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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

ROMA Resta sempre una coltre di mistero che non si riesce a dissolvere, e nasconde l’indicibile. Perché la soluzione dei sequestri di persona passa inevitabilmente per sottoboschi e segreti, che si paghino soldi ai rapitori o prezzi di altro tipo

ROMA Resta sempre una coltre di mistero che non si riesce a dissolvere, e nasconde l’indicibile. Perché la soluzione dei sequestri di persona passa inevitabilmente per sottoboschi e segreti, che si paghino soldi ai rapitori o prezzi di altro tipo. La verità non viene quasi mai a galla, e quando ne emerge qualche brandello non svela granché, dal momento che ogni trattativa porta con sé «patti col diavolo» e contraddizioni; costringendo i rappresentanti delle istituzioni — lo Stato — a dire pubblicamente una cosa e farne un’altra di nascosto. Da negare sempre. È successo tante volte in Italia, nei rapimenti a scopo di estorsione ma anche a sfondo politico. Fenomeni diversi giacché è diverso l’intento degli autori: nel primo caso sono malviventi che vogliono solo i soldi; nel secondo terroristi pretendono altre contropartite, e il denaro può diventare una via d’uscita laterale per limitare i danni. E ancor più succede nei sequestri all’estero, dove il crimine si mescola a questioni sovranazionali, gli interessi in gioco aumentano e si sovrappongono fra loro. Ma la regola resta sempre quella: nascondere ciò che si fa. E in caso venga alla luce, negare. In Italia, per un lungo periodo, i sequestri di persona sono stati definiti una «industria»: 480 ostaggi tra il 1975 e il 1983, in soli otto anni due terzi del bilancio del quasi trentennio 1969-1997 (672 in tutto). Un «fatturato» da centinaia di miliardi di lire sborsati in riscatti. L’anno record fu il 1977, con 75 sequestri. Dalla metà degli anni Ottanta l’affare divenne sempre meno redditizio e quindi meno frequente, fin quasi a scomparire (ma con casi divenuti famosi: da Cesare Casella, segretato fra il 1988 e il ‘90, al bambino Farouk Kassam, 7 anni, prigioniero 6 mesi nel ‘92, all’imprenditore Soffiantini, sequestrato nel ‘97). Fenomeno pressoché estinto anche per via della normativa che vieta di pagare i banditi e obbliga al blocco dei beni del rapito, dei familiari e — a discrezione del magistrato — dei suoi amici. La legge fu introdotta nel 1991, ma già dal 1976 il pubblico ministero Pomarici ordinò il primo congelamento di patrimonio. Una «linea dura» che ha dato i suoi frutti, sebbene talvolta a prezzo della vita degli ostaggi. Che però in alcune occasioni non sono tornati a casa nonostante il bottino incassato dai rapitori. In centinaia di casi i responsabili sono stati individuati, arrestati e condannati. Senza tuttavia diradare del tutto le zone d’ombra che hanno continuato a coprire le trattative sotterranee. Condotte dai familiari o da strani intermediari, o dagli investigatori in cerca di informazioni negli ambienti criminali, per lo più sardi o calabresi, all’interno dei quali erano maturati i piani d’azione. Quando a prelevare ostaggi cominciarono i terroristi, le istituzioni hanno dovuto mettere in campo un’altra strategia. Anch’essa mutata nel corso degli anni, da un caso all’altro. Nel 1974, durante il sequestro Sossi ad opera delle Brigate rosse, la negoziazione giunse a ordinare la liberazione di alcuni detenuti (poi bloccata dal procuratore generale Coco, che per questo fu assassinato); con Moro (1978) prevalse la «linea della fermezza», ma il Vaticano era pronto a versare i soldi di un eventuale riscatto. Nel 1981, per l’assessore campano Ciro Cirillo, la trattativa passò per la camorra di Raffele Cutolo, e il denaro fu raccolto su sollecitazione della corrente dc guidata da Antonio Gava, futuro ministro dell’Interno; una storia di intrecci politico-criminali più fitti e oscuri del solito. I sequestri degli italiani all’estero sono altrettanto misteriosi, ma c’è una differenza di fondo: in Italia pagare un riscatto è vietato, compito di inquirenti e investigatori è liberare i prigionieri e impedire che i banditi ottengano il cosiddetto «provento del reato». Negli altri Paesi la magistratura non può intervenire né condurre indagini (se non attraverso difficili e laboriose rogatorie), e la palla passa ai servizi segreti. Il cui primo obiettivo non è bloccare i sequestratori, bensì salvare la vita del connazionale nelle loro mani. Così si può decidere di pagare senza commettere reato, attraverso canali e strumenti quasi impossibili da scoprire perché sui fondi riservati vige il segreto di Stato, e spesso si orchestrano «partite di giro» per nascondere provenienza e destinazione dei soldi. È ciò che con ogni probabilità è avvenuto in Iraq e altre zone di guerre e conflitti, dove gli agenti segreti sono intervenuti per liberare ostaggi italiani. E talvolta anche stranieri. Fino all’altro ieri. In cambio di soldi ai rapitori/terroristi. Lo sanno pure gli altri governi che, come quello di Roma, si proclamano inflessibili al ricatto. Magari con l’idea che l’atteggiamento italiano sia un’eredità di quel «lodo Moro» che negli anni Settanta garantì al Paese una sorta di quasi-immunità rispetto al terrorismo mediorientale, in cambio di una certa libertà di transito lungo la penisola per i guerriglieri arabi. Tutte operazioni negate ufficialmente, a volte scoperte e altre no. Tutto segreto.