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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

ARTICOLI SULLA SVIZZERA E IL FRANCO SGANCIATO DALL’EURO DAI GIORNALI DEL 16 GENNAIO 2015


LINO TERLIZZI, IL SOLE 24 ORE -
La Banca nazionale svizzera (BNS) ha abbandonato ieri la soglia minima di cambio con la moneta unica, fissata a 1,20 franchi per un euro e in vigore dal settembre del 2011. La BNS ha anche abbassato di 0,5 punti, fissandolo a -0,75%, il tasso di interesse applicato sugli averi in conti giro, ossia sui fondi della banche depositati presso di essa. L’istituto elvetico di emissione ha inoltre nuovamente adattato verso il basso e in zona negativa il margine di fluttuazione del Libor a tre mesi, il principale tasso di riferimento del franco, che è ora compreso tra -1,25% e -0,25%: precedentemente la forbice era compresa tra -0,75% e +0,25 per cento.
Le ragioni della svolta
La mossa della BNS è giunta abbastanza sorpresa. Una decina di giorni fa il presidente dell’istituto centrale svizzero, Thomas Jordan, aveva infatti detto in un’intervista televisiva che la soglia minima era ancora assolutamente centrale e irrinunciabile. E nello scorso mese dicembre aveva più volte ripetuto che la BNS avrebbe continuato a difenderla con tutta la determinazione richiesta, anche acquistando illimitatamente divise estere. Peraltro, alcuni piccoli segnali premonitori c’erano stati, hanno fatto notare ieri analisti della piazza elvetica. Alcuni esperti avevano infatti criticato il cambio fisso con un euro che scendeva in modo sensibile. Il tetto di 1,20 franchi, deciso per proteggere le esportazioni svizzere, era inoltre stato nuovamente messo alla prova dai mercati in queste settimane. È possibili che vi siano stati recentemente nuovi acquisiti di euro da parte della BNS. E proprio gli acquisti di moneta unica in questi ultimi tre anni hanno portato le riserve valutarie BNS a livelli molti alti, difficilmente aumentabili ulteriormente. Questa può essere una delle ragioni della svolta, insieme alla recente discesa dell’euro sul dollaro e insieme al probabile varo del quantitative easing da parte della Banca centrale europea, che potrebbe indebolire ancora l’euro.
Sui mercati l’annuncio ha fatto molto rapidamente scendere l’euro e salire il franco. Poi, un parziale recupero. In serata il rapporto euro-franco era a 1,019, poco sotto i livelli pre soglia del 2011. Anche il dollaro Usa, che negli ultimi mesi aveva recuperato terreno sul franco, ieri è sceso molto ed era in serata a 0,87 franchi (contro 1,01 il giorno precedente). La Borsa a Zurigo ha subito un tonfo, sull’onda dei timori sui danni che il rafforzamento del franco potrebbe avere per l’export e per alcuni settori, come il turismo, in Svizzera. Le considerazioni sui vantaggi che un franco più forte potrebbe avere per alcuni comparti della finanza elvetica non hanno frenato i timori sull’industria di esportazione. Molte le reazioni negative delle associazione delle imprese elvetiche all’abbandono della soglia con l’euro.
«È successo quello che non doveva accadere», ha commentato un cambista interpellato dall’agenzia finanziaria awp: «Gli speculatori hanno vinto contro la BNS» e a perderci è la credibilità dell’istituto d’emissione. Un analista dell’agenzia tedesca Helaba ha detto dal canto suo che non vi saranno più nuove soglie minime, perché i mercati non avranno più fiducia nella capacità della BNS di difenderle. «Il cambio euro-franco viene lasciato al mercato e il corso dovrebbe avviarsi verso la parità», ha concluso. La BNS ha fatto sapere che l’eccessiva robustezza del franco si era in qualche modo attenuata, pur rimanendo a livelli elevati. L’istituto centrale elvetico ha anche rilevato che negli scorsi tre anni l’economia elvetica ha saputo trarre profitto dalla soglia minima con l’euro per adattarsi alle nuove condizioni. Si è trattato di una misura «eccezionale e temporanea» che ha preservato l’economia svizzera da gravi danni, ha sottolineato la Banca nazionale svizzera. In queste condizioni, secondo la BNS, il mantenimento della soglia di 1,20 franchi con la moneta unica europea non era più giustificabile.
La BNS ha anche precisato che continuerà a «sorvegliare la situazione» nella definizione della sua politica monetaria: se necessario interverrà sui mercati dei cambi. Dopo la giornata di ieri, insolita in campo elvetico e per alcuni aspetti tumultuosa, l’impressione di molti analisti della piazza elvetica è però che la BNS avrà vita più dura nel suo rapporto con il mercato. È possibile che, dopo la forte reazione di ieri, ci siano riassestamenti graduali sia per il franco che per la Borsa svizzera, ma il quadro è cambiato.
