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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - PASTONE SUL TERRORISMO


LE DUE RAPITE
La brutta avventura di Greta e Vanessa, le due cooperanti italiane rapite in Siria il 31 luglio scorso e liberate giovedì scorso, è finalmente conclusa. Dopo una lunga attesa, che si è protratta per tutto il pomeriggio, Greta Ramelli è arrivata nella sua casa a Gavirate, in provincia di Varese. La ragazza è giunta in auto insieme ai genitori, Antonella e Alessandro, e al fratello Matteo. Greta è entrata nella sua abitazione, dove era esposto uno striscione di ’benvenuto’. Pochi minuti dopo essere tornata, è uscita per una manciata di secondi per dire poche battute ai giornalisti in attesa e ringraziare. "Chiedo scusa a tutti, non volevo provocare dolore", ha detto la ragazza. "Mi ricorderò sempre" di quanti "ci hanno aiutate e sostenute", ha detto con voce flebile, visibilmente emozionata, e ha parlato di "momenti difficili" ringraziandoo ancora quanti l’hanno sostenuta come "le persone che sono qui". "Per ora non voglio tornare in Siria.
La situazione lì è insostenibile", ha aggiunto la giovane che però ha poi aggiunto che è necessario "continuare ad aiutare" il popolo siriano. Nessuna dichiarazione invece su un eventuale riscatto . "Penso che su questo abbia già chiarito tutto Gentiloni. A noi non interessa", ha detto il fratello Matteo che era con lei.
Poche ore fa era rientrata a casa a Verdello (Bergamo) anche Vanessa Marzullo.
Vanessa è giunta a bordo di un’auto e, una volta scesa, è entrata in casa protetta dai familiari, dai numerosi giornalisti e cameramen presenti, senza rilasciare dichiarazioni. Vanessa si è poi affacciata alla porta della sua casa di famiglia per salutare i tanti giornalisti presenti. La ragazza, visibilmente stanca, ha fatto un gesto di saluto e si è limitata a dire "grazie". "Ringraziamo tutti quelli che hanno lavorato per il nostro rilascio e tutte le persone che hanno pregato con noi", ha poi aggiunto. In precedenza, sollecitata dai cronisti, aveva dichiarato di essere molto felici di essere a casa.
Greta e Vanessa in Italia
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A parlare, all’interno dell’abitazione, è stato invece papà Salvatore. "Tutto quello che è accaduto - ha sottolineato - adesso è acqua che scorre sotto i ponti. Vogliamo dimenticare tutto". "L’ho trovata bene e non ha subito violenze", ha aggiunto. "Si è dunque trattato di una brutta storia fortunatamente a lieto fine. Ora ha bisogno di qualche giorno di tranquillità. Anche a noi non ha ancora raccontato i dettagli".
Verdello, il ritorno a casa di Vanessa Marzullo
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"Ringrazio di cuore tutti quelli che ci sono stati vicini in questi mesi e in questi ultimi giorni - ha sottolineato Salvatore Marzullo -, dal governo ai nostri vicini". Da ore cronisti e operatori erano in attesa del rientro della volontaria. Proprio stamattina la zia di Vanessa era uscita dalla casa pregando tutti "di lasciare tranquilla Vanessa". Davanti alla casa le cugine avevano srotolato altri striscioni di bentornata.
Le giovani rapite tornano a casa. Greta: "Scusate, non volevo provocare dolore"
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Intanto a Gavirate (Varese) si attende il rientro di Greta Ramelli, l’altra cooperante rapita in Siria il 31 luglio scorso. I titolari di un bar vicino hanno appeso sul cancello della sua abitazione in via Amendola uno striscione con la scritta ’Finalmente a casa’. Da quanto si è saputo Greta sarebbe in viaggio insieme ai genitori e dovrebbe arrivare a Gavirate nel pomeriggio.
Il ritorno a casa di Vanessa Marzullo, l’abbraccio dei familiari
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Si avvia quindi verso l’epilogo la lunga e angosciante vicenda delle due cooperanti lombarde rapite in Siria a fine luglio, tre giorni dopo il loro arrivo. "Eravamo andate laggiù solo per aiutare i bambini", hanno raccontato al loro arrivo a Ciampino, "ma abbiamo sbagliato a farlo in quel modo e non ci torneremo". La liberazione di Vanessa e Greta ha scatenato aspre polemiche politiche legate alle condizioni del loro rilascio, nonostante il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni abbia definito "illazioni" le notizie sul pagamento di un riscatto di 12 milioni di euro. Al loro arrivo, le due ragazze sono state ascoltate in contemporanea per oltre 5 ore dai magistrati e dai Carabinieri: "Abbiamo sofferto, ma non ci hanno fatto del male", hanno raccontato.
