Mattarella. Lo voteremo alla quarta, alla quinta, e pure alla sesta votazione se sarà necessario». L’assemblea dà il suo consenso, senza eccezioni: i renziani perché convinti che l’operazione possa diventare un grande successo del premier, la minoranza perché vede indebolirsi l’asse fra Matteo e il Cavaliere.
NESSUN’ALTERNATIVA

Però attenzione: «Se falliamo con Sergio, non ci sarà un altro candidato del Pd». Messaggio chiaro: nessuno si azzardi a organizzare giochini e intemerate, i franchi tiratori stiano alla larga. Il ricordo della debacle del 2013 sul nome di Prodi è ancora una ferita che fa male: «Il momento è storico, non possiamo sbagliare. Non sarebbe soltanto un normale insuccesso parlamentare». Anche questa volta l’assemblea applaude unanime, e c’è chi fa gli scongiuri. Anche due anni fa era accaduto lo stesso.
Comunque, i democrat ci credono. Ed escono sorridenti incamminandosi verso Montecitorio con l’ilarità di una scolaresca in gita. Renziani a braccetto con bersaniani, Fassina che per una volta dimentica la sua solita aria torva, Cuperlo che si prodiga in elogi al premier: «Ha scelto di privilegiare l’unità del partito». Bersani pare addirittura gongolante: «Ce la faremo». E perfino Rosy Bindi è tentata dal dare una carezza a Matteo, ma si ferma un attimo prima: «E’ stato bravo? Beh, diciamo che siamo stati bravi tutti».
Atmosfera completamente diversa dalle parti di Palazzo Grazioli dove Berlusconi è in riunione permanente con i suoi. In Forza Italia c’è chi parla di tradimento. Il Cavaliere è frastornato: «Vado a farmi una passeggiata, devo pensare». Sorridono, amaramente, solo i forzisti che l’avevano messo in guardia sui rischi del Patto del Nazareno.
L’ORA SOLENNE

Intanto però è arrivata l’ora solenne. Alle 15 i campanelli di Montecitorio chiamano i grandi elettori in aula per la votazione, e poco importa che sia destinata a un nulla di fatto. In aula sembra un po’ una festa. Tra grandi elettori che fanno capannello per farsi i selfie accanto a qualche vip (Napolitano va per la maggiore) e i cartelli di protesta dei leghisti (in verità, la prima pagina del Manifesto che titola ”Non moriremo democristiani”). I primi a votare sono i senatori a vita. Napolitano attraversa il Transatlantico fra due ali di folla e dispensa encomi a quello che sembra il suo successore designato: «Mattarella è una persona di assoluta lealtà, correttezza e coerenza democratica». Appena l’ex presidente se ne va, i conciliaboli tornano a interrogarsi sulla domanda del momento: che farà Forza Italia?
Di berluscones in giro non se ne vedono. Il Cavaliere dopo un incontro con Alfano lontano da occhi indiscreti ha convocato i suoi grandi elettori ai piani alti di Montecitorio. E malgrado i suoi personali tentennamenti, dà retta a chi suggerisce di fare la voce grossa: «Il Patto del Nazareno è stato rotto, voteremo scheda bianca anche dopo la terza votazione». Pure gli alfaniani si sono riuniti e decidono di non piegarsi al premier: «Però l’alleanza di governo non è in discussione».
TRAPPOLE
Quella di Forza Italia e dell’Ndc più che una strategia è una speranza: che, cioé, nel Pd venga a galla un numero sufficiente di franchi tiratori capace di impedire alla quarta votazione l’elezione di Mattarella: «In quel caso i giochi si riaprono, e Renzi sarebbe fregato». Ipotesi davanti alla quale, ovviamente, quelli del Pd fanno spallucce. Tutti escludono trappoloni, da Chiamparino a Cuperlo a Pippo Civati: «Non è interesse di nessuno fare tranelli. Io alla quarta voterò Mattarella. Anche se mi sembra eccessivo dire che così muore il patto del Nazareno. Diverso sarebbe stato se il candidato fosse stato Prodi».
Intanto è scesa la sera, e Laura Boldrini inizia lo scrutinio e legge le schede. Fra i primi voti c’è ne uno per Arnaldo Forlani, ed è un nome che rievoca l’era cupe delle intemerate. Quattordici schede sono per Gabriele Albertini. Nove per un certo Mauro Morelli (inconsapevole consigliere comunale di Sel a Napoli, si scoprirà poi): una vecchia tattica dei gruppi minori per contarsi e dimostrare che ci sono, in caso di trattative future.
