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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

UN ‘ANTIDIVO’ CONTRO I PADRONI


[Elio Germano]

È stato il «Sorcio» in Romanzo criminale di Placido, ma anche un giovane carabiniere in servizio a Lampedusa in Respiro di Crialese. Il coatto raccontato da Veronesi in Che ne sarà di noi e il «matto del paese» per Salvatores in Come Dio comanda. La fama è arrivata grazie al ruolo del fascista Accio in Mio fratello è figlio unico e a La nostra vita di Luchetti, per cui è stato premiato come migliore attore al Festival di Cannes 2010. Nel suo curriculum ci sono inoltre Quo Vadis Baby, N (Io e Napoleone), Tutta la vita davanti, Diaz, Magnifica presenza, L’ultima ruota del carro... Il giovane favoloso di Mario Martone, in cui interpreta Giacomo Leopardi, è la consacrazione definitiva – sempre che ne avesse bisogno – di uno dei migliori attori italiani dell’ultima generazione (e non solo), che a 34 anni ha già conquistato sia i favori della critica che quelli del pubblico.
Elio Germano è anche conosciuto per il suo impegno sociale e politico, per le lotte concrete combattute in prima persona, per il teatro Valle e i cinema Volturno e Palazzo a Roma, per il gruppo Artisti 7607, che ha scoperchiato il pentolone dell’Imaie.
Ce ne parla in questa intervista, in cui racconta il suo lavoro, il suo attivismo, il mondo per nulla dorato del cinema italiano, le battaglie di chi crede nella giustizia e nella cultura indipendente.

Il «suo» Leopardi ha convinto tutti. Ci vuole raccontare come si è preparato per questo ruolo così rischioso e complesso?
In Italia c’è un grosso misunderstanding sul lavoro dell’attore che deriva dalla nostra scuola, dalla storia del mestiere. Già la parola italiana «recitare», se la si pensa accostata a «play» o «jouer», ti racconta altro. Etimologicamente è re-citare, citare nuovamente: si riferisce alla necessità di leggere ad alta voce le citazioni in sede processuale; la bella voce che citava gli atti in modo chiaro, stentoreo, pulito. Quindi una grande attenzione alla forma, un ascolto di se stessi, una visione dell’attore che è più vicina al canto, al saper «dire bene» le cose, piuttosto che al giocarle, esserle, agirle, dalla voce del verbo latino agere, propria dell’attore.
Il mio percorso, invece, segue da un po’ di tempo quest’altra modalità, la reputo più interessante nella sua imperfezione e complessità. È mostrare un mistero invece di una sicurezza. Se per raccontare un determinato personaggio devo impostare quella faccia con quel tono, sto facendo il tipico lavoro del teatro, nell’idea di un teatro di rappresentazione. D’altra parte la nostra scuola parte dalla maschera. Anch’io ho cominciato così. Ma nel mio percorso professionale mi sono reso conto di voler andare in quell’altra direzione.
Se scelgo di recitare una battuta in un certo modo, con la mia volontà schiaccio le possibilità che sono in quella battuta, in quell’atto scenico, in un’unica direzione, che è quella giusta «per me», precludendo le altre possibilità, tutta la comunicazione involontaria, che è molto più ricca proprio grazie all’errore. Si tratta di mettersi nel flusso delle cose.
Cerco così di «accendere» il personaggio, mentre gli sta accadendo qualcosa, dimenticando il meccanismo cinema. Rimettere in vita, rientrare in quel mistero. Si parte dalla costruzione di un personaggio, dal suo passato, per riuscire poi, nel susseguirsi degli eventi, a farli accadere lì. Per mostrare qualcosa che non ti aspetti, che passa tramite te. Per fare questo, l’attore deve rinunciare alla supponenza del demiurgo, che sicuramente da più soddisfazione, è più masturbatoria, perche «sono io che l’ho fatto».