Le giovani cooperanti hanno anche spiegato di essere state tenute prigioniere da "persone che avevano sempre il volto coperto" e di non essere mai state minacciate di morte. In ogni caso le due volontarie si sono dette certe di aver cambiato più luoghi di detenzione. La lunghissima trattativa ha poi avuto un accelerazione negli ultimi giorni: "A un certo punto, non sappiamo dire quando (gli inquirenti sono convinti si tratti dei contatti interrotti poco prima del Natale scorso, ndr) abbiamo realizzato che stavano trattando. Che forse la nostra liberazione era imminente. Poi, però, ci siamo anche accorte che la cosa era saltata, forse per un problema tecnico. E per questo ci hanno fatto fare un video (quello postato in rete il 31 dicembre, ndr) ". In quel video le due cooperanti chiedevano aiuto: "Sono stati loro a a dirci cosa dire, a drammatizzare i toni. Volevano riprendere la trattativa". Che si è poi finalmente conclusa pochi giorni dopo.

«NON È STATO PAGATO UN RISCATTO»
Non è stato pagato un riscatto da 12 milioni di euro per la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: non ha dubbi per l’onorevole Giacomo Stucchi (Lega Nord), presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, organo di controllo dei servizi segreti italiani. "Una cifra inverosimile, diffusa per destabilizzare l’opinione pubblica - dichiara Stucchi - la prassi per l’Italia è di non pagare, ma raggiungere accordi per esempio di fornitura di materiali di soccorso" (video di Silvia Valenti)

ULTIME SUGLI JIHADISTI
BRUXELLES- L’attività è frenetica. A oltre una settimana dalla strage alla redazione di Charlie Hebdo, l’intelligence occidentale è sulle tracce di tutte le possibili minacce del terrorismo jihadista. Le antenne sono puntate su una ventina di cellule dormienti in Francia, Germania, Belgio e Olanda, per un "esercito" di potenziali terroristi che Washington stima tra i 120 e i 180 elementi. Mentre in Yemen due francesi legati ad al Qaida sono stati arrestati e in Marocco ci sono stati 8 arresti. Si tratta di persone sospettate di essere coinvolte nel reclutamento di combattenti per l’organizzazione jihadista Stato islamico.
Uno scenario nel quale le forze di sicurezza sembrano mettere a segno due colpi importanti. Sarebbe stato individuato, infatti, il capo della cellula jihadista scoperta a Verviers, in Belgio, giovedì scorso: si tratta di Abdelhamid Abaaoud, un brussellese di 27 anni, di origini marocchine, ora residente in Grecia. Abou Soussi, questo il suo nome di battaglia, prima di stabilirsi in Grecia si era recato in Siria per combattere con le formazioni dell’Is. Sarebbe stato arrestato in Grecia insieme ad altri 4 uomini, anche loro legati alle operazioni antiterrorismo in Belgio. Gli arresti, afferma l’emittente belga VRT, sono avvenuti nel centro di Atene, nel quartiere di Pagrati, proprio grazie all’intercettazione dei numeri di telefono forniti dalla polizia belga.
Agli ordini di Abdelhamid Abaaoud, la cellula aveva messo in piedi un piano di grande effetto, con commissariati e agenti di polizia nel mirino. La retata che è seguita ha portato all’arresto anche del "quarto uomo", il complice dei tre attentatori in azione a Parigi la settimana scorsa.
Tra i componenti della cellula belga almeno sette uomini, due di questi morti nel blitz, la cui identità non è stata svelata ufficialmente, ma che potrebbero essere un ceceno ed un marocchino tornati di recente dalla Siria. E tra loro anche due fuggitivi, fermati ieri dai doganieri a Chambery, mentre cercavano di raggiungere l’Italia. E in un’intervista al giornale Le Soir, il coordinatore anti terrorismo Ue, Gilles de Kerchove, ha detto che gli attentati contro la polizia erano stati programmati per venerdì scorso. Aggiungendo che, se si fa una proporzione con la popolazione, sul territorio belga c’è il più alto numero di persone che hanno combattuto in Siria o che sono pronte a partire. De Kerchove ha aggiunto che non ci sono informazioni precise su possibili nuovi attentati, anche se l’allarme resta alto.
In Belgio ha preso il via l’applicazione del pacchetto di sicurezza varato dal governo. Da oggi circa 300 militari presidiano gli obiettivi più sensibili che potrebbero essere attaccati da terroristi nelle città di Bruxelles e Anversa, tra cui ambasciate e edifici nel quartiere ebraico. E’ la prima volta, in 30 anni, che il Paese ricorre all’esercito per rafforzare il lavoro di polizia. Il governo ha alzato da 2 a 3 il livello di allerta. Persino il primo ministro del Giappone Shinzo Abe ha promesso circa 200 milioni di dollari in assistenza non militare per i Paesi che combattono contro i militanti dello Stato islamico.
Intanto Said Kouachi, il maggiore dei due fratelli che hanno fatto strage nella redazione del giornale parigino Charlie Hebdo, è stato sepolto nella notte, nella massima discrezione, a Reims, nel nord della Francia. Il sindaco di Reims era contrario, ma alla fine il funerale si è fatto e Said Kouachi è stato sepolto in una tomba anonima in uno dei cimiteri della città il cui nome non è stato reso noto. Il Comune ha ottenuto questa garanzia di anonimato per evitare che la tomba del terrorista diventi luogo di pellegrinaggio o di profanazioni.