Renato Pezzini

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15. CARLO BERTINI, LA STAMPA -
La scommessa è forte: i numeri per eleggere Sergio Mattarella alla quarta votazione ci sono ma la misura per superare la fatidica soglia di 505 voti è stretta, una ventina di sì in più al netto della quota «fisiologica» di franchi tiratori messa in conto. Nella war room del premier si fanno i conti, l’adrenalina per una mossa politica fin qui vincente è palpabile, c’è chi è convinto del soccorso azzurro sottobanco di una ventina di dissidenti, ma c’è chi si preoccupa più di altri.
Si gioca sul filo di un’operazione che ricalca «il Napolitano uno», spiega Renzi, quell’elezione del 2006 in cui il capo dello Stato fu eletto senza Forza Italia. Il premier, pur disposto a tendere una mano, non confida troppo in una retromarcia di Berlusconi: non dispera di tener in piedi il patto del Nazareno ma si interroga su quale sia piuttosto il vero disegno di Angelino Alfano.
Minacce e blandizie
Con Berlusconi ogni strada viene battuta, il primo segnale minaccioso assai è compiuto alle sette del mattino, quando Raffaele Cantone, il magistrato anti-corruzione varca la soglia di Palazzo Chigi e quell’incontro con il premier viene fatto filtrare sapientemente alle agenzie. Il segnale è che se non passerà Mattarella, sarà quello e non altro il punto di arrivo. «Non c’è Casini che tenga, se lo tolgano dalla testa». Gli ambasciatori fanno di tutto, ad un certo punto sembra che l’ex Cavaliere possa ammorbidirsi, ma i segnali che arrivano da Letta e Verdini non sono positivi. Anche l’incontro a tu per tu tra Renzi e Berlusconi che tutti si attendono e che addirittura potrebbe sbloccare un voto al primo colpo come fu con Cossiga o Ciampi non si tiene. Insomma vicolo cieco che magari si riaprirà con un segnale, qualcuno ipotizza un appello pubblico da parte di Renzi. «Ci sono le condizioni perché Berlusconi possa rientrare e certo si può tendergli una mano», dice uno dei tre del cerchio stretto, il fiorentino Francesco Bonifazi.
Il sospetto su Angelino
Ma quel che colpisce è che i più duri siano gli alfaniani, come se Angelino volesse intestarsi la leadership di un muro contro muro dagli esiti poco prevedibili pure sugli equilibri di governo. In serata chi vive gomito a gomito con Renzi a Palazzo Chigi scuote il capo. «No, Berlusconi non ci ripensa e i numeri sono scarsini, speriamo bene. Patto del Nazareno infranto? Vediamo, certo da lunedì se tutto va bene ci sarà un altro presidente, si apre un’altra fase». E se va male con Mattarella, dopo la sesta o settima votazione si passerà ad un altro schema, che comprende appunto nomi come Grasso o Cantone, ma non altri. Ma l’interrogativo che dalla mattina non trova risposta nelle menti di tutto lo stato maggiore è quale sia il rendiconto politico di Alfano. «Perché ha riunito Berlusconi e tutto lo stato maggiore di Forza Italia? Come se si stesse intestando lui il fronte anti-Mattarella. A che scopo?», si chiedono a Palazzo Chigi.
Come blindare il Pd
Renzi ha già il quadro chiaro quando arriva dunque al centro congressi dietro via Margutta all’ora di pranzo determinato a giocarsi la partita a modo suo. Sa che sulla carta i numeri sono così delineati: 445 voti del Pd, 34 di sel, 32 di Scelta Civica, 13 di centristi, 32 delle autonomie e 15 di Gal, più una decina di ex grillini, in totale 581 voti. Tenendo conto del 10 per cento fisiologico di franchi tiratori si arriverebbe a 520, solo 15 in più del necessario. Ha già parlato con tutti, da Vendola ai capi-corrente del suo partito, che deve a tutti i costi blindare. E compie quello che a detta dei suoi detrattori «è un capolavoro di bravura», un discorso che mette a tacere le speranze di chi poteva illudersi di sostenere la corsa di altri cavalli e che racconta al meglio i contorni politici di questa candidatura. L’obiettivo di tenere unito il Pd, placare le ansie di chi temeva un Presidente troppo filo renziano, è raggiunto con «una candidatura autorevole di un uomo con la schiena dritta, capace di dire dei no anche a quelli che lo hanno indicato. Un arbitro e non un giocatore», così la presenta Renzi ai grandi elettori: che si spellano le mani con maggior o minor enfasi al sentir pronunciare quel nome. Bersani annuisce convinto di aver sponsorizzato «un fior di galantuomo che si dimostrerà autonomo».