Le poesie, in Il giovane favoloso, non sono «dette» o «recitate», sembrano quasi create in quel momento, un’incarnazione in quell’attimo delle emozioni, le visioni, le idee di Leopardi.
In un film esistono sempre delle battute da recitare, ma non sai mai come le dirai. Non c’è un lavoro a casa di preparazione del tono giusto o del gesto migliore. Lo stesso vale per la poesia; ciò che mi interessa è ricondurla alla vita. Perché Giacomo dice ad alta voce quel che ha scritto? Bisogna partire dalla comprensione delle sue affermazioni e anche il senso di ciò che non è scritto. Un conto è farlo per bearti di come l’hai scritta bene, un altro se la dici per ricordarla o perché sei incazzato. Ogni cosa che ci metti dentro fa uscire un altro mondo. La poesia è uno strumento, non è niente in sé, è il mondo che c’è dietro che la riempie. Molte poesie le abbiamo girate in momenti diversi, e ogni volta si accendeva un mondo diverso per cercare di viverci dentro, trovare un rifugio dal mondo reale, scoprire o mantenere uno stupore... D’altra parte non sarei neanche capace di fare il fine dicitore.

Sono svanite anche le perplessità iniziali per I’accostamento tra Giacomo Leopardi ed Elio Germano, «l’antidivo», il «ribelle». Guardando il film, abbiamo scoperto un Leopardi ribelle e anticonformista.
Che io venga etichettato come un ribelle, un anticonformista, già mi dà fastidio... anche perché non è vero, anzi ho scelto questo mestiere proprio per codardia, per scappare dalle definizioni. L’attore ti permette di essere tante cose, sia a livello professionale che umano. In questo forse ho riconosciuto una somiglianza con Leopardi: lui non sopportava che la gente lo schiacciasse in una definizione. Perché la definizione taglia la complessità dell’essere umano. E lo stesso discorso che facevo prima con l’interpretazione. La bellezza del mestiere dell’attore sta nel riuscire a mantenere una certa liquidità, un essere informe, che consente di prendere la forma del personaggio. Ed è questo il modo in cui ho interpretato Giacomo Leopardi: questa cosa l’ho letta nei suoi scritti, l’ho riconosciuta, proprio perché mi riguarda, e quindi io la guardo e lei mi ri-guarda.

Visto che le danno fastidio le definizioni, ne ho messe insieme un po’ di quelle che ricorrono associate alla sua persona sulla stampa italiana: grintoso, talentuoso, vero (trovato spesso), eclettico, insolente...
Questa è bella.

... carismatico, antidivo sfrontato...
Questo non so neanche cosa significa.

... il Robert De Niro italiano, comunista, impegnato...
Impegnato mi ricorda il Monte dei Pegni, poi arriva qualcuno e mi riscatta.

Tutti ricordiamo la sua dichiarazione dopo il premio come miglior attore a Cannes nel 2010 per La nostra vita, quando ha dedicato il riconoscimento «all’Italia e agli italiani che fanno di tutto per rendere il paese migliore nonostante la loro classe dirigente».
In realtà si trattava semplicemente di una dedica a chi aveva lavorato con me. Il cinema è ancora un lavoro collettivo, fatto da una comunità di persone. E anche la performance dell’attore dipende da questo collettivo, soprattutto quando viene fatto un lavoro di qualità e si crea un certo ambiente. Se tu puoi compiere alcune azioni è perché hai intorno delle persone che ti permettono di farlo, è una questione di atmosfera, di possibilità, di tempo, di calore, di rapporti, di qualità tecniche.
Ma sono i lavoratori, non i datori di lavoro, che rendono possibile ciò. Quindi io volevo ringraziare tutte le persone che avevano reso possibile il mio lavoro, mettendo in chiaro che non sono le stesse che poi prendono i profitti. Tale discorso vale un po’ per tutti i mestieri: tanta gente si rimbocca le maniche per profitti che vanno ad altri, che magari guadagnano facendo meno.

Di fatto quella dichiarazione ha confermato I’immagine che molti hanno di lei. Abbiamo impressa nella mente la sua foto al festival di Venezia col pugno alzato.
È un episodio significativo del modo in cui cercano di schiacciarti in una definizione. Sono arrivato a Venezia, sette ore di saluti, poi una persona mi ha detto «In bocca al lupo», io ho stretto il pugno e ho risposto: «Daje!», e sono partite mitragliate di flash. Figuriamoci se arrivavo con la kefiah che succedeva! A me va benissimo, per carità, mi fa pure piacere che mi fotografino col pugno alzato, ma mi inquieta quel che ci costruiscono intorno. Ansa e la Repubblica mi hanno definito «attore postcomunista» e dopo 10 minuti Il Giornale scriveva in prima pagina di «questi attori che per lavorare...». Mi fa impazzire la dietro-dietrologia per cui le tue scelte sono solo per ingraziarti chissà chi. Anche perché certe scelte sul lavoro, in realtà, le paghi. In quel frangente avevo la maglietta degli Artisti 7607: è una questione su cui abbiamo subito minacce vere. Rompiamo le palle con attività che vanno contro certe lobby del potere. In passato alcuni produttori hanno mandato lettere per dire che non avrei più dovuto lavorare, con nessuno. Una lettera dieci anni fa era arrivata anche alla mia agenzia.