La giustizia francese ha prolungato i 12 fermi compiuti nella notte fra giovedì e venerdì nell’ambito dell’inchiesta sulla rete di appoggio al terrorista Amedy Coulibaly. I fermati sono sospettati di aver assicurato "sostegno logistico", in particolare armi e veicoli, al terrorista ucciso dopo il sequestro di ostaggi nel supermercato kosher di Vincennes. Si tratta di 8 uomini fra i 22 e i 46 anni e 4 donne fra i 19 e 47 anni, queste ultime compagne di quattro degli uomini fermati. Tutti sono pregiudicati, ha detto ieri il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve.
In Italia il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha annunciato di aver rafforzato la collaborazione nella lotta al terrorismo con il suo omologo spagnolo, Jorge Fernandez Diaz. Mentre il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha detto ieri sera a Otto e mezzo, su La7, che l’allarme terrorismo in Italia è piuttosto elevato.
Intanto si moltiplicano e si aggravano le proteste nel mondo islamico contro la nuova caricatura di Maometto pubblicata dalla rivista satirica Charlie Hebdo, dopo la strage del 7 gennaio. A Niamey, capitale del Niger, almeno tre chiese sono state incendiate.


CHI SONO I JIHADISTI
MARCO IMARISIO SUL CORRIERE
DAL NOSTRO INVIATO PARIGI Come una mobilitazione generale. La metafora non è tra le più beneauguranti per via dei suoi richiami guerreschi, ma è vero che all’improvviso le polizie di molti Paesi europei sembrano riscoprire come un sol uomo il pericolo dell’estremismo islamico. Tutto in una notte, o quasi. Mentre a Berlino venivano perquisiti interi quartieri e arrestate tre persone di origine turca che stavano progettando un attentato in Siria, a Bruxelles venivano arrestati cinque reduci dalla Siria, pronti a una sinistra replica del Charlie Hebdo , con i poliziotti al posto dei vignettisti, una caserma al posto della redazione.
Il virus è mutante, dice l’avvocato Thibault de Montbrial, direttore del Cat, Centre d’analyse du terrorisme. E la molteplicità delle minacce impedisce una risposta puntuale. Anche per questo assume un significato meno generico del solito l’offerta britannica di una collaborazione attiva con la Francia, fatta dal premier Cameron durante una conferenza stampa al fianco di Barack Obama, con annesso impegno a lottare contro il terrorismo «ovunque sia».
Il risveglio dopo la strage di Parigi appare davvero collettivo. L’operazione tra Bruxelles e Verviers è stata fatta con la massiccia collaborazione dell’intelligence americana, che sapeva da settimane della minaccia incombente. La mappatura fatta dai servizi segreti occidentali rivela l’esistenza di almeno venti cellule, per un totale di 120-180 uomini pronte a colpire in Francia, Germania, Belgio e Olanda, i Paesi al momento più esposti. A leggere le notizie di ieri veniva una certa ansia, con le perquisizioni a tappeto in Spagna e l’arresto di una ragazza di 18 anni all’aeroporto londinese di Stansted per reati legati al terrorismo.
Non ci sono più confini in Europa, e così due presunti jihadisti in fuga dal Belgio, dopo la sparatoria della scorsa notte, sono stati fermati all’alba poco dopo Chambery, in Savoia. Stavano andando in Italia, attraverso il tunnel del Frejus. Era stata anche diramata una preallerta alle nostre autorità, in caso qualcosa fosse andato storto. Non ce n’è stato bisogno. «Hanno voluto passare le frontiera proprio nel momento in cui i doganieri ricevevano la scheda inviata dal Belgio» racconta una fonte di polizia francese. «E sono stati fermati». Almeno per una volta, un dispositivo di prevenzione che ha mostrato di funzionare. «Purtroppo» dice de Montbrial, «i francesi lo hanno capito per primi e si stanno preparando a cambiare il loro stile di vita, a stare più attenti nei gesti di tutti i giorni. A bassa intensità, ma è pur sempre una guerra».
Nella speranza che la profezia dell’esperto si riveli errata, Parigi è comunque lo spartiacque. Amedy Coulibaly, l’assassino dell’Hyper Cacher di Port de Vincennes, rappresenta il prototipo del terrorista domestico. I dodici fermi effettuati ieri nei dintorni della banlieue di Grigny, dove era nato, riguardano persone dal profilo simile al suo prima del tragico disvelarsi della vocazione jihadista: trafficanti d’armi e rapinatori accusati di avergli fornito sostegno logistico, forse in cambio di denaro.
L’unica figura di rilievo sarebbe il «quarto uomo». È la persona che ha portato Coulibaly alla drogheria ebraica, quasi sicuramente l’autore del ferimento del jogger a Fontenay-les-Roses, poche ore prima dell’assassinio a Montrouge della vigilessa Clarissa Jean-Philippe. Quella fu una specie di prova generale della pistola Tokarev che avrebbe poi sparato sugli ostaggi ebrei del supermercato.
Non ci sono più confini, ma il controllo dei jihadisti di seconda generazione, inseriti nella società in cui vivono e al tempo stesso loro acerrimi nemici, resta un’impresa improba. Mehdi Belhoucine, l’uomo che ha accompagnato in Siria la moglie di Coulibaly, era un dipendente a tempo del Comune di Aulnay-sous-Bois, nella periferia Sud di Parigi. Faceva l’animatore per i bambini delle scuole elementari.
