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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

INTERVISTA A MASSIMO ABBATANGELO, L’EX PARLAMENTARE AMICO DI MISSO


«Non so chi sia stato, ma so per certo che non ebbi mai nessun coinvolgimento in quel massacro. Di mazzate ne ho date tante, questo sì. Ma mai sarei stato tra gli autori di una strage. Non mi sarei mai più guardato allo specchio e avrei dovuto rendere conto alla mia famiglia e alla mia coscienza, prima di tutto».
Ha settantadue anni, oggi, Massimo Abbatangelo, ex parlamentare del Movimento Sociale Italiano, che il 7 giugno 1989 fu rinviato a giudizio per concorso in strage.
La strage era, ovviamente, quella del Rapido 904. Un eccidio per il quale si pensò al coinvolgimento di Abbatangelo per i suoi rapporti con il boss del Rione Sanità a Napoli Giuseppe Misso. La vicenda giudiziaria dell’esponente del Msi si concluse con la sentenza della Corte di Appello di Firenze del 18 febbraio 1994, con cui Abbatangelo venne assolto dal reato di strage, ma condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato l’esplosivo a Misso nell’84, come avevano riferito nei loro racconti i pentiti di camorra Lucio Luongo e Mario Ferraiuolo.
Oggi, dopo trent’anni, dalla sua casa di Posillipo Abbatangelo ripercorre le tappe della sua esperienza politica e della terribile vicenda che lo vide coinvolto.

Lei si è sempre dichiarato estraneo ai fatti riguardanti la strage del Rapido 904. Eppure fu accusato di essere tra gli autori di quella tragedia per i suoi legami con Misso. In che rapporti era con il boss del Rione Sanità?
«Non ho mai negato che Misso ed io fossimo amici. Ci conoscevamo sin da ragazzi, tanto che giocavamo a calcio insieme con lui e con Alfonso Galeota nella Fiamma Foria».

Fiamma Foria. Un nome che è tutto un programma per una squadra di calcio...
«Via Foria è sempre stata nota per la sezione del Msi che avevamo e intorno alla quale ruotavano le attività del partito».

Dopo gli anni della giovinezza, in cui giocavate a calcio insieme, quando rivide Misso?
«Nel 1983 rividi Misso perché c’erano le elezioni politiche. Lo andai a trovare e gli chiesi il voto, come feci d’altronde con tutti gli amici».

Poi quando lo rivide?
«Se la memoria non mi inganna, lo reincontrai quando lui uscì di galera. Ma non ricordo che anno fosse».

Lei ha vissuto per anni a Ponticelli, nella periferia orientale di Napoli e anche lì aveva rapporti per così dire “amicali” con esponenti della camorra...
«Ho vissuto a Ponticelli dai 16 anni in poi. Certo, ero amico di quelli che sarebbero diventati i futuri boss Salvatore Imperatrice e Luigi Riccio (tra gli uomini della “batteria di fuoco” del capoclan della Nco Raffaele Cutolo, ndr). Ma è un fatto normale, quando si vive in certi quartieri. Come è normale che poi ognuno prenda la strada che ritiene opportuna. Dopo, ovviamente, li ho persi di vista».

Quando è entrato in politica?
«Mio padre era colonnello di Cavalleria reduce dalla campagna d’Africa e aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Fu lui a trasmettermi la passione per la politica. Nel 1963 a Ponticelli aprì la sezione del Msi. Lì ci ho portato Almirante. Di mestiere ero spedizioniere doganale. Mi iscrissi al partito a sedici anni. Poi nel ’64 mi chiesero di candidarmi».

Poi il suo percorso fu tutto in salita...
«Fui eletto consigliere comunale a Napoli, dove rimasi fino al 1987. Nel ’72 ebbi 24.000 preferenze, nell’83 50.000».

Un consigliere che apparteneva a un partito che era di chiara ideologia fascista. Eppure il fascismo era finito in quegli anni, no?
«Il fascismo è finito nel ’45. Tuttavia a Napoli nell’83 prendemmo 18 consiglieri comunali».

Cos’era il fascismo a Napoli in quegli anni?
«Il fascismo era popolo. Eravamo tutti di classe operaia e impiegati. Vivevamo nel terrore. Ogni evento eversivo, ogni protesta, ogni iniziativa pubblica ci veniva attribuita. Pensi che dagli anni Settanta non sono più andato al cinema perché eravamo criminalizzati. Creammo allora il settore dei Volontari Nazionali, il servizio d’ordine del partito. Io ero il dirigente del sud Italia. Facevamo blocco ad Almirante quando c’erano manifestazioni».

In questo clima di tensione come si ritrovò coinvolto nella strage del 904?
«Ricordo che l’allora capo della Digos mi chiamò al telefono per una comunicazione giudiziaria. Fui poi prosciolto in istruttoria per associazione a delinquere».

Dov’era la sera del 23 dicembre 1984, quando fu diffusa la notizia della strage?
«Ero a casa con mia moglie che stirava. Abitavamo a Pomigliano d’Arco. Guardando le immagini del treno squarciato ai telegiornali, le chiesi: ‘Cosa faresti a chi ha fatto questo?’. Un mese dopo ebbi una nuova comunicazione giudiziaria. Tra i giudici che ho conosciuto in questa vicenda, solo colui che mi accusò all’inizio, Pier Luigi Vigna, nei primi anni 2000 mi disse: ‘Penso di essermi sbagliato’. Con lui ebbi il primo interrogatorio a Firenze negli anni ’86-’87».

Poi cosa accadde?
«Nell’87 fui il primo dei non eletti. Tornai a Firenze. Il mio legale era Valerio De Sanctis. Poi ci fu il periodo di latitanza. In realtà ero a casa mia, ma nessuno se ne era accorto. Mi cercavano ovunque, tranne che nel luogo dove ero sempre rimasto. Dopo qualche mese trovarono fuori al mio terrazzo pistole e proiettili. Non ho mai saputo chi ce li abbia messi. Ma fui accusato lo stesso».

Come si difese da quell’accusa?
«Quei proiettili erano custoditi in scatole sigillate, erano calibro 9 ed erano di tipo militare. ‘C’è un numero di lotto e una data sulle scatole’, dissi. ‘Controllate’. Nessuno mi diede ascolto. Fui condannato a sei anni per quel reato che non avevo commesso. Ricorsi in Appello e mi diedero quindici mesi con la condizionale. Ricorsi infine in Cassazione. Tornai a fare il parlamentare e arrivò l’arresto. Fui assolto nel ’94, ma mi rimase come marchio la condanna per detenzione di esplosivo».

Ha mai incontrato i familiari delle vittime della strage del 904?
«No».

Cosa direbbe oggi loro?
«Che non so chi sia stato a compiere quell’eccidio. Ma che non potrei dormire la notte se avessi la responsabilità di quanto accaduto nell’84. Sono stato e sarò sempre un fascista, ma non uno che piazza le bombe sui treni mietendo vittime innocenti».