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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

SE LA NEOLINGUA 2.0 PIACE ANCHE ALLA CRUSCA

Ciaoooo. Come stai? Qui alla grande!!!! Grz. Sto prendendo il 3no xké vado a casa. Finalmente riposo...... Qual è il film che hai visto? PIACIUTOOOO???? Se lo sapevo, venivo. Cmq non c’è niente che ho bisogno. Metterò apposto il garage. Ho appena taggato un selfie belloso (e se la grafica di questa pagina lo permettesse, a questo punto ci sarebbero tre o quattro “faccine” che sorridono).
Non prendeteci per pazzi. Quanto abbiamo scritto è una “summa” dell’italiano che compare sui social network. Chiamiamolo pure “neo lingua”. Oppure “volgare 2.0”, dove “volgare” rimanda a quell’impronta popolare cara a san Francesco d’Assisi o Dante, tanto per citare due nomi. O ancora “nuovo italiano digitale”. Qualcuno arriccerà il naso leggendo frasi così strampalate. E forse potrebbe avere anche ragione. Ma linguisti e studiosi di semiotica rassicurano: Facebook, Twitter e WhatsApp non stanno minando le fondamenta del nostro idioma nazionale. Può essere che l’italiano online non piaccia e sembri sgraziato. Però non è poi da matita rossa continua. «Parlare di allarme per la lingua significa guardare il fenomeno solo in superficie, limitandosi a constatare gli elementi che contrastano con i manuali di grammatica », sostiene Valeria Della Valle, docente di linguistica all’Università La Sapienza di Roma e autrice di numerosi libri divulgativi sull’italiano. «La scrittura sulle reti sociali – aggiunge Ruggero Eugeni, docente di semiotica dei media all’Università Cattolica di Milano – è percepita come regolarizzata e specifica. Sarebbe un abbaglio ridurla unicamente a una simulazione del parlato». Persino l’Accademia della Crusca non boccia chi si cimenta con l’italiano post moderno e globalizzato. «Gode di buona salute una lingua che è in grado di adattarsi ai nuovi strumenti della comunicazione », spiega Vera Gheno, ricercatrice dell’Università di Firenze e del prestigioso istituto “per la salvaguardia della lingua italiana” di cui gestisce il canale Twitter.
Questione chiusa, quindi. Non proprio. «Il registro linguistico usato sui social network – prosegue Gheno – non può essere l’unico con cui comunichiamo.
Scrivere un curriculum di lavoro o affrontare una prova all’università come se fossimo dentro Facebook è indice che qualcosa non va.
Altrettanto preoccupante è nascondere la propria ignoranza ripetendo il ri- tornello: “Tanto siamo sui social”». C’è anche altro. «Le conversazioni online – sottolinea Eugeni – rischiano di farci perdere la complessità della scrittura, ossia la capacità di stilare un testo imbastendone il progetto». E Della Valle chiarisce: «La colpa non è del mezzo che di fatto è specchio di un disagio linguistico diffuso. Tuttavia non va dimenticato il portato positivo che le reti sociali stanno generando. Un numero sempre più elevato di persone che magari, dopo la scuola dell’obbligo, vergavano soltanto la lista della spesa o inserivano gli indirizzi nella rubrica telefonica torna a scrivere. Grazie ai nuovi media siamo di fronte a una riappropriazione della scrittura». Va bene che la tastiera attrae. Ma può essere accettato un italiano improvvisato e fuori delle regole? «In parte sì – prosegue la docente della Sapienza –. Gli errori possono essere dovuti alla velocità che è una delle caratteristiche della lingua sul web, insieme con la brevità ». Ci sono storture che possono passare. «Il colloquiale a me mi piace – dice la ricercatrice della Crusca – è tollerabile sui social network. Valutiamolo alla stregua di un vezzo comunicativo, giustificato dal mezzo». Un altro esempio. «Immaginiamo di dialogare fra amici su WhatsApp. Scrivo: “Stasera andrò alla festa”. E l’altro ribatte: Se lo sapevo, venivo. La sua risposta non è corretta dal punto di vista sintattico. Però sarebbe singolare vedersi rispondere: Se lo avessi saputo, sarei venuto. Si peccherebbe di precisione in un contesto informale. Pertanto può essere ammesso l’uso dell’imperfetto al posto del congiuntivo e del condizionale».