Lacrime di gioia degli ex Dc
L’avvertimento che può aprirsi il baratro delle urne suona chiaro quando dice «se falliamo non sarà una normale sconfitta parlamentare, quindi niente giochini». Sfotte gli ex Dc « Mattarella è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dimettersi», che gongolano e si commuovono: la Bindi non trattiene le lacrime quando Renzi ricorda, insieme al profilo che «Sergio è un uomo che ha vissuto anche con dolore personale la stagione delle stragi di mafia. Un uomo della legalità, della battaglia contro le mafie e della politica con la P maiuscola». Quando termina va a complimentarsi e lui le dice «stai tranquilla non dobbiamo votare insieme neanche stavolta perché tanto io non voto».

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16. UGO MAGRI, LA STAMPA -
Il Patto del Nazareno non esiste più, parola di Berlusconi davanti a un centinaio di suoi parlamentari. Dopo quanto è successo ieri, l’ex Cavaliere considera Renzi inaffidabile e la Santanché (in sintonia col capo) definisce addirittura il premier un «quaquaraquà». Berlusconi è infuriato perché privatamente sostiene che l’altro gli aveva dato precisi affidamenti su Amato. In cambio del via libera sulla legge elettorale, Matteo avrebbe sostenuto al Colle il «Dottor Sottile»: circostanza assolutamente non verificabile, in quanto sarebbe avvenuta a quattr’occhi tra i due. È sicuro viceversa che Renzi ha puntato tutte le carte su Mattarella. Nella logica berlusconiana, un voltafaccia. Un tradimento tale da esigere qualche forma di reazione. Di qui il no al giudice costituzionale che l’ex Cavaliere, prudente, ha tentato di stemperare telefonando personalmente a Mattarella, spiegandogli che non ce l’ha affatto con lui e anzi la scheda bianca di Forza Italia sarà un atto di riguardo, però non può lasciar passare il «metodo Renzi»...
Sbandamento
C’è stato addirittura un attimo, ieri mattina, in cui Berlusconi ha soppesato la possibilità di sostenere Mattarella comunque. Ancora verso mezzogiorno l’uomo si interrogava dubbioso sul da farsi perché si rende conto che il grande sconfitto è lui, e rompere con Renzi (sul quale aveva ostinatamente puntato) somiglia a un grande fiasco politico. Falso che la figlia Marina abbia spezzato una lancia per il premier, semmai è vero il contrario. Idem per quanto riguarda Gianni Letta e l’avvocato Ghedini. Perfino Verdini, considerato l’uomo degli intrighi fiorentini, il trait-d’union con Palazzo Chigi, stavolta ha alzato bandiera bianca: «Io mi ritiro da questa partita», ha detto a Berlusconi, «prendo atto della sconfitta, quindi presidente la scelta su Mattarella è solo la tua. Per me non lo si può votare...». Agli amici Denis è parso quasi sollevato da un peso.
Riforme a rischio?
Forza Italia, da Berlusconi in giù, minaccia rappresaglie. «Vedrete che ci saranno sorprese», ha promesso ammiccante il Cav ai suoi, «né l’Italicum né la nuova Costituzione vedranno mai la luce». Tesi ardita, in quanto Renzi ha fatto bene i suoi conti, i numeri per andare avanti ugualmente ci sono pure senza il centrodestra. Più fondato quanto sostiene Brunetta, cioè che il premier al Senato «non avrà i voti per governare» visto che la maggioranza è tale per un soffio. Ieri Berlusconi ha tentato subito la spallata, facendo balenare ad Alfano (incontrato all’ora di pranzo) la leadership futura del centrodestra se in cambio farà cadere il governo. Ha avuto il torto di farne un cenno all’assemblea dei grandi elettori, che è come dirlo in piazza; cosicché Alfano s’è precipitato a smentire perché al governo Ncd ci sta benone. D’altra parte Silvio, come direbbero a Roma, non sa tenersi un cecio in bocca. Nei giorni scorsi era stato contattato riservatamente da D’Alema per far fronte comune pro Amato. E indovina chi ha spiattellato la trama a Renzi? Berlusconi medesimo. Così il premier ne ha subito profittato per correre ai ripari...
I dissidenti
Secondo certe voci, il capo dei dissidenti berlusconiani potrebbe ordinare alla truppa (36 grandi elettori) di sostenere in segreto Mattarella, pur di fare danno al Cavaliere e incolparlo del disastro politico. Voci dalla Puglia fanno sospettare che sotto sotto qualcosa ci sia. E Minzolini, dissidente che a Silvio vuole bene, avverte: «Se facessimo una cosa del genere perderemmo la nostra credibilità». Fitto nega tradimenti nell’urna, «al momento intendiamo votare contro Mattarella». Ma esige «un azzeramento totale nel partito e nei gruppi parlamentari, responsabili di questo fallimento politico».