Vuol dire che le sue idee le procurano problemi nel lavoro?
Per fortuna e purtroppo, il business è una questione di giochi di potere e quindi finché porto soldi posso permettermi di scegliere... Però, di certo, non sono uno che accetta qualsiasi condizione. Soprattutto se mi capita di lavorare per alcune produzioni nelle quali si ragiona «a pacchetto», per cui cercano l’attore protagonista che attira visibilità e permette di avere i soldi, e poi sottopagano gli altri. Il produttore oggi non è più quello che finanzia i film di tasca sua, è colui che va a caccia di finanziamenti. È la nuova economia! Il grande paradosso di questo momento storico è che il lavoratore deve andare a prendere per le orecchie il datore e dirgli: «Voglio lavorare di più! Potrei fare meglio!». Succede in tutti i settori, compreso il cinema.

È possibile sottrarsi ai meccanismi del business? Magari scegliendo l’autoproduzione?
Un film costa almeno 500 mila euro e il film esiste nel momento in cui c’è una distribuzione. Ottenere una distribuzione vuol dire avere dei rapporti. E comunque io non sono un regista ma un attore, il che è molto diverso. L’attore è un lavoratore, è un operaio del cantiere, non è il direttore dei lavori. Io presto la mia opera. Il problema, semmai, è che non posso svolgere il mio lavoro come vorrei. La percentuale di lavoro che posso fare è bassissima nel contesto di un film. In compenso i datori per la maggior parte sono persone nate e cresciute dietro una scrivania, su una poltrona girevole. Il loro business non è sulla qualità, che spesso nemmeno sono in grado di riconoscere, ma sul risultato del primo week-end, sul pacchetto che funziona oppure no solo dal punto di vista della sua vendibilità immediata.

I suoi colleghi sono consapevoli di ciò?
Io posso esprimermi liberamente perché sono in una fase di «comodità» (il nostro lavoro alterna momenti di disperazione a momenti di tale comodità). In questo momento lavoro, vado di moda, e questo mi inserisce in dinamiche e rapporti che il 90 per cento dei miei colleghi non conoscono, perché sono schiacciati dalla necessità di lavorare. Qualche giorno fa, per sbaglio, ho acceso il televisore non lo faccio mai e ho visto una serie con tanti miei colleghi bravissimi, che stimo. Ero disperato nel vederli ridotti a fare quella roba, perché non c’è nient’altro, perché non c’è neanche qualcuno in grado di riconoscere quanto sono bravi. E non voglio parlare delle paghe...

Le è mai capitato di rifiutare una parte perché la considerava politicamente scorretta?
Il film è una cosa che bolle, che non ha solo un senso. E a me piace la provocazione: io farei una pellicola sul nazismo visto ad esempio dalla loro parte, perché mi sembra più interessante di un film di condanna nel quale si ribadisce la mostruosità del nazismo. Bisogna cogliere ciò che eccita, scuote, altrimenti quella cosa non la capiremo mai.
La scelta politica non sta tanto nel tema del film, quanto nel collettivo che c’è dietro, il posto di lavoro. Cosa ha di brutto la televisione? Spesso alla gente che ci lavora non importa niente di quel che sta facendo: esiste una dimensione seriale per cui le azioni si susseguono e nessuno quasi mai legge il copione. Non c’è un sano ambiente di lavoro, anche se magari gli stipendi sono più alti. Ecco il paradosso: più soldi ci sono più si abbassa l’interesse per quello che si sta facendo.
Io cerco di capire se il regista sta ideando quel film perché vuole lanciare un messaggio o se ha una convenienza nel farlo; se la produzione ha intenzione di promuovere quel film veramente oppure lo vuole utilizzare per scaricarci le tasse. A volte capita anche di avere dei dubbi sul personaggio e sul senso della cosa. È successo con Mio frateilo è figlio unico. Giudicavo molto il mio personaggio, Accio, il fascista, mi sembrava uno scemo. Fino a quando il regista Luchetti ha trovato l’altro protagonista, quello che interpretava Accio da giovane: ho visto questo ragazzino di 13-14 anni intelligentissimo, vispissimo, sensibile, che faceva il saluto romano, credendoci a modo suo, e ho intravisto una possibilità, ho compreso come avrei potuto interpretare il personaggio. Ma era una questione professionale, non politica. Molto spesso il mio lavoro consiste nel mettersi nei panni di uno, più che recitare. Un’esperienza che arricchisce molto. Si tratta di riuscire a immaginare come saresti stato se fossi cresciuto in quel posto, con quei genitori, in quell’epoca.