Marco Imarisio

IVO CAIZZI SUL BELGIO
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES La paura di attentati di terroristi islamici esplode clamorosamente in un Belgio solitamente tranquillo, dopo che la polizia ha ucciso giovedì scorso due presunti jihadisti forse di origine cecena in uno scontro a fuoco nella cittadina francofona di Verviers, vicino Liegi. Secondo le autorità locali sarebbero stati pronti a lanciare un’azione contro la stessa polizia. In particolare le divise di agenti, che sarebbero state rinvenute a Verviers insieme ad armi, hanno fatto supporre un possibile attacco alle forze dell’ordine locali per vendicare i terroristi uccisi a Parigi da poliziotti francesi.
Dalla notte successiva alla sparatoria di giovedì scorso sono proseguite perquisizioni coordinate tra il centro di Bruxelles e i quartieri di Anderlecht, Molenbeek e Berchem, dove si concentrano molti immigrati nordafricani provenienti principalmente da Marocco, Algeria e Tunisia. Si cercano cellule «in sonno» pronte a risvegliarsi. Della quindicina di fermati, cinque sono già stati incriminati per terrorismo, arrestati o rilasciati con restrizioni. In prigione è finito il terzo presunto partecipante alla sparatoria di Verviers, che è rimasto ferito e respingerebbe qualsiasi responsabilità. Due arresti avvenuti in Francia riguardano islamici fuggiti dal Belgio verso l’Italia subito dopo le notizie sulle due uccisioni vicino Liegi. La polizia avrebbe trovato anche il fornitore delle armi utilizzate dal francese Amedy Coulibany nell’assalto al negozio kosher di Parigi, che è seguito alla strage nella redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo , colpita per vendetta dopo la pubblicazione di vignette sul Profeta Maometto considerate blasfeme.
La polizia belga ha detto che le sue indagini sono in corso da prima dei fatti di Parigi e che ritiene di dover mantenere la riservatezza su come stanno procedendo in un Paese con circa 500 mila immigrati islamici sul totale di undici milioni di abitanti. I sospetti si sarebbero estesi ad Anversa, dove potrebbe essere nel mirino la folta comunità ebraica locale. Il rabbino Menachem Margolin ha chiesto di cambiare le leggi per consentire agli ebrei belgi di girare armati. Scuole ebraiche ieri sono rimaste chiuse per precauzione.
Il premier belga Charles Michel, dopo una riunione del Consiglio dei ministri, ha annunciato un piano di lotta al terrorismo con numerose misure che vanno dall’uso dell’esercito in aiuto alla polizia fino al ritiro del passaporto, al congelamento dei beni e all’individuazione di finanziamenti destinati agli estremisti islamici. A Bruxelles temono che le cellule jihadiste intendano ormai andare oltre il tradizionale uso del Paese solo come base e luogo di transito. Michel ha anche chiesto una riunione formale del Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue per decidere interventi comuni. Lunedì è già previsto che il Consiglio dei ministri degli Esteri Ue discuta di misure anti-terrorismo concertate, che sono considerate urgenti dopo quanto è emerso in Francia, Belgio e altri Paesi europei.
La vicenda di Verviers è emblematica perché è esplosa in una delle tante aree post-industriali dove la crisi economica ha favorito l’adesione a movimenti estremisti di figli disoccupati degli immigrati musulmani. Materiale trovato dopo l’uccisione dei due islamici di origine cecena ha collegato una cellula locale ai messaggi minatori inviati a rivendite di giornali per dissuaderli dal vendere Charlie Hebdo . Le autorità belghe sostengono che dal loro Paese è partito il maggior numero di europei diventati combattenti in Siria. Una quarantina sarebbero morti negli scontri armati. Un centinaio sarebbero rientrati pronti a seminare il terrore in Belgio. Un primo allarme era arrivato da un giovane francese di origine algerina, ora sotto processo a Bruxelles con l’accusa di aver ucciso quattro persone nel locale Museo ebraico.
Ivo Caizzi

GIDFO OLIMPIO SUL CORRIERE
WASHINGTON I terroristi del Belgio volevano colpire la polizia. Un bersaglio all’irachena, un target finito spesso nella linea di tiro dei militanti insieme ai soldati. Può sembrare una scelta ovvia e lo è, ma al tempo stesso è la mossa dei criminali per inserire la loro azione in una cornice ben più ampia. Atti che avvicinano l’Europa agli scenari del Medio Oriente.
Il primo lato di questo quadro è rappresentato dalle potenziali vittime. Sono un simbolo dello Stato, dunque del nemico. Rappresentano un ostacolo da abbattere, il muro che tutela i leader e garantisce che la vita si svolga con ordine. In Egitto, in Iraq o in Pakistan provano a intimidirli prima con le minacce, quindi con le esecuzioni. Se non cedono si passa alla strage. I veterani tornati dal Medio Oriente provano ad applicare questo modus operandi anche in Occidente a seconda delle loro disponibilità logistiche.