Un cambiamento che, peraltro, ha iniziato ad essere «quantificato» nel suo impatto rispetto ai dati macroeconomici. Ieri, infatti, Ubs ha pubblicato una prima prevsione di quanto l’exporto potrebbe diminuire in seguito allo sganciamento della moente elvetica dall’euro. Ebbene, si tratta di ben 5 miliardi di franchi in meno nelle esportazioni e una frenata dell’economia nel 2015.
Lino Terlizzi

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MARCO ONADO, IL SOLE 24 ORE -
Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.
Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati - non senza ragione - destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.
Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.
La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.
La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.
I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.
Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

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WALTER RIOLFI, IL SOLE 24 ORE -
È difficile dire se il cambio euro-franco svizzero sia adeguato, attorno alla parità, e soprattutto se quello tra dollaro e franco sia sensato a 0,89, che rappresenta un 13% meno del giorno prima. Di certo è che ieri, sui mercati finanziari, è stato il giorno dei paradossi.
Il primo sta negli alti lai di alcuni hedge fund che, dopo aver venduto al ribasso la valuta svizzera, si sono trovati spiazzati dalla inaspettata mossa della banca centrale elvetica: aveva promesso di mantenere la soglia di 1,2 sull’euro, lamentano i gestori, ed ora soffriamo forti perdite. Paradigmatico questo atteggiamento, perchè rivela come, dopo 6 anni di politiche monetarie non convenzionali in gran parte del pianeta, tutte suggerite e tutte a favore dei mercati, si sia perso il senso del rischio e dell’imprevisto: che invece deve far parte del gioco.
Il secondo paradosso sta nell’esuberanza delle borse europee e nell’affanno di Wall Street. La prima cosa è comprensibile; la seconda meno. Si può pensare che al Nyse gli operatori abbiano fatto i conti con qualche problema di natura fondamentale. Invece i conti li hanno fatti gli algoritmi del trading automatico attenti al cambio dollaro yen (e al carry trade che ne consegue) e perfettamente insensibili al resto del mondo.
Dicono gli analisti che da oggi in poi la Banca elvetica non comprerà più euro come aveva fatto per anni nella speranza di calmierare il cambio: perdendoci su 60 miliardi come stima Citi. Siccome acquistava Bund tedeschi e Oat francesi, ci si sarebbe aspettati che questi titoli scendessero ieri. Invece ecco un altro paradosso: sono tutti saliti, specie per le durate più brevi.
Un franco così forte, dicono Ubs e Morgan Stanley è un disastro per Paesi che, come Ungheria e Polonia, si sono indebitati pesantemente nella valuta elvetica. Difatti le borse di Budapest e Varsavia sono cadute. Ma con un dollaro che non solo s’è rafforzato sull’euro, ma soprattutto sulle valute emergenti, come spiegare la discreta esuberanza sui mercati dell’America latina o della Turchia? Insomma di quei Paesi le cui aziende si sono indebitate in dollari quando la valuta Usa valeva il 50% in meno (è il caso della lira turca o del real brasiliano). Qualche analista ha sostenuto che il terremoto elvetico è positivo per le materie prime. Non si capisce il nesso, se non per l’oro che, in tutto questo trambusto planetario, è forse l’unico “porto sicuro”.
Il guaio è che il peccato originale alla base di questo trambusto sta proprio nelle banche centrali che, con politiche non convenzionali, hanno alterato le regole di mercato e creato una guerra valutaria i cui esiti potrebbero essere peggiori di quanto si prevedesse. Paradossale che il primo scossone sia stato provocato indirettamente dalla Bce, ossia dall’ultima banca convertita alla lusinghe del quantitative easing. Ma con l’euro avviato a tappe forzate verso la parità anche con il dollaro, e con i rendimenti di medio-lungo periodo negativi per molti titoli di stato europei, quale è adesso l’utilità di un Qe?

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ALESSANDRO MERLI, IL SOLE 24 ORE -
Nel giorno in cui il franco svizzero è balzato del 30%, anche se poi ha ridotto i guadagni, e la Borsa di Zurigo ha accusato un crollo senza precedenti, il premio dell’understatement, che senza dubbio si addice a una signora, non può che andare a Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario. L’annuncio improvviso della Banca nazionale svizzera di abbandonare il tetto al cambio con l’euro a quota 1,20, annuncio che ha causato questi sconquassi sui mercati finanziari, ha creato «una certa sorpresa», ha ammesso la signora Lagarde.