Quello che sta descrivendo è un conflitto tra capitale e lavoro. Conflitto che peraltro vediamo in azione in tanti ambiti, anche nel nostro mondo, quello del giornalismo. E invece solitamente si ha un’idea del cinema come ambiente ovattato, fantastico.
Il cinema è un lavoro di professionalità, di artigianato. Ci sono i macchinisti, gli elettricisti, i truccatori, i fonici, gli arredatori, i costumisti, tutti artigiani con competenze enormi. Competenze che purtroppo vengono usate sempre meno, nel senso che ci sono sempre meno mezzi, si ragiona a pacchetto, e queste professionalità sono scarsamente utilizzate. I salari sono scesi tantissimo. Per quanto riguarda gli attori, poi, la competenza è difficilmente riconoscibile. Di fatto in molti prodotti seriali troviamo delle «facce parlanti» che possono essere sostituite a piacere, con l’attricetta, il fidanzato, i personaggi famosi.
È un territorio difficilmente amministrabile, in cui cioè è difficile pensare a regole che facciano giustizia. Cosa puoi fare, dei bandi? La capacità in quel caso non si misura con gli anni di scuola o con il curriculum. Devono essere fatte delle scelte soggettive. E così capita che ci siano attori che ormai vanno a lavorare praticamente gratis.
Oltretutto la nostra categoria, a livello fiscale, è equiparata a chi ha una pizzeria. Per non parlare del fatto che un attore paga più del 40 per cento di tasse. Perché può capitare di fare mille euro in una giornata, e quindi hai un’imposta altissima, anche se magari lavori solo sei giorni l’anno.
Non abbiamo la partita iva da «artista» ma da lavoratore autonomo qualsiasi. Il problema è che una pizzeria compra il pomodoro, la mozzarella, la farina, scala quello che ha comprato e poi paga le tasse solo su quello che ha guadagnato meno quello che ha speso. Ma l’attore che cosa spende, cosa compra per il suo lavoro? Quindi paga le tasse su tutto, famoso o non famoso. In più quando finisci l’ultimo ciak il tuo stipendio l’hai preso. Anzi, l’ultima rata ora te la danno quando finisci la promozione. Il film può andar bene o andar male, ma il tuo rapporto di lavoro è finito. Quando poi il film va bene ed esce in edicola col tuo faccione in copertina, tu non ne ricavi nulla. Va tutto agli autori, ai produttori e ai distributori. Ripeto, a me in questo momento va bene, ma non è stato sempre così.

Nel suo mondo è una specie di sindacalista?
Per carità, non ne sarei capace. Il sindacato degli attori poi non è presente sul set almeno da vent’anni, da quando i set li frequento, a differenza di quanto accade nelle altre categorie. Io tutte le informazioni che ho sugli orari di lavoro, o su come devono essere gestiti i rapporti con il datore di lavoro, le ho imparate stando sul set. Nessuno mi ha mai spiegato nulla, nessuno mi ha mai difeso. Semmai ho scoperto che purtroppo qualcuno, nei nostri sindacati di categoria, ha creato problemi piuttosto che risolverli.
Motivo per cui noi dell’associazione Artisti 7607 abbiamo deciso di fondare una cosa che però non voglio definire sindacato, e che potrei chiamare «risposta orizzontale». È successo che alcuni attori hanno cominciato a fare rete, condividendo informazioni e dando una risposta orizzontale a certi problemi.