Il secondo lato è la dimostrazione di forza. Colpendo gli agenti, il bus che li trasporta, una caserma, i jihadisti mandano un messaggio di guerra. E questo vale tanto per gli attentatori legati all’Isis che per gli elementi che agiscono su base individuale.
Lanciano un attacco con il duplice obiettivo di provocare morti ma anche di demoralizzare l’avversario. Al cittadino verrà il dubbio che lo scudo della sicurezza sia inadeguato. Concetto rilanciato dal fronte mediatico della Jihad, quale che sia l’affiliazione. Sono incursioni che devono ricordare altre operazioni coronate da successo.
I terroristi sono pragmatici: tattica che funziona non si cambia, anzi si copia. L’assalto di Mumbai, le operazioni sacrificali in Pakistan, i raid nel cuore di Kabul, la folle scorreria di Mohamed Merah.
Di nuovo sono le circostanze e i mezzi a determinare i confini dell’attacco. Il terzo elemento è quello che congiunge la lotta mediorientale all’odio verso la divisa. E’ un tentativo di sfruttare l’ostilità nei confronti della polizia che agita certe periferie europee e americane.
Una piccola minoranza può essere attirata dal progetto violento. L’incrocio in carcere tra il militante e il criminale comune favorisce l’alleanza: lo spacciatore che fino a ieri sfuggiva alla Narcotici oggi si trasforma in cacciatore unendosi ad una cellula di compari non molto diversi da lui.
A Londra hanno sgozzato un povero soldato sorpreso per strada, in Canada ne hanno messo sotto uno con l’auto e ucciso un altro a fucilate, a Brooklyn l’islamista dell’ultima ora si è servito dell’ascia.
A chiudere il quarto lato, la propaganda. Ammazzano degli innocenti, come le persone all’interno del museo ebraico e i giornalisti di Charlie Hebdo , però non vogliono passare per assassini. Si considerano dei guerrieri investiti di una missione sacra, usano la religione come paravento.
Sparando raffiche contro una pattuglia o la donna-poliziotto cercano allora di elevare il loro status. La loro storiografia deve ricordarli come protagonisti di un assalto coraggioso che ha causato la fine di «un gran numero di soldati». A volte è vero. In altre solo una scusa per giustificare il massacro di civili.
@guidoolimpio

LA REPUBBLICA
PAOLO BERIZZI
Il marciapiede di fronte al numero 32 di rue de la Colline è una distesa di schegge di vetro. Le esplosioni hanno annerito la facciata: si vedono pezzi di cemento sfaldato, una chiazza scura, la calotta dello specchietto di un’auto. I due finestroni a piano terra — dai quali sono penetrate le teste di cuoio — sono sbarrati con pannelli di legno. Anche il portoncino blu: la carta della pubblicità ancora infilata nelle cassette. Il covo della cellula jihadista di Verviers era lì, al primo piano di questo piccolo edificio di mattoncini rossi. Centro città, cinque minuti a piedi dalla stazione ferroviaria. Settanta metri quadrati intestati, raccontano, a tal Marwan, il terzo del gruppo, quello ferito e arrestato: forse di origini marocchine come i due complici rimasti uccisi nel blitz della polizia: Redwane Hajaoui e Tarik Jadaoun (i nomi sono stati riportati da alcuni media belgi). Chi sono? Che cosa avevano pianificato assieme agli altri della banda islamista arabo-cecena con basi in Belgio (gli investigatori la declinano con una doppia definizione: «cellula terroristica » e «cellula logistica»)? In che rapporti erano con gli altri presunti jihadisti fermati nelle ultime ore nel paese, in Francia e al confine con l’Italia?