La verità è che la decisione della Bns ha ripercussioni che andranno ben al di là delle seppur violente turbolenze di mercato di ieri, una giornata straordinaria sui mercati dei cambi della quale si ricordano pochi uguali fra le grandi valute, e lascia sul campo diverse vittime. La prima è la credibilità della stessa Bns. Nei giorni scorsi, il suo presidente Thomas Jordan e altri membri del consiglio avevano insistito che l’obiettivo di cambio era intoccabile e nulla faceva pensare a un cambio di regime. Il repentino cambiamento sembra essere stato determinato anche dall’imminenza del quantitative easing da parte della Banca centrale europea, che dovrebbe contribuire a indebolire l’euro e quindi rendere ancora più indifendibile la Maginot di 1,20 che la Bns ha difeso a caro prezzo dal 2011 in poi, nel tentativo di evitare una rivalutazione eccessiva nel franco, quando i capitali di tutto il mondo ne andavano in caccia.
Ora, qualsiasi cosa la Bns annunci di voler fare, per esempio interventi questa volta sul cambio con il dollaro, difficilmente i mercati le daranno credito, e quindi le sue mosse diventeranno a loro volta più costose.
La seconda vittima è l’economia svizzera. Un balzo così violento del cambio, a meno che non dovesse rientrare rapidamente, cosa di cui è lecito dubitare, non potrà non avere un impatto sull’economia svizzera: da un lato provocando una deflazione, dall’altro creando gravi difficoltà alle industrie esportatrici. Il 50% dell’export svizzero è diretto verso l’area dell’euro e comunque il franco appare destinato a rivalutarsi anche sulle altre monete. Una recessione è tutt’altro che da escludere.
Il terzo elemento sono gli spillover, le conseguenze che le decisioni di un Paese, o di una banca centrale, possono avere non solo su quel Paese, ma sui vicini, o sul resto dell’economia mondiale. Certamente vale per le prossime mosse della Bce, così come lo è stato per il tapering, il progressivo abbandono dello stimolo monetario, da parte della Federal Reserve. È un argomento al quale proprio l’Fmi ha dedicato ultimamente molte energie, e probabilmente non ancora abbastanza studiato.
Non è un caso che la stessa Fed, di solito abbastanza impermeabile a quello che succede nel resto del mondo, abbia dato pubblicamente segno di voler tener conto dell’impatto sulle sue decisioni dell’andamento dell’economia globale e di quanto queste possano a loro volta influenzare il mondo, anche perché tutto ritorna in un “loop”, un circuito non sempre virtuoso, a modificare le condizioni negli Stati Uniti. L’attenzione agli effetti di spillover, anche in contesti come il G-20, è probabilmente destinata a crescere, con quali risultati è tutto da vedere.
L’ultima lezione riguarda la possibilità di una banca centrale nazionale, anche di un centro finanziario importante come la Svizzera e con risorse notevoli, di incidere con la propria azione su condizioni esterne avverse. Soprattutto quando sono in manovra colossi come la Federal Reserve, che prima o poi nel 2015 avvierà un processo di rialzo dei tassi d’interesse, dopo aver chiuso l’esperienza Qe, e la Bce, che invece nel Qe sta entrando, con effetti ancora tutti da decifrare, ma uno dei quali sarà con ogni probabilità il deprezzamento del cambio.
Il messaggio può valere anche per chi ritiene che, per il solo fatto di poter stampare moneta con la sua banca centrale, un Paese possa conquistarsi, a dispetto del mondo circostante, crescita e stabilità. Ai nostalgici della lira, forse, servirebbe ricordare che, in un Paese come il nostro, né stabile, né solido come la Svizzera, giornate come quella di ieri i mercati potrebbero riservarne a ripetizione.

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GIULIANA FERRAINO, CORRIERE DELLA SERA -
Lo sganciamento a sorpresa del franco svizzero dall’euro, che ieri ha fatto volare la valuta elvetica lancia di fatto il Quantitative easing (QE) in Europa, cioè l’acquisto massiccio di titoli di Stato che la Bce dovrebbe votare già giovedì prossimo per combattere il rischio deflazione. E questa prospettiva, data ormai per certa dagli investitori, ha indebolito ulteriormente l’euro, che ha toccato un nuovo minimo storico a 1,1567 dollari, salvo risalire sopra quota 1,16 in serata.
