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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

FRANCESCO E I SUOI COMPAGNI

Faticò non poco Francesco Rosi - divertito, lo raccontava lui stesso - per convincere Carlo Fermariello a interpretare in un film Carlo Fermariello mentre dai banchi del consiglio comunale inveisce puntando l’indice contro il sacco di Napoli. Proprio come aveva fatto negli anni devastanti del laurismo imperante. Non che lui si tirasse indietro, no di certo; era il suo partito, il Pci, a non apprezzare molto la possibile confusione tra realtà e realismo cinematografico… Alla fine, come si sa, Rosi ci riuscì, ma grazie all’intervento di Giorgio Amendola che, persuaso anche dal suo pupillo Giorgio Napolitano, dette finalmente il decisivo “visto, si giri”. Molto probabilmente “Giorgione” aveva intuito che “Le mani sulla città” avrebbe avuto un impatto dirompente (e dunque salutare) sull’opinione pubblica, ma certo non poteva rendersi conto allora che esse sarebbero diventate la metafora di una stagione, il racconto della presa di potere che cancellò definitivamente speranze e illusioni, il romanzo dello squallido intreccio tra politica, affari e corruzione che, ahimè, avrebbe presto invaso l’intero Paese. Cruda fotografia in bianco e nero di un’epoca nerissima, e tutto sommato film-simbolo dell’intera produzione di Rosi.
Lo aveva scritto insieme con Raffaele La Capria, detto Dudù, amico di tuffi nel mare di Posillipo, di studi liceali e poi di partecipazione ai Guf, i tre luoghi fisici e culturali in cui allora crebbe e si maturò una generazione di giovani intellettuali, sempre divisi tra nostalgia e sorti progressive non sempre e non proprio magnifiche; ragazzi che avevano scommesso sulla rinascita della città, ma che poi si sarebbero arresi migrando molti verso Milano o Roma - dove Rosi è morto il 10 gennaio scorso - nella speranza di testimoniare lì e con più successo il proprio impegno civile e professionale, altri restando in città ma incontrando sempre più ostacoli, difficoltà, isolamento.
Sono per lo più i figli della buona borghesia napoletana, allievi del glorioso liceo Umberto I, che negli anni del fascismo cominciano a manifestare i primi distinguo nei Littoriali o nella redazione di “IX Maggio”, la rivista della gioventù universitaria fascista le cui finestre si affacciano nel cuore della Napoli bene, tra via dei Mille e piazza dei Martiri. Discutono, scrivono e dissentono dall’interno del fascismo ragazzi dalle idee e dai destini non sempre collimanti, ma ugualmente critici e speranzosi: Renzo Lapiccirella e Massimo Caprara, Peppino Patroni Griffi e La Capria, Maurizio Barendson e Antonio Ghirelli, Rosi, Napolitano e Luigi Compagnone. Altri, come Carlo Bernari, Paolo Ricci, Guglielmo Peirce, optano invece per meno morbide forme di dissenso. Ma quando più tardi il regime si spacca e arriva la parentesi badogliana, se si escludono atti isolati e la vampata delle Quattro giornate, la Resistenza non ha il tempo né trova menti e modi per organizzarsi, crescere, mettere radici profonde come farà invece nel Nord.
Un sotterraneo fermento però è ancora vivo. E ha due grandi occasioni per manifestarsi. Nella primavera del ‘44 molti di quei ragazzi di “IX Maggio” sono ingaggiati da “Radio Napoli”, l’emittente di propaganda che gli americani aprono appena sbarcati nella città liberata: diventa per loro scuola di giornalismo, di politica, di partecipazione. Ma più o meno negli stessi giorni, mentre l’eruzione del Vesuvio diffonde sulla città e sul golfo una sottile polvere grigia, arriva a Napoli da Algeri, in compagnia di Maurizio Valenzi, il segretario del Pci Palmiro Togliatti. È pronto alla storica svolta di Salerno, ma allo stesso tempo è deciso a praticare anche nel suo partito una politica di unità nazionale, insomma allargarne i confini e stemperare i condizionamenti della vecchia guardia stalinista.