Per capire meglio e provare a bucare il riserbo delle indagini conviene partire da due punti. Primo: quello che hanno trovato in casa dopo l’assalto. Quattro kalashnikov, materiale esplosivo, munizioni, walkie talkie, uniformi della polizia, diecimila euro in contanti, documenti falsi. L’attrezzatura — e sembra sia solo parte di un arsenale ancora più robusto — adeguata per colpire «in grande». Per «uccidere e sgozzare i poliziotti... appena li vedete»: esattamente quel che predicano nelle loro truci minacce tre combattenti francofoni apparsi in un video postato su Fb dalla Siria quarantotto ore fa. Secondo punto: come si muovevano. E per cosa. Rue de la Colline è una strada silenziosa che sale da rue du Palais, uno dei viali che tagliano Verviers. Prima ci sono un agenzia di assicurazioni, un atelier e una scuola di danza. «Terroristi? Mai visto nessuno, mai fatto caso» sgrana gli occhi ancora terrorizzata madame Chantal, genitori originari del basso Lazio. Abita nella casa accanto e dice quello che chiunque di noi direbbe adesso se vivesse lì. Poi magari è vero che si spostavano come pipistrelli di notte. La spola con Bruxelles città e Anderlecht — a bordo di un furgone e di una utilitaria — i voli da e verso la Siria (l’ultimo a ottobre 2014); i viaggi per recuperare armi provenienti dai Balcani e dall’ex Jugoslavia. Grazie ai “facilitatori” ceceni con buone entrature tra gli ex miliziani della «prima» Europa dell’est. Forse, il venerdì, qualche puntata nei dintorni di una delle otto moschee di questa città di nemmeno sessantamila abitanti vicina al confine con la Germania e i Paesi Bassi. «Cercateli altrove, i terroristi e gli amici dei terroristi non hanno niente a che fare con noi e con la nostra religione », spiega l’imam Franck Hensch, il faro della comunità musulmana locale. Fino a ieri era conosciuta per le sue acque Verviers: ma Redwane Hajaoui e Tarik Jadaoun — stando a quanto sostiene l’antiterrorismo di Bruxelles — volevano fare scorrere il sangue. Ne parlavano al telefono. Assieme al loro complice, Marwan, il «basista». Era tutto pronto, cementato dall’amalgama tra le due costole della cellula: quella arabo-magrebina, e quella cecena. Spieghiamo. Dei tredici sospettati fermati in Belgio, sono cinque quelli incriminati per terrorismo e rinchiusi in carcere. Almeno tre — trapela dalle indagini — sarebbero originari della Repubblica a Nord del Caucaso. Là avrebbero iniziato il loro percorso di radicalizzazione e di addestramento. Poi continuato nei territori siriani vicini a Aleppo. Dove si compie la saldatura con i foreign fighters nordafricani. Gravitavano tutti attorno a Bruxelles. I tre di Viviers andavano e venivano. Sono indicati come «cittadini belgi». «Li abbiamo tenuti tutti costantemente sotto controllo — spiega una fonte che ha avuto un ruolo nell’operazione — . Da quando sono rientrati dalla Siria non abbiamo mai perso le loro tracce». Alcuni elementi della cellula jihadista, dopo il blitz di giovedì, si sono dati alla fuga. Due erano diretti in Italia, li hanno arrestati a Chambery mentre stavano superando il confine del Frejus. «Era quello che volevamo: stanarli — dice ancora la fonte — . Costringerli a uscire allo scoperto. Li abbiamo fermati prima che si mettessero in azione».

LA STAMPA
GIORDANO STABILE
Venti cellule dormienti. Dai 120 ai 180 jihadisti pronti a colpire in Francia, Germania, Belgio e Olanda. Una minaccia «imminente», è l’allarme lanciato dalle agenzie di intelligence occidentali, rivelato ieri dalla Cnn e che coinvolge anche l’Italia dove erano diretti due terroristi della cellula belga, intercettati al valico del Fréjus. Un attacco è «molto probabile», ha confermato il premier britannico David Cameron dalla Casa Bianca, da dove ha delineato con il presidente americano Barack Obama una strategia comune nell’emergenza terrorismo.
Anche perché il gruppo di Verviers stava per portare a termine «un grande attentato» nel giro di poche ore, al massimo «due giorni». Non è ancora sicuro l’addestramento in Siria dei due terroristi uccisi, ma servizi e forze di sicurezza continentali si stanno concentrando sugli «islamisti di ritorno» dai fronti di guerra.
«Abolire Schengen»
Non è una caccia facile. I jihadisti si organizzano in gruppi di 10-15 persone. Gli arresti fra giovedì e ieri danno queste dimensioni: 12 in Francia, compreso il «quarto uomo» che ha aiutato Amedy Coulibaly nell’omicidio di un’agente l’8 gennaio e nell’assalto al mimimarket kosher il 9, tredici in Belgio. Non ci sono «legami certi» fra le due cellule, ha precisato il primo ministro francese Manule Valls, ma la minaccia terroristica «non è mai stata così alta». Ci troviamo davanti a gruppi che si muovono agili nell’Europa senza frontiere, conquista che ora viene messa in discussione dai movimenti conservatori. Marine Le Pen in testa, che ieri è tornata a chiedere «la sospensione immediata» di Schengen, in attesa della cancellazione. L’alternativa è lo scambio di informazioni totale fra le intelligence europee.
Una strategia obbligata, difficile da concretizzare. Secondo l’International Centre for the Study of Radicalisation (Icsr) di Londra, «sono almeno 4 mila gli islamisti europei che hanno combattuto in Siria e Iraq». La Francia è in testa con 1200. In Italia, secondo l’Icsr, sarebbero 80. Ma il nostro è soprattutto un Paese di transito, come dimostra l’arresto dei due terroristi belgi diretti verso la frontiera italiana: «Stavano per passare - racconta una fonte di polizia belga - quando i doganieri hanno ricevuto l’informativa dal Belgio e sono stati bloccati». Appena in tempo. Il valico del Fréjus è da tempo sotto alta sorveglianza da parte delle forze di sicurezza sia francesi che italiane. Uno dei punti sensibili della rete di sicurezza europea.