Ad esempio sulla questione dell’Imaie?
Nessuno sapeva niente dell’Imaie. Era un mondo misterioso. C’erano corporazioni così forti da rendere impossibile anche solo ricavare delle informazioni. Ma, ad esempio, abbiamo scoperto che l’Imaie era una struttura creata dai sindacati. È un istituto che gestisce i diritti connessi al diritto d’autore. Quando un attore, o un musicista, o un ballerino, interpreta in televisione qualcosa che è protetto da un diritto d’autore, crea un flusso di soldi, e un po’ di quei soldi vanno o dovrebbero andare oltre che agli artisti che hanno creato le opere, anche a chi le ha interpretate.
L’Imaie è una struttura che gestisce soldi privati e dovrebbe svolgere il semplice compito di collettore, ricevendo i soldi generati dalla televisione per poi ridistribuirli a chi ne ha diritto. Sotto la supervisione dei sindacati. Questa Imaie per del tempo ha gestito effettivamente, non si sa come, una montagna di soldi privati, fino a che qualche anno fa è stata chiusa dal prefetto con 130 milioni di attivo, perché quei soldi, a quanto pare, non venivano dati. Si pensava che lo scandalo fosse legato al fatto che c’era gente che fregava i soldi all’Imaie. Invece lo scandalo vero è che l’Imaie non riusciva a rintracciare le persone e quindi non distribuiva i soldi agli aventi diritto. Al di là di quello che è successo di illecito, e che spero presto verrà alla luce, la cosa più grave è che i nostri colleghi spesso non sapevano nemmeno di aver diritto a quei soldi. Sono soldi scaturiti dalla prestazione lavorativa di una singola persona fisica. Non si tratta di soldi pubblici, tanto per intenderci.
La responsabilità della mancata comunicazione per me è completamente dei sindacati, anche perché l’Imaie è stato fondato e gestito dalle tre principali sigle sindacali. Mentre per quanto riguarda la responsabilità dei soldi che sparivano, sarà la magistratura a indagare. Siamo stati noi Artisti 7607 spesso a comunicare cosa fosse l’Imaie. Ancora per molti non è chiaro cosa siano i diritti connessi: chiunque abbia fatto mezza parte su qualcosa che è andato in tv ha diritto a quei soldi, perché vengono emessi e c’è qualcuno che li prende per lui. Quindi bisognerebbe andare a bussare a quella porta e dire: quei soldi che hai preso per me, me li dai? Questo non è avvenuto con la vecchia Imaie. Noi abbiamo fatto una vertenza che non finisce più e abbiamo fondato una società di colleghi. Non sembra una cosa difficile prendere i soldi e distribuirli. Volevamo farlo da soli. Ma ci dicevano che non fosse possibile. Ci sono state denunce, querele e tanti problemi, una lunga battaglia contro i poteri forti, quelli veri. Adesso invece ce l’abbiamo fatta, siamo partiti. Per quello avevo la maglietta a Venezia.
Ma dico, abbiamo fatto un casino per il Fus, il Fondo unico dello spettacolo che riguarda gli enti lirici, i teatri, la danza e tutto il resto, per 70 milioni di euro, e qui parliamo di 13O milioni solo nel momento in cui è stato chiuso l’Imaie. È una cosa scandalosa. Chi se li sta mangiando questi soldi? Perché hanno distribuito soldi a questo o quell’altro, in modo forfettario, senza regole? Ci stiamo mettendo in mezzo a un meccanismo che chissà cosa nascondeva. Parliamo di soldi veri, che potrebbero diventare la pensione per gli attori che non ce la fanno, un mutuo per sostenere chi è in difficoltà, la creazione di spazi, teatri, cinema, produzione... Senza bisogno di usare le accise sulla benzina. Sono soldi nostri, che produciamo noi, e li vogliamo.
La nostra è una società cooperativa e ormai siamo in tanti. Il criterio di lavoro è quello che abbiamo già sperimentato in tanti ambiti del vivere sociale, e in tante altre vertenze, ed è sostanzialmente quello di rispondere alle esigenze non per rappresentanza ma in una forma diretta. Il rapporto è orizzontale, non verticistico. E non siamo grillini.

Ultimamente c’è chi ha associato il suo nome al «movimento». La gente mi identifica in continuazione. E spesso sono cose in contraddizione tra loro. Di certo, comunque, non mi sono mai riconosciuto in Beppe Grillo, che mi sembra un fenomeno pericoloso.