Ieri la Banca nazionale svizzera (Snb) ha tolto il tetto di 1,20 al cambio tra franco ed euro, messo nel 2011 in piena crisi dei debiti sovrani, per impedire alla divisa elvetica di rafforzarsi troppo, danneggiando la competitività dell’economia svizzera, e ha portato il tasso benchmark a -0,75% dal precedente -0,25%. Due mosse che hanno stupito i mercati e hanno fatto subito schizzare verso l’alto il franco, salito di oltre il 30% sull’euro, fino a 0,8544 dal precedente 1,2010. Però con il passare delle ore il cambio ha cominciato a recuperare stabilizzandosi intorno alla parità. Verso le 21.30, il cambio era a 1,01 (+16%) sull’euro, e 0,8704 sul dollaro (+14,56%), mentre la Borsa di Zurigo chiudeva a -8,67%, ma a un certo punto era arrivata a perdere il 12%, con beni di lusso e banche a picco.
L’inversione a U della Snb, che all’inzio dell’anno aveva ribadito l’importanza del tetto sul cambio con l’euro, definendolo una pietra miliare, è stato un choc per tutti. «L’azione della Snb è uno tsunami per l’industria che esporta, per il turismo e infine per l’intero Paese», ha affermato Nick Hayek, Ceo del gruppo di orologeria Swatch, che ieri sul listino di Zurigo ha ceduto il 16,35%. Per James Stanton, capo dei cambi di deVere Group, una delle maggiori società di consulenza finaziaria, si è trattato di soprattutto di «panic selling», perché «una banca centrale non agisce in modo così drammatico molto spesso», perciò «ha colto di sorpresa i mercati», prevedendo «più volatilità nel breve periodo», con un cambio che alla fine si assesterà «intorno alla parità».
Perfino Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario, è stata colta in contropiede, ma la sua sorpresa è soprattutto di non essere stata contattata prima».
Il presidente della Snb, Thomas Jordan, però ha difeso la decisione: «Meglio agire ora che fra 6 o 12 mesi, quando sarebbe più doloroso. Se si è deciso di abbondare una certa politica, bisogna prendere di sorpresa i mercati», ha spiegato. Ma la scelta di intervenire giusto una settimana prima della riunione della Bce, il 22 gennaio, ha alimentato la speculazione che lo schema di QE messo a punto dal presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, sarà così ampio che la Snb avrebbe avuto grandi difficoltà a difendere il franco. Con il rischio di pagare a caro prezzo il progressivo indebolimento dell’euro, di cui ha accumulato grandi riserve. Ci credono anche le Borse, tutte positive tranne Atene (ma è un’altra storia), con Milano migliore listino continentale (+2,26%).
Insomma, una scelta inevitabile che gioca d’anticipo sul QE dell’Eurotower. Con buona pace del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, contrario a ogni ipotesi di acquisto di bond. «L’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea ha sottolineato che l’involucro giuridico della Bce è fuori discussione, il che significa che oltre al divieto di finanziamento monetario, la Banca non può perseguire una politica economica», ha detto ieri.
Le strategie monetarie dividono: alcune stazioni di servizio svizzere ieri non accettavano euro, mentre è stata segnalata una corsa ad accaparrarsi franchi agli sportelli di banche e ai bancomat.
Giuliana Ferraino

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GIOVANNI STRINGA, CORRIERE DELLA SERA -
«Isola dell’instabile sicurezza» è il titolo di un recente libro sulla Svizzera, con un doppio senso dell’assurdo e, insieme, una decisa dose di realismo. Anche se parla del Paese ai tempi della prima guerra mondiale, il testo — di Georg Kreis, pubblicato dall’editore della Neue Zuercher Zeitung — ha un titolo che si ripropone in tutta la sua attualità oggi. L’unica sostanziale differenza: cento anni fa Berna era circondata dalla tempesta della guerra, oggi da quella della finanza. Questo è il senso del termine «isola» applicato alla Svizzera, lontana da ogni mare ma vicina a tanti portafogli.
Eccoli, i soldi, i miliardi e miliardi decollati dall’estero e atterrati tra Ginevra, Zurigo e Lugano in tanti decenni: la solidità politica e finanziaria del Paese ha fatto da calamita a un notevole flusso di capitali stranieri, puliti o in nero, dichiarati o evasi, attratti dalle competenze finanziarie o dal segreto bancario. Ma adesso, si potrebbe dire, il troppo ha iniziato a «stroppiare». Le tante certezze dentro i confini e la troppa instabilità fuori hanno fatto schizzare il franco sempre più in alto e per Berna è diventato sempre più difficile gestire i frutti del proprio successo. Così la sicurezza si è fatta instabile, il tetto al cambio euro-franco è saltato, la valuta nazionale ha guadagnato in pochi minuti più del 30%, e l’export e il turismo si sono trovati di fronte le fragilità di uno dei Paesi più solidi, ricchi ed efficienti del mondo. Cento anni fa gli svizzeri erano riusciti a lasciare il Paese fuori dalla guerra, ora stanno cercando di sfuggire ai contraccolpi della crisi dell’unica moneta con cui confina il loro franco: il nostro euro.