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17. AMEDEO LA MATTINA, LA STAMPA -
Alfano e Ncd voteranno scheda bianca: non ci saranno retromarce nonostante le fortissime pressioni di Renzi a votare Mattarella, sganciandosi da Berlusconi. Il ministro dell’Interno e i grandi elettori di Area popolare intendono mantenere il patto con Berlusconi sull’atteggiamento da tenere. Il patto tiene ed è stato confermato in un incontro al Viminale tra la delegazione di Fi guidata da Berlusconi e quella di Ncd. Rimane anche la prospettiva di rimettere insieme il centrodestra in vista delle Regionali di primavera e delle Politiche, quando saranno. Ma il governo non si tocca.
Suggerimenti avvelenati
Ncd si è diviso su cosa fare alla quarta votazione, quella decisiva per eleggere Mattarella. Vecchi Dc come Giovanardi vogliono votare Mattarella. C’è chi invece, tra i grandi elettori Ncd, vorrebbe rompere il patto di governo. Ipotesi totalmente scartata dai tre ministri Alfano, Lupi e Lorenzin, come sembra abbia suggerito loro anche Berlusconi. Un suggerimento avvelenato con la promessa che sarà Alfano il candidato premier. Alla promessa Alfano non crede (almeno così dice chi ci ha parlato) e non è per questa mela avvelenata che Alfano e tutta l’Area popolare hanno deciso di votare scheda bianca. È il tradimento renziano che lo ha ferito. Così sarà la prima volta che un ministro dell’Interno e altri ministri non votano il nuovo capo dello Stato.
«Ognuno con i patti suoi»
Non ci saranno conseguenze sul governo. «Ognuno si faccia i patti suoi», dice Alfano, perché non c’è un governo schierato su un candidato al Colle. Noi, ha aggiunto Alfano a chi gli chiedeva spiegazioni della «fregatura» presa da Renzi, siamo grandi elettori, non abbiamo un problema personale con Mattarella («tanto meno lo potrò avere io come ministro dell’Interno»): «Mattarella, persona degnissima, una volta eletto, sarà il nostro presidente».
Tre maggioranze
Per Alfano è chiaro che da oggi ci sono tre maggioranze: quella di governo, quella per le riforme e la terza per il Quirinale. Queste tre maggioranze, secondo il ministro, potrebbero comportare dei problemi sulle riforme. E sul governo? «No. Se invece Renzi, dopo aver fatto una scelta unilaterale, traesse la conseguenza di una crisi di governo, se ne assumerebbe la responsabilità», spiega Cicchitto. E aggiunge: «Sul Quirinale non c’è mai stata nella storia repubblicana disciplina di governo. Si sono sempre fatte maggioranze che prescindono dalla maggioranza di governo».
Insomma Berlusconi ha titolo a parlare del patto del Nazareno, ma non del patto di governo. Rimane il fatto che Alfano sta però subendo un fortissimo pressing dagli uomini di Renzi che gli chiedono di votare Mattarella. Allo stesso tempo, dicono in Ncd, Renzi chiede a Berlusconi di mollare Alfano e votare Mattarella. L’unica cosa che Alfano non farà è disertare il voto.

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18. FRANCESCO BEI, LA REPUBBLICA -
Stavolta nessun incontro. Per sancire lo strappo basta una telefonata. A mezzogiorno Renzi consulta Berlusconi per l’ultima volta. Il leader di Forza Italia parte in quarta chiedendo al premier di fare marcia indietro. «Vi abbiamo concesso il ballottaggio sulla legge elettorale e anche il premio di lista. Ora ci aspettiamo un uguale ascolto da parte vostra sul Quirinale». Ma per Renzi il piano del Nazareno, quello delle riforme, deve restare separato dal Colle.
Inoltre, ricorda Renzi, «nella legge elettorale ci sono cose che piacciono anche a voi: proprio il premio di maggioranza alla lista sei stato tu il primo a suggerirlo. Tutta la filosofia dell’Italicum è in linea con quello che hai sempre detto». Berlusconi, da buon venditore, cambia argomento e riattacca sul Quirinale: «Ci avevi promesso Amato e non hai rispettato il patto». «Non è vero — replica il segretario Pd — tu pensavi di impormi il vostro candidato, ma io non ti ho mai promesso niente ».