Gli errori servizi francesi
E ci sono altri punti deboli. «Negli ultimi 2-3 anni l’attenzione è stata rivolta soprattutto alle reti di reclutamento di combattenti europei - puntualizza Ermete Mariani, specialista in geopolitica del mondo arabo e islamico -. È stato trascurato il ruolo della vecchia guardia del terrorismo islamista degli Anni Novanta». Personaggi come Djamel Beghal, già membro del Gia algerino, «con un ruolo chiave nella radicalizzazione di Coulibaly e Chérif Kouachi». Beghal è l’unico dato certo sul reclutamento dei fratelli Kouachi, e di Coulibaly. «Ci sono certo reti dell’Isis, ma non è detto che quest’ultimo sia stato reclutato direttamente - spiega Jean-Charles Brisard, esperto di antiterrorismo ed ex consulente del governo Balladur -. E bisogna distinguere fra i fratelli Kouachi, addestrati da Al Qaeda, e Coulibaly». Concentrarsi solo sui combattenti di ritorno è quindi rischioso. Nel caso del franco-maliano Coulibaly si parla di «autoreclutamento». Un lupo solitario che entra in contatto con una cellula, ma poi agisce in maniera «anarchica». Ancora più difficile da controllare.

(B.K. Bangash/AP) - In Niger e Pakistan A Islamabad, in Pakistan, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro le vignette di Charlie Hebdo e la raffigurazione del Profeta scandendo slogan e intonando «se voi siete Charlie, io sono Kouachi» Musulmani hanno manifestato anche in Algeria e in Niger: qui ci sono stati quattro morti negli scontri
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LA STAMPA
PAOLO LEVI
Retata anti-terrorismo in Francia, con il fermo di dodici persone nell’ambito delle indagini sulle stragi jihadiste di Parigi. Nelle operazioni a tappeto lanciate nell’hinterland della capitale - una corsa contro il tempo per il rischio ancora molto elevato di nuovi attentati - gli inquirenti hanno anche fermato il cosiddetto «quarto uomo», sospettato di essere il complice principale di Amedy Coulibaly, protagonista degli attacchi di Montrouge e Vincennes, quello che gli ha fornito «il più rilevante supporto logistico», a cominciare da armi e veicoli. In totale, i fermati sono otto uomini e quattro donne. Tutti erano già noti agli inquirenti per traffico d’armi e stupefacenti. Il Dna di due di loro è stato ritrovato nel covo di Coulibaly a Gentilly ma anche sulle armi e nell’auto che usò prima di uccidere la poliziotta a Montrouge e partire il giorno successivo all’assalto degli ebrei al supermercato kosher di Porte de Vincennes.
Appoggio logistico
Nel fermo eccezionale di 96 ore, contro le abituali 24, i dodici sospetti sono interrogati su un «possibile appoggio logistico» a Coulibaly ma anche ai fratelli Kouachi, i due franco-algerini autori della strage alla redazione di Charlie Hebdo. Mentre continua la ricerca dell’auto - una Mini Cooper - di Hayat Boumeddiene. La misteriosa compagna di Coulibaly, fuggita in Siria prima degli attentati, sarebbe incinta dal compagno abbattuto dalle teste di cuoio nel blitz al supermercato ebraico. «Non vedrò mai mio figlio, ma lo incontrerò in paradiso», avrebbe detto lui, confidandosi agli amici.
Parlando in radio il premier, Manuel Valls, esclude «legami diretti» tra le stragi parigine e le operazioni anti-terrorismo di giovedì sera in Belgio. Mentre il segretario di Stato americano, John Kerry è volato ieri a Parigi con una serie di toccanti momenti di omaggio alle vittime degli attacchi e ai superstiti «eroi», nel tentativo di far dimenticare l’assenza degli Usa dalla grande marcia di domenica. Un’assenza per cui ha presentato le scuse all’omologo Laurent Fabius.
L’Internazionale socialista, Bella Ciao e un corteo funebre a ritmo di jazz in stile New Orléans hanno invece segnato il commosso addio a Stéphane Charbonnier - in arte Charb -, il direttore di Charlie Hebdo seppellito ieri mattina nella cittadina natale di Pontoise.
Paura per uno squilibrato
Ma nella Francia blindata con i militari in strada sembra non esserci tempo neanche per omaggiare i morti. Il Paese è tornato a tremare a metà pomeriggio, quando un uomo armato si è barricato con due ostaggi in un ufficio postale di Colombes, un ennesimo comune della banlieue parigina. Si arrenderà poco dopo, consegnandosi alle teste di cuoio appostate davanti all’edificio: «Uno squilibrato con gravi problemi: il terrorismo non c’entra», diranno le forze dell’ordine.

LA STAMPA
MARCO ZATTERIN
Marouane E., il terzo uomo che si è salvato saltando dalla finestra, nega tutto. Agli inquirenti assicura di non aver nulla a che fare coi due jihadisti morti giovedì nel conflitto a fuoco con la polizia in rue de la Colline, ex anonima via del centro di Verviers. È accusato di terrorismo, detenzione di esplosivi e armi, nonché di progettare attentati e di resistenza alle forze dell’ordine. «Tutto falso», ripete, eppure non ha dato una versione convincente del perché si trovasse coi due che hanno sparato sulla polizia e poi sono stati uccisi.
La stampa locale scrive però di sapere chi sono, ragazzi di origine cecena, da poco rientrati dalla Siria per organizzare una cellula che avrebbe dovuto far saltare in aria un po’ di commissariati e il palazzo di Giustizia di Bruxelles.