Ma il puro fronte valutario non è l’unico su cui è impegnata Berna. Un anno prima dell’introduzione della soglia al cambio euro-franco, nel 2010 valicava il confine il primo cd contenente dati di risparmiatori stranieri con un conto nelle banche in Svizzera. Mittente: Hervé Falciani, ai tempi informatico della Hsbc di Ginevra. Destinatario: il governo francese. Da allora è iniziato un «traffico» di cd — zeppi di informazioni, nomi e importi — che ha alzato il velo su tanti patrimoni nascosti o scappati in punta di piedi tra i caveau di diversi istituti della Confederazione. Alcuni dischi hanno attraversato il Reno, in direzione Germania, e alcuni Land tedeschi avrebbero acquistato il materiale — raccontano le cronache locali — anche in queste ultime settimane. Già, anche dopo l’annuncio con cui la Svizzera si è impegnata ad abbandonare il segreto bancario, con un’intesa internazionale al via dal 2017.
La crisi ha insomma bussato anche alla porta di Berna, facendo schizzare il franco e spingendo i Paesi vicini — alle prese con l’impennata del debito — a far emergere con più decisione i capitali fuggiti dalle mani del Fisco. Con una coincidenza, quasi incredibile, che ha riguardato proprio l’Italia: nello stesso giorno dell’addio ai freni del super franco è arrivato l’annuncio dell’accordo fiscale tra la Confederazione e il nostro Paese. Visto che chi ha investito in franchi ha guadagnato tanto in poche ore, chi tra loro ha evaso ha ora la possibilità — piaccia o no — di regolarizzare il proprio patrimonio a valori valutariamente molto alti. Cosa che, per il Fisco italiano, vuol dire più introiti. Tutto a condizione che il franco resti alto nel tempo. Altri accordi sono già stati firmati in passato, con Paesi europei e con gli Stati Uniti (senza fermare gli acquisti di franchi). In una notte di fine agosto del 2013, il dipartimento di Giustizia Usa e il ministero delle Finanze di Berna — guidati da Eric Holder e Eveline Widmer-Schlumpf — annunciavano la fine di una lunga controversia fiscale. L’intesa ha concesso alle banche elvetiche, accusate di aiutare i cittadini Usa ad evadere il Fisco, una procedura standard per regolarizzare.
Così, tra franco improvvisamente fuori controllo e segreto bancario che salta, l’eccezione elvetica si è inchinata alle ragioni della crisi internazionale.

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LUCA PAGNI, LA REPUBBLICA -
Si lamentano gli albergatori e i produttori di cioccolato. Si rifiutano di accettare pagamenti in euro i titolari delle pompe di benzina. Si strappano i capelli i fabbricanti di orologi di lusso, che ancora non si sono ripresi dallo scoppio della bolla del 2008, quando i vari Cartier e Patek Philip hanno finito di essere considerati un bene rifugio e hanno visto crollare le quotazioni.
Se gli industriali svizzeri piangono già miseria, non se la passano bene nemmeno al di là di Chiasso: perché la decisione della Banca centrale svizzera di rafforzare il franco sul mercato delle valute si è trasformato in poche ore in uno “tsunami” che non colpirà solo l’economia della Confederazione, ma avrà ricadute in tutta l’Eurozona, a cominciare dai Paesi confinanti come l’Italia.
Ieri, nelle province di Como e Varese, dove vivono gli oltre 60mila lavoratori (62mila e 458 nel primo semestre del 2014) che ogni giorno si sobbarcano il viaggio verso gli uffici e le fabbriche del Canton Ticino, è iniziata la conta dei vantaggi e degli svantaggi. I primi sono più che evidenti: lavorando in Svizzera, si viene pagati in franchi e nel giro di poche ore lo stipendio si è rivalutato di più di un quinto. Ma non tutti hanno la busta paga corrisposta in moneta elvetica: nel settore bancario, ad esempio, dove le retribuzioni sono più alte, una parte dello stipendio viene pagata in euro.
Secondo testimonianza dirette, ieri mattina tra Lugano e Locarno nei vari istituti di credito si respirava un’aria da settembre 2008, i giorni del crollo della Lehman Brothers. Non tanto per il tracollo di tutti i titoli bancari alla borsa di Zurigo, quanto per le conseguenze sul piano occupazionale. Se la Svizzera diventa meno attrattiva turisticamente e se le sue ditte esporteranno di meno, anche l’attività finanziaria ne risentirà e sarà inevitabile arrivare a una riduzione di personale.