Addirittura pericoloso?
Per l’individualismo che porta con sé. Sono tanti gli spazi e diverse le realtà in cui da sempre si decide in forma assembleare. Spesso si cerca di eliminare anche la votazione, per arrivare il più possibile a una decisione unanime, perché ogni scelta sia la più condivisa. L’«uno vale uno» non è un’invenzione grillina: il pericolo è rivendicare alcuni temi e poi fare il contrario con pratiche che vanno in tutt’altra direzione. Viviamo in un periodo storico pericoloso. E a me non fa paura né Grillo né il militante del M5S, anzi ha raccolto tanti bravi attivisti, quelle persone operose a cui ho dedicato il premio a Cannes, gente che si mette a disposizione. Ho timore per certe derive. Ad esempio, il cercare consenso prendendosela con gli immigrati. Ma anche le scelte verticistiche, per cui c’è uno che sa cos’e giusto e tutti gli altri sono coglioni. Mi sembra paradossalmente molto più democratico il Pd, dove almeno ci sono delle correnti una contro l’altra, anche ora con Matteo Renzi, il più ego-riferito. Non mi sono mai riconosciuto nel Pd, ma lì almeno sembra esserci una discussione interna.

Sta diventando renziano? E anche molto duro con i sindacati...
Non scherziamo, lui li attacca perché fanno troppo, non perché fanno troppo poco! Inoltre non attacco i sindacati in generale, attacco semmai quelli della mia categoria perché sono stati assenti! Comunque il problema è un altro. Noi abbiamo vissuto una deriva culturale che riguarda tutti e c’entra fino a un certo punto il berlusconismo, c’entrano piuttosto gli Stati Uniti d’America, mi verrebbe da dire, è una cosa un po’ più ampia, globale. Esiste uno scollamento dal lavoro, qualsiasi lavoro sia. Oggi conta solo come li presenti. Il produttore fa carriera non facendo il suo lavoro, ma cercando i soldi, stando al telefono, parlando bene, andando alla cena giusta. Oggi un regista se non è uno paraculo, che sa parlare, che sa sorridere, il film non lo fa. Se è una persona timida, super-sensibile, il film non lo fa. Poi tra i paraculi c’è chi sa fare cinema e chi no. Però già questo taglia fuori una bella fetta di persone.
In altri ambienti lavorativi succede la stessa cosa. Pensiamo invece a come era una volta, alla nostra storia. Mazzini era pieno di problemi; quando parlava Garibaldi ridevano lutti perché faceva degli svarioni grammaticali; Cavour era balbuziente e dislessico. Ma potremmo anche parlare di Manzoni, gli attacchi di panico praticamente li ha inventati lui.
Perché li studiamo ancora oggi? Perché erano bravi e riuscivano nel loro lavoro, non perché «ci sapevano fare». Un politico, un amministratore, deve essere cresciuto magari chino sui libri, e quindi lo capisco se si intimidisce quando deve parlare, se balbetta. Pensate invece ai politici di oggi, agli autori di bestseller di oggi, per dire. Questo dramma è avvenuto in tutti gli ambiti lavorativi. Chi ha fatto carriera ha smesso di essere una persona che conosce il suo lavoro, gente che spesso veniva scartata perché non simpatica, non spigliata, perché non aveva la battuta pronta. Hanno fatto carriera i rampanti.