«Abbiamo preso quelli che cercavamo, ma non è detto che siano tutti», segna il punto il portavoce della Procura di Bruxelles, Eric Van Der Sypt. Tredici persone sono state fermate e per cinque è scattato l’arresto dopo l’operazione antiterrorismo condotta dalla polizia nella capitale belga e a Verviers, cittadina da 56 mila abitanti, ex capitale della lana fra Liegi e il confine tedesco. Gli inquirenti li ascoltavano da settimane. Non ci sono conferme ufficiali, ma più fonti parlano d’un possibile rapimento a breve con successiva decapitazione da mettere online. E del sequestro di un autobus di civili per seminare il panico nella popolazione.
Addestrati e integrati
Questione di ore, si dice. Adesso la Procura annuncia di «aver smantellato la cellula e il suo consenso», soprattutto a Verviers, area di frontiera non solo geografica, sonnecchiante con i sobri palazzi anneriti e tumultuoso nido di estremismo che si dice islamico. Lo prova la storia di due giovani i cui nomi potrebbero coincidere con quelli dei «terroristi» uccisi dalla polizia, Redwane Hajaoui (detto Abu Khalid Al Maghribi) e Tarik Jadaoun (Abu Hamz), ragazzi del posto, di origine cecena, appena tornati dalla Siria. Un bel sorriso a vedere la foto che circola, allegri soldati col kalashnikov. La famiglia di Hajaoui lo crede in Marocco dai nonni e lo cerca. Il figlio lo attende.
Nella casa di rue de la Colline sono stati trovati telefoni, armi, munizioni, documenti, falsi, danaro, uniformi della polizia. Arsenale e quartier generale, di cui lo scampato Marouane E., 25 anni, giura di non sapere nulla. La polizia lo ha interrogato a lungo, lui sostiene d’esser venuto da Bruxelles per comprare droga.
Ci si attende che riveli cosa avessero in mente Hajaoui e Jadaoun. C’erano dei complici? In Belgio risultano 320 «foreign fighter», ben addestrati e integrati in una comunità multietnica sinora ben funzionante. Verviers potrebbe essere un riferimento nevralgico, col quartiere scalcinato dietro la stazione abitato da afghani, pachistani, marocchini, ma in particolare dai ceceni sfuggiti alla guerra. Sono la punta dell’iceberg dell’estremismo, hanno scalzato i Fratelli musulmani e Hamas che, secondo un rapporto della Fondazione Nefa (che indaga sul dopo 11 settembre), ancora nel 2008 erano i pastori delle anime più nere. Gente dura. Solitaria, dicono gli esperti.
La punizione degli infedeli
Hajaoui e Jadaoun sono venuti su in questo mondo di confronti, influenzati a quanto pare da un imam di Verviers, espulso in luglio dalla locale moschea somala per colpa dei toni estremisti delle sue prediche. Si credevano una setta, volevano punire gli infedeli. Nelle intercettazioni risultano aver contemplato azioni contro le edicole per castigare la messa in vendita di «Charlie Hebdo», sebbene la procura belga neghi che l’offensiva di giovedì sia legata agli attentati di Parigi.
Stato di allerta
Il Paese è in stato di allerta. La Polizia di Liegi conferma di seguire passo per passo diciannove persone, quattro appena rientrare dalla Siria, le altre sul punto di partire. È zona fertile per gli estremisti, l’Olanda e la Germania sono vicine, si transita in fretta. Verviers è stata spesso amministrata col pugno duro della destra, l’attrito è aumentato. Il 15 per cento della popolazione è straniero, si contano 117 nazionalità diverse. Franck Ami, imam della Moschea Assahaba, ricorda bene Hajaoui e Jadaoun. «Tre o quattro anni fa impazzivano per i rapper, adesso venerano Bin Laden, si son fatti crescere la barba, si sono estremizzati. Mettono le loro foto su Facebook, armati. Come fossero dei modelli sulla passerella della Jihad».

(Robert Pratta /REUTERS) - Nel mirino Oltre alla polizia i jihadisti avrebbero voluto sequestrare un alto magistrato per decapitarlo, replicando così le feroci gesta dell’Isis

LA STAMPA
La Commissione Ue «appoggia» la scelta di alcuni Paesi membri, tra cui da ieri anche il Belgio, di colpire il terrorismo ritirando i passaporti e le carte d’identità a cittadini europei gravemente sospettati di attività terroristiche. Lo ha reso noto una portavoce europea, sottolineando comunque che l’intera materia dell’intelligence è di esclusiva competenza dei singoli Stati. Ieri il premier belga Charles Michel ha presentato 12 nuove misure che saranno oggetto di progetti di legge approvati «al più tardi entro metà febbraio». Tra le misure straordinarie ci sono il ritiro dei documenti d’identità e della nazionalità, il congelamento dei beni, l’inserimento come reato penale dei viaggi all’estero a fini terroristici e l’uso dell’esercito per missioni specifiche di sorveglianza. L’uso dell’esercito per missioni specifiche di sorveglianza in determinati luoghi (come ad esempio commissariati e tribunali) è invece immediatamente operativo, con 150-200 militari pronti a essere mobilitati già oggi.