Il colloquio, riferiscono i presenti, si fa sempre più teso. I toni si accendono. È Berlusconi, amareggiato per essere finito con le spalle al muro, ad alzare il tiro. «Se voi andate avanti su Mattarella, per quanto mi riguarda tutti gli accordi sono definitivamente messi in discussione». È la minaccia più grave, quella di far saltare il patto del Nazareno e sfilarsi dal sostegno alla riforma elettorale e quella costituzionale. Sulla carta la maggioranza ci sarebbe ancora, ma il segretario sarebbe esposto a qualsiasi ricatto della minoranza interna al Pd. È un’arma finale e Renzi risponde rilanciando a modo suo. Con una minaccia altrettanto forte: «Va bene, fai pure. Per me non è un problema, io vado avanti anche senza di te». Che sia un bluff, uno sfogo o una mossa calcolata, di certo sortisce qualche effetto. Perché l’ex Cavaliere torna alla fine colomba e si lascia uno spiraglio d’uscita: «Non c’è bisogno di rompere, aspetta. rivediamoci appena torno a Roma la prossima settimana. Noi voteremo bianca anche al quarto scrutinio». Un segnale, quello della scheda bianca su Mattarella, che serve a lanciare un ponte verso l’altra sponda. Senza contare che offre (a differenza dell’uscita dall’aula) la possibilità di far giungere sottobanco alcuni voti forzisti al nuovo presidente se dovessero eventualmente mancare. Che il clima possa cambiare lo fa capire anche Matteo Orfini. A sera, in Transatlantico, confida infatti che il Pd «chiederà al centrodestra un supplemento di riflessione » su Mattarella. Francesco Bonifazi, renziano di ferro e tesorie- re Pd, conferma: «Possiamo tendere loro una mano per farli rientrare con dignità».
Alla fine di una giornata in cui il Pd sembra finalmente pacificato, è quasi di tempo di bilanci. Anche se, a palazzo Chigi, Renzi si mantiene prudente. Forse per scaramanzia, pur dichiarandosi «ottimista», con i suoi ammette che «l’elezione non è ancora in cassaforte». Certo, il Pd stavolta sembra «serio e convinto», ma che qualcuno ne approfitti per consumare le proprie vendette lo dà per scontato: «I franchi tiratori ci saranno, ma in una quota fisiologica. Non più di 40-45 e, anche senza Ncd, dovremo stare sui 530-550 voti al quarto scrutinio». Grazie forse a qualche apporto grillino e dall’Ncd. Per Renzi resterebbe un obiettivo ragguardevole quello di aver «dimezzato i franchi tiratori del 2013».
Qualcosa, sotto la superficie piatta dell’unanimità, per la verità già emerge. Tra i bersaniani si raccolgono sospetti contro i turchi che «non voteranno Mattarella perché speravano in Amato ». I turchi replicano che saranno semmai i seguaci di Bersani a smarcarsi da Mattarella «perché scontenti rispetto alla decisione del loro stesso leader di non aver fatto a Renzi il nome della Finocchiaro ». Insomma, Renzi per primo sa bene che il fuoco cova ancora sotto la cenere. Anche per questo ci tiene a far circolare un monito preciso. «Dio non voglia, se non passasse Mattarella sarebbe un bruttissimo segnale per il governo...e anche per la legislatura ». Anche per questo ieri mattina ha voluto incontrare il magistrato anticorruzione Raffaele Cantone, per far capire a tutti che un Presidente della Repubblica sarebbe comunque eletto. Magari con i voti dei cinque stelle. Ma a quel punto senza garanzie per nessuno. Un pratico Davide Zoggia, bersaniano di ferro, ieri alla buvette spiegava ad alcuni giovani deputati un dato di fatto elementare: «Mattarella non scioglie le Camere, Cantone sì. Regolatevi».
Resta il problema del rapporto nel governo con Angelino Alfano. Il leader Ncd ha iniziato a piantare un seme dentro Forza Italia in vista delle prossime elezioni, in mancanza di qualsiasi segnale di apertura da Renzi. Ma il premier, con i suoi, ribalta il ragionamento: «Possiamo anche ragionare insieme sulla prospettiva politica da qui al 20018, ma che senso ha rompere sul presidente della Repubblica? Alfano mi ha fatto due nomi, era un prendere o lasciare, non potevamo accettare ». Convinto che «Angelino » si chiami fuori «in un passaggio storico» e solo per «mettersi in scia di Berlusconi», Renzi pone un’altra domanda: «Non voteranno Mattarella per un fatto di principio. Bene. Ma se Mattarella non passa, Angelino che fa?».