Renzi è fra questi?
Sì, e tra questi. Ma è tutta la classe dirigente a essere sbagliata. Perché l’apparenza ha contato più della sostanza. L’idea della vita come rappresentazione. Per questo dico che è una cosa «all’americana». Noi abbiamo sempre apprezzato il politico che sa parlare bene.
Perché ad esempio ho sostenuto l’outsider Sandro Medici come sindaco di Roma? Perché può darsi pure che «si impiccia» quando parla in pubblico. Ma faceva parte di un bel progetto collettivo e aveva già dimostrato di essere un ottimo amministratore. Non è uno di quelli che hanno fatto carriera perché hanno la battuta pronta.
Per questo mi fa paura Renzi, oltre a Grillo e tutti questi. Perché si sono fatti forti di una «simpatia», di un «appeal»; ma la vita reale purtroppo è da un’altra parte. lo voglio che a dirigere l’ospedale non ci sia uno simpatico e bravo nel marketing, preferisco uno stronzo che sa fare il suo lavoro, che ama la medicina, anche se ha la forfora e gli puzzano le ascelle, uno brutto ma sensibile. Al primo posto ci dovrebbe essere l’amore per il proprio lavoro, l’essere una persona che pensa agli altri piuttosto che al proprio tornaconto personale.
Il fatto che la politica oggi si faccia nei talk-show è assurdo e pericoloso. Ormai siamo convinti che sia quella la zona deputata alla politica e invece un politico è un amministratore, è una questione di carte, di gente china a studiare, innanzitutto. Non mi interessa come parlano. Forse questa cosa era già cominciata ai tempi di Berlinguer, lui era uno che parlava molto bene, ma lo vedevi che per i canoni estetici televisivi era tutto «sbagliato», ciò che colpiva era la sua umanità, l’amore per il suo lavoro.
Oggi in ogni mestiere la gente sta a pensare a come rappresentarlo, piuttosto che a come farlo. E io che faccio l’attore me ne rendo conto in modo particolare. Perché quando gli allori fanno la rappresentazione degli attori, la cosa diventa esponenziale e in un certo senso interessante.

Come si coniuga il suo essere un attore famoso coi centri sociali, l’attivismo dal «basso», il teatro Valle, il cinema Volturno a Roma?
L’attore è un mestiere come tutti gli altri. E in ogni caso lo sono diventato dopo, anagraficamente parlando. Da sempre mi riconosco in quella diversità di approccio alla vita. La possibilità di frequentare degli spazi in cui non si debba per forza vendere o comprare qualcosa per essere qualcuno. Dove ci si possa parlare tra persone, semplicemente. Cultura secondo me è questo. Vuol dire discutere, incontrare gente che ti racconta il suo mondo. Tutto questo purtroppo è sempre meno possibile.
I lo cominciato a frequentare questi spazi non per chissà quale coscienza politica, ma perché potevo essere compartecipe di questi spazi. Potevo stare lì senza essere un cliente. Crescendo ho capito che il piacere che mi dava questa condivisione è il piacere dell’umanità che abbiamo perduto, quello che le città e il mercato ci hanno tolto, perché non ci fa relazionare tra esseri umani ma tra clienti e venditori. Una cultura del sospetto, in cui tu hai qualcosa da proteggere e un altro ha qualcosa da rubarti.

Lei è tra i protagonisti dell’occupazione del cinema Palazzo, nel quartiere San Lorenzo di Roma, dove qualcuno voleva costruire un casinò. Ha dovuto portare avanti anche atti di disobbedienza, azioni illegali. Che rapporto ha con la legalità?
In Italia abbiamo un problema molto grave, c’è una grossa ipocrisia. Per alcune cose siamo un paese senza leggi, per gli abusi edilizi, per le speculazioni, per tutti quegli ambiti in cui c’è un interesse privato di una persona molto potente; in quel caso scompaiono tutte le regole. Però vogliamo essere molto rigidi e amanti delle regole, quasi svizzeri, con le persone più deboli. Più l’infrazione è minima, più la legge è fiscale. Questa è l’ipocrisia che va superata. Io invece vorrei il contrario, una grande severità contro chi infrange la legge per speculazioni private, chi usurpa un ambiente collettivo, chi fa un palazzo su una scogliera, chi vuole prendersi un cinema o uno spazio pubblico per farci un supermercato o un casinò.
Cosa diversa è infrangere la legge per un’occupazione, per un atto simbolico, in cui ti fai carico della collettività, e vuoi cambiare qualcosa non per un tornaconto personale. Faccio la manifestazione per delle cose in cui credo, perché possano stare meglio una serie di persone in difficoltà, non la faccio per avere io una casa o una Bmw.
Vorrei che lo Stato non finanziasse una droga pesante come il gioco d’azzardo. Oggi si vedono tutte queste trasmissioni televisive che spingono a giocare. Per noi che siamo stati educati al pericolo delle droghe pesanti è come se un giorno facessero una pubblicità sull’eroina che fa bene, dopo aver specificato che crea dipendenza.
A me interessa la legittimità più che la legalità, mi interessa la giustizia. Per me è illegale il gioco d’azzardo di Stato, è una cosa schifosa e pericolosa. Mentre se qualcuno che non ha una casa ne occupa una abbandonata, per me fa una cosa sacrosanta, perché ci sono delle speculazioni dietro, ci sono centinaia di case vuote, palazzi abbandonati, e non vedo perché la gente debba stare sotto i ponti.
Le occupazioni illegittime sono quelle delle amministrazioni che mettono ad esempio amici degli amici, spesso totalmente incompetenti, a dirigere degli spazi pubblici, e poi invece quelli fanno gli affari loro, seguendo i propri interessi.
La gente che si riprende uno spazio collettivo non fa un’occupazione, quella semmai è una restituzione, una riappropriazione, una liberazione.