Un’indulgenza a maglie larghe?
«Alla Crusca non siamo eccessivamente normativi – sorride Gheno –. Pensiamo a egli che spesso viene sostituito da lui in funzione di soggetto. Ci può stare. Oppure osserviamo il fenomeno del che polivalente. Capita di leggere non c’è niente che ho bisogno invece di non c’è niente di cui ho bisogno. Autorizziamolo in Rete». Sul web dilagano le maiuscole e le vocali finali ripetute. «È una delle peculiarità di questa neo lingua che con tali stratagemmi tenta di riprodurre il parlato ad alta voce – afferma Eugeni –. Altro tratto da segnalare è l’impiego della punteggiatura. Abbondano i punti esclamativi o interrogativi che sono inseriti più volte consecutivamente. L’intento è esprimere un’emozione». Non solo. «Vanno per la maggiore i puntini di sospensione – nota Della Valle –. Le grammatiche dicono che devono essere tre. Sui social si arriva anche a dieci. Alla base c’è l’idea di trasmettere l’enfasi orale. Questa spontaneità linguistica non va censurata a priori, ma non può valere sempre». E le abbreviazioni davvero molto diffuse? «Servono a ridurre i tempi di scrittura e non c’è nulla di male in sé», dichiara Gheno. Così trenodiventa 3no e perché si trasforma in xké. «L’uso delle sigle è antichissimo – ricorda Della Valle –. Se a Roma guardo la facciata del Pantheon, trovo abbreviazioni tutt’altro che facilmente comprensibili. I romani le usavano per ragioni simili a noi: risparmiare tempo e spazio. Sono convinta che, se un ragazzo digita cmq, non disimparerà a scrivere comunque».
Eppure c’è chi ha definito il popolo dei social la “generazione venti parole” per il vocabolario ridotto all’osso nei post o nei messaggini. «Non siamo a questi livelli», replica la ricercatrice della Crusca. «Però – spiega Della Valle – occorre mettere al bando la prassi di limitarsi a ripetere ovunque le stesse formule lessicali. Ormai tutto è alla grande, tormentone di cui è opportuno liberarsi». Il docente della Cattolica osserva l’altra metà del web-vocabolario. «In Rete vengono costruite anche nuove parole, come belloso nato dalla fusione di bellissimo e favoloso». E Gheno aggiunge: «Le reti sociali telematiche stanno cambiando persino il significato di alcuni vocaboli. È il caso di profilo che finora rimandava unicamente a una biografia o ai contorni di un oggetto e oggi indica anche l’account su un social». A proposito, le bacheche in Rete traboccano di inglese, seppur parlino italiano. «L’inglese è la lingua franca di Internet e non dobbiamo lasciarci intimorire dagli anglicismi – dice la ricercatrice di Firenze –. Certo, alcuni sono necessari come tag che, ad esempio, abbiamo italianizzato col verbo taggare. Altri possono essere sostituti: postare può essere rimpiazzato da pubblicare o selfie da autoscatto».
In mezzo a questa sorta di italiano fai-da-te un’indagine del sito skuola.net rivela che quasi due terzi dei ragazzi non tollerano l’uso scorretto della lingua nei post e bacchettano chi sbaglia. «Di sicuro – fa sapere la collaboratrice della Crusca – ci sono errori non ammissibili: qual’è con l’apostrofo oppure mettere apposto invece del corretto mettere a posto». Ma alla fine Della Valle ammette: «Ogni volta che propongo una prova in facoltà, dico agli studenti: guai a scrivere x al posto di per. Non possiamo avvalerci della lingua dei social anche quando si svolge un compito o si invia una lettera al Papa».