Non sorprende quindi che metta gli occhi su quei ragazzi e apra con loro un dialogo fecondo. Alcuni come Ghirelli e Caprara, che diventerà stretto collaboratore del Migliore, sono già iscritti al partito; Napolitano, che ha preparato la visita e lo ha accolto, lo farà l’anno dopo; altri, come Rosi e La Capria, non hanno né l’esprit del militante né le stimmate del comunista, ma guarderanno con interesse a quella ventata di novità e di speranza. E di grandissime novità culturali, come la nascita di “Sud”, il settimanale ideato e diretto da Pasquale Prunas che suggerirà a Elio Vittorini l’idea del Politecnico e che darà spazio a quegli stessi giovani intellettuali e scrittori e ad altri ancora come Ennio Mastrostefano, Domenico Rea, Anna Maria Ortese, Rocco Scotellaro. Molto tempo dopo Ghirelli dirà che Napoli «non è stata mai così bella come allora» e ricorderà quegli anni come «un periodo straordinario di grandi dolori e nutrito di grandi speranze».
Ma quella specialissima atmosfera durerà poco. Piano piano lo sforzo di coesione generazionale necessario a superare gli schemi tradizionali dei luoghi eletti del crocianesimo da una parte e delle sezioni dei partiti di sinistra dall’altra, consumerà il suo fallimento in coincidenza con l’acuirsi della guerra fredda. Secondo Ghirelli, attento e appassionato storico della città, il processo era cominciato già prima, quando il governo alleato lascia Napoli per proseguire la sua marcia verso il Nord non ancora liberato e nomina nei posti chiave dell’amministrazione tutti uomini del vecchio establishment. Una decisione che segnerà per sempre il destino della città (e in modi simili anche del Paese). La china è inarrestabile, i ragazzi degli anni Venti fuggono altrove, chi resta subisce gli strali della Ortese che, alla chiusura di “Sud”, denuncia «il silenzio della ragione», cioè l’inazione degli stessi intellettuali, se la prenderà con Compagnone, ironizzerà su La Capria che, disse, all’impegno preferisce restarsene nelle grotte sotto Palazzo Donn’Anna... Non è una diatriba personale, semplicemente si scontrano le due anime che caratterizzeranno sempre l’intellighentsia napoletana (all’indomani del terremoto del 1980 il sindaco Valenzi polemizzerà con «gli intellettuali acchiappanuvole»). Intanto Achille Lauro mette le mani sulla città...
Ecco, in fondo tutto il lavoro di Rosi è figlio di questa cesura, di questa dicotomia irrisolta. Alla quale il regista cerca di rispondere come può, con le armi che ha, con un realismo freddo che cancella ogni sentimentalismo, con il cinema d’inchiesta, un formidabile giornalismo per immagini con il quale via via indagherà sui grandi mali dell’Italia, sulla sua unità incompiuta, su una democrazia malata, raccontando mafia, disastro edilizio, bellicismo, gli intrecci mai disvelati tra politica e affari, il sequestro Moro. Nel 1961, mentre l’amico di sempre Dudù dà alle stampe “Ferito a morte” – nelle cui pagine, alla “bella giornata” di sole e di mare, fa da contrasto spietato l’amarezza della sconfitta e dell’inanità dell’agire – Rosi gira “Salvatore Giuliano” e prepara il j’accuse su Napoli ferita a morte dal cemento che uscirà nelle sale nel 1963. Le cifre del sacco, simile in tutto il Paese, qui fanno paura: 11mila licenze edilizie rilasciate in dieci anni, mille l’anno, tre al giorno; una pioggia di 300mila vani; anni di caos e di violenza urbanistica in attesa di un piano regolatore che poi regalerà alla speculazione 1200 ettari in città e 3mila in provincia. Le varianti urbanistiche fanno il resto. Fino alla barbarie.
La scossa è forte, l’accusa lucida e documentata, forse c’è ancora tempo per limitare lo scempio in atto o impedirne di nuovi. Ma così non sarà. L’assalto proseguirà. Allora, rinunciare? Prendere atto che l’armonia è perduta per sempre e lasciar perdere? Forse anche Rosi era pessimisticamente convinto che ci fosse poco da fare, che fosse impossibile raggiungere la Verità, che la grande occasione era stata persa proprio in quella stagione unica nella quale si era forgiato, e che il declino fosse ormai inarrestabile. A Napoli e non solo. Eppure, non si è fermato. Una lezione che non si dovrebbe mai dimenticare.