Gli industriali hanno già messo le mani avanti. Se il numero uno di Swatch ha usato il termine “tsunami” per spiegare quanto avvenuto, il direttore generale di Swissmechanic (l’associazione delle piccole e medie imprese del settore meccanico) non ha esitato a utilizzare un termine altrettanto evocativo: «Sarà una catastrofe, se il corso dei cambi non si stabilizzerà ci saranno conseguenze fatali». I primi a subire i tagli potrebbero proprio essere i frontalieri. Anche perché da tempo parte dei partiti politici e del sindacato stanno tentando di mettere un argine ai lavoratori stranieri per favorire gli svizzeri. Soltanto nell’ottobre scorso, il Consiglio nazionale (la camera bassa della Confederazione) ha votato una mozione in cui chiede di applicare ai lavoratori frontalieri le aliquote fiscali italiane invece della più favorevole tassazione elvetica (la differenza andrebbe al fisco italiano).
Un’altra conseguenza negativa per chi vive a ridosso del confine è già visibile alle pompe di benzina. Con l’apprezzamento del franco, è salito il prezzo dei carburanti con la super che si è allineata ai livelli italiani. Il fatto è che la Regione Lombardia ha concesso un bonus per chi abita nei comuni a ridosso del confine, uno sconto i cui presupposti ora potrebbero decadere. Non a caso, in alcune stazioni di servizio sono stati appesi cartelli in cui si avvisa che non si accettano pagamenti in euro, per il timore che la valuta si possa deprezzare ancora.
Le autorità bancarie segnalano una corsa agli sportelli per accaparrarsi euro ai bancomat: anche in questo caso, la spiegazione riguarda le possibile fluttuazione del mercato dei cambi, perché in molti sono convinti che nei prossimi giorni la moneta unica possa perdere ulteriore valore. Non per nulla, i servizi Postfinance - i servizi finanziari delle Poste svizzere - ieri hanno «sospeso temporaneamente le operazioni in divise attraverso tutti i canali». Una misura - si legge sul sito internet della società - che è stata adottata «a protezione della clientela, in quanto sui mercati valutari non c’è stata alcuna determinazione dei prezzi adeguata». In sostanza, solo movimentazioni in franchi fino a data da destinarsi.
Ma anche peggio potrebbe andare a migliaia di cittadini europei, in maggioranza polacchi, ungheresi e residenti delle repubbliche baltiche, che negli anni passati hanno sottoscritto mutui immobiliari in franchi svizzeri, quando era considerata valuta stabile e favorita da tassi di interesse più bassi. La parte del leone la fa la Polonia: già nel 2011 il governo di Varsavia era dovuto intervenire per aiutare i 600mila sottoscrittori di mutui in valuta elvetica, nel tentativo di liberare i suoi cittadini dai contratti per trasferirli in moneta locale. Il problema si ripropone ancora più drammatico dopo la mossa della banca centrale di Berna: perché la prossima rata del mutuo rischia di essere una vera mazzata.

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FEDERICO FUBINI, LA REPUBBLICA -
Se qualcuno cercava conferme che viviamo in tempi finanziariamente straordinari, le ultime ore l’hanno fornita con gli interessi. Non esiste categoria che aspiri ad annoiare più dei banchieri centrali. Non si trova Paese al mondo che tragga orgoglio dalla propria prevedibilità come la Svizzera. Ieri invece i banchieri centrali svizzeri hanno sollevato uno tsunami, sbloccando all’improvviso il tasso di cambio fisso del franco. Hanno fatto l’opposto di ciò per cui esistono: hanno sorpreso e agitato i propri concittadini e il resto del mondo. Il franco è arrivato a balzare di quasi il 30 per cento in poche ore, prima di dimezzare i guadagni su euro e dollaro.
Ora che è successo, sembra logico. Chi segue da anni la crisi dell’euro ricorda le radici di questa vicenda. A metà agosto del 2011 la Banca centrale europea stava intervenendo in modo sempre più incerto e inutile per sostenere le quotazioni del debito della Spagna e dell’Italia. Il governo di Silvio Berlusconi in poche settimane stava smentendo tutti gli impegni presi in cambio di quell’aiuto. Da tutta l’Europa del Sud in quei giorni di agosto decine di miliardi di euro stavano affluendo in Svizzera nel timore che un’asta dei titoli di debito del Tesoro di Roma sarebbe andata deserta. Fosse successo, il governo italiano avrebbe rischiato di finire senza liquidità, obbligato a stampare moneta propria per pagare gli stipendi o le pensioni alla fine del mese. Poteva essere la fine dell’euro. Molto risparmio, non solo italiano, affluiva nelle banche in Ticino, a Zurigo o a Ginevra alla ricerca di un porto sicuro. Bersagliato dagli acquisti dall’estero, il franco svizzero si stava rivalutando rapidamente, mettendo in difficoltà l’industria esportatrice elvetica: farmaceutica, orologi di lusso, turismo.