Cosa ne pensa della giunta Marino, soprattutto dopo lo sgombero del Valle?
Pensavo che all’interno della giunta ci fossero persone che potevano fare la differenza, ma non ho mai avuto chissà quali speranze su Marino e non l’ho certo votato.
Per quanto riguarda il Valle, per me in tutte le vertenze che si conducono – anche quella sul Tav, il Muos o il cinema Palazzo – la cosa più interessante non è tanto la battaglia in sé ma ciò che crea questa battaglia. E la maniera differente in cui si associano le persone. Se vai in Val di Susa la prima cosa che ti colpisce è come le persone si relazionano in maniera diversa l’una con l’altra.
Quello che faceva del Valle molto più di un semplice teatro era lo straordinario afflusso di pubblico e la relazione che quest’ultimo creava con lo spazio. Questo mettere a disposizione i propri saperi, le proprie competenze, le proprie relazioni, e fare una rete. Quello che l’Eti non ha mai fatto, per far crescere il pubblico e il teatro stesso.
Come può un’istituzione non capire questo miracolo a costo zero che è avvenuto? A livello internazionale il Valle è diventato un punto di riferimento. Ci hanno dato premi dappertutto. La cittadinanza ha riscoperto al Valle la gioia di andare a teatro, spesso senza sapere nemmeno a vedere cosa. Il pubblico lo riporti a teatro e al cinema così. Bisogna uscire dalla logica del pacchetto, per cui tu oggi devi già sapere cosa devi andare a comprare, e scegli uno spettacolo in base alla pubblicità che vedi. Oggi bisognerebbe tornare ad avere un pubblico che va a teatro e al cinema indipendentemente da quello che c’è, altrimenti uno che fa un film per la prima volta come può sperare di essere visto?

Ma si sente una persona di sinistra ?
La definizione non è così importante. In fondo è solo una posizione in parlamento. Ma sono sicuramente dalla parte dei lavoratori e non dei padroni.

Quali sono i suoi riferimenti culturali? Ci dia tre nomi.
Ci metterei sicuramente Wittgenstein, poi probabilmente Marx, e al terzo posto, non saprei. Direi Totò.

Qual è il cinema che le piace fare maggiormente?
Quello con la macchina a mano, in cui l’attore si confronta con un mondo reale, vivo, e l’approccio è documentaristico.

E quello che le piace vedere?
I film che ti portano fuori, lontano, tipo Inception. Quelli in cui il cinema viene sfruttato in tutta la sua potenzialità, come un viaggio nel quale ti perdi volentieri e dimentichi le stesso.

È d’accordo con chi ha rimproverato al cinema italiano di non aver saputo raccontare l’Italia berlusconiana?
Ma noi non riusciamo neanche a fare il nostro lavoro! Di cosa parliamo? La possibilità di fare ciò che si vuole forse appartiene a due o tre registi. Ma forse neanche a loro. Perché anche i «grandi» oggi devono fare un film partendo da un successo letterario o qualcosa del genere. Da un pacchetto. Forse se fossero liberi non lo farebbero. Anche gli sceneggiatori, oggi, come tutti, fanno due lavori: uno per i soldi e l’altro per le loro cose, quelle che amano. Per fare i soldi scrivono San Poliziotto 9 ma poi coltivano il loro sogno, la loro storia, che poi magari nessun produttore è in grado di capire.
Alcuni ragazzi hanno fatto un esperimento: hanno rimandato in giro, cambiando i titoli, i copioni di film famosi della storia del cinema, e non hanno ottenuto nessun finanziamento. Forse non erano simpatici, non erano paraculi.