La banca centrale di Berna reagì: dichiarò che non avrebbe tollerato un tasso di oltre 1,20 euro per un franco, quando nelle settimane precedenti il cambio era arrivato a 1,04. La Banca nazionale svizzera annunciò l’impegno formale a intervenire: avrebbe stampato franchi potenzialmente senza limiti e li avrebbe venduti in cambio di valuta estera per difendere quella soglia di 1,20 e impedire un apprezzamento all’eccesso. Lo ha detto, e lo ha fatto. Dopo più di tre anni di interventi continui, l’istituto di emissione di Berna ha accumulato riserve in euro e dollari pari a circa 500 miliardi di franchi (più di 600 miliardi di euro), una somma pari all’80% del prodotto lordo della Confederazione. L’equivalente finanziario di Stalingrado: una battaglia interminabile e combattuta senza risparmio di munizioni. Negli ultimi tempi i banchieri centrali svizzeri stavano intervenendo al ritmo di 30 miliardi di franchi (quasi 40 miliardi di euro) al mese. Se parametrata alla taglia del Paese, una delle più vaste operazioni di creazione monetaria della storia.
Non è bastato. Almeno due elementi hanno fatto saltare l’equazione dei banchieri svizzeri ed entrambi contengono una lezione per l’Europa, l’Italia e la Bce. Il primo fattore è senz’altro la Russia. La guerra in Ucraina, le sanzioni, la sfiducia strisciante dei russi verso il sistema di Vladimir Putin hanno portato i loro frutti. Gli oligarchi di Mosca stanno votando con il loro denaro, portandolo per decine di miliardi nei caveau elvetici: fuori dalla portata di Putin e dalla sua cerchia di siloviki, gli ex funzionari del Kgb fattisi governo. La pressione al rialzo sul franco continua a crescere anche per questo e il suo messaggio è che comunque progredisca la vicenda russa, non potrà che impattare a fondo sul tessuto dell’Europa occidentale. Ma la seconda lezione suona ancora più vicina. La mossa di Berna di ieri – l’abbandono del cambio fisso, la resa sugli interventi – precede di pochi giorni l’avvio di un piano della Bce per creare nuove liquidità e comprare almeno 500 miliardi di titoli di Stato. Quella marea di euro avrebbe reso la resistenza svizzera alla rivalutazione sempre più difficile. I mercati ieri vi hanno letto una buona notizia, perché muovendosi la Svizzera segnala che la svolta dell’Eurotower è vicina e forse sarà più radicale del previsto. Gli investitori però non si sono chiesti quanti dei fondi che continuano ad affluire in Svizzera in queste settimane vengano dalla Grecia, da risparmiatori incerti sul loro futuro prossimo a pochi giorni dalle elezioni. E non hanno pensato a chi ha vinto, in questa Stalingrado: hanno vinto loro. Viviamo nell’epoca dei banchieri centrali onnipotenti, campioni della moneta creata senza limiti con un clic. Ma se la Svizzera ieri ha gettato la spugna, è perché i mercati hanno dimostrato di essere ancora più forti. Specie se le Banche centrali sopravvalutano il proprio potere: la campana suona a Berna, ma è udibile fino a Francoforte.
Federico Fubini

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MARIO DEAGLIO, LA STAMPA -
Nel convulso panorama mondiale dell’inizio del 2015, la decisione della Banca Nazionale Svizzera di smettere di «difendere» il cambio della propria moneta, evitandone un rialzo sgradito, ha dato origine a nuove convulsioni. A seguito di queste convulsioni, la Svizzera si configura, paradossalmente, come una Grecia capovolta.
I Greci devono sostanzialmente decidere se vogliono restare nell’euro; gli svizzeri hanno deciso di voler tagliare il legame – di fatto un cambio quasi fisso, da essi stessi introdotto e manovrato – del franco svizzero con l’euro che rendeva la moneta di Berna di fatto un’appendice del sistema monetario europeo. Decidendo di tagliare questo legame, gli svizzeri sono usciti dal sistema «dall’alto», e cioè accettando la rivalutazione di mercato; simmetricamente, con il voto del 25 gennaio, i greci potrebbero considerare di uscire dall’euro «dal basso», ossia con la creazione di una nuova, e svalutata, moneta. Entrambe sono situazioni instabili, difficili e pericolose: nel turbolento mondo della finanza globale, se Atene piange, Zurigo, Ginevra e Lugano di certo non ridono.
La misura decisa dalle autorità monetarie di Berna in maniera «brutale» (avrebbero potuto aspettare il fine settimana, per far digerire e soppesare la notizia ai mercati finanziari di tutto il mondo, invece di sconvolgerli, con gigantesche oscillazioni) appare in contraddizione con le dichiarazioni ufficiali di pochi giorni prima, e deve intendersi come un riflesso del peggioramento generale dell’economia mondiale. Finché il flusso di valuta estera diretto in Svizzera è rimasto di dimensioni normali, il sistema bancario svizzero ha potuto gestirlo, forte della sua esperienza di decenni, anche perché l’investimento estero in franchi svizzeri aveva carattere transitorio: i clienti esteri, infatti, a trasferimento effettuato, molto spesso investivano – tramite le banche svizzere – i loro averi su un ampio raggio di monete.
Negli ultimi mesi, però, la normalità è finita perché si sono aggiunte altre due correnti di capitali esteri che hanno cercato rifugio nella Confederazione Elvetica: prima i capitali in fuga dal rublo e poi, nelle ultime settimane, un aumento del flusso europeo determinato dalla debolezza dell’euro. Il mantenimento del cambio fisso poteva significare pagare un prezzo estremamente elevato per valute, come l’euro e il rublo, appunto, non solo deboli ma con prospettive di una debolezza prolungata. Naturalmente non sono disponibili statistiche tempestive su questi movimenti ma dobbiamo supporre che la loro ampiezza sia stata eccezionale per convincere gli svizzeri ad agire in maniera totalmente inaspettata.
Non è stata di certo una decisione facile. Facendo salire il valore di mercato del franco svizzero, la Banca Nazionale Svizzera ha automaticamente reso più ardue le esportazioni (più di un quinto del prodotto interno lordo) e introdotto elementi di crisi anche in servizi importanti come quelli turistici. L’Ubs, una delle principali banche svizzere – citata dal sito della «Tribune de Genève» – ieri stimava a -0,7 per cento il possibile effetto della nuova apertura valutaria sul prodotto interno lordo, il che significa all’incirca dimezzare un tasso di crescita rispettabile in rapporto alle medie europee ma pur sempre modesto. Si comprende l’immediato allarme del mondo del lavoro e soprattutto dei lavoratori stranieri, a cominciare dai «frontalieri» italiani che sentono odore di licenziamenti.
Non dovrebbero invece correre particolari pericoli i depositanti esteri delle banche svizzere. Se i loro depositi sono denominati in franchi svizzeri, hanno ottenuto un istantaneo e considerevole «bonus» mentre nulla è cambiato se i depositi sono in altre valute. Un effetto di questi mutamenti potrebbe essere un ulteriore rinvio degli accordi fiscali tra la Svizzera e i principali paesi europei (quello con l’Italia è in dirittura d’arrivo) in attesa che si chiariscano numerosi elementi tecnici della nuova situazione. Siamo di fronte, in definitiva, a misure d’emergenza in una situazione politico-economica, europea e mondiale, anch’essa di emergenza. Tali misure non possono proporsi di fornire una soluzione ai problemi, ma solo di portare un sollievo temporaneo, senza eliminare alcuno squilibrio di fondo. Per superare la fase di emergenza ci vuole ben altro e occorre partire da una nuova collaborazione tra banche centrali.
Ieri la Banca Nazionale Svizzera ha agito da sola, senza consultazioni con i «colleghi» delle altre banche centrali. In assoluta autonomia e in assenza di consultazioni sono state adottate nell’ultimo anno le grandi decisioni delle banche centrali che contano, dal Giappone agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Eurozona. Così non si risolve nulla e non è facile porre le basi di una ripresa stabile e duratura: il discorso deve partire dall’uso delle monete internazionali, con il dollaro che dà segnali di affanno e che potrebbe essere utilmente affiancato o sostituito da un «paniere» delle principali monete. Questo «paniere» già esiste, ed è espresso nei «Diritti Speciali di Prelievo», emessi dal Fondo Monetario Internazionale e proposti, tra l’altro, dalla Fondazione Triffin: su una simile base si potrebbe andare verso una «pace monetaria» che sostituisca l’attuale condizione di ostilità di fatto tra le valute. E un assetto monetario stabile è sicuramente una precondizione importante per la stabilità politica e per uno sviluppo sopportabile dell’intero pianeta.
mario.deaglio@libero.it

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FRANCESCO SPINI, LA STAMPA -
Monta la rabbia tra i big dell’export svizzero contro l’autoflagellazione del super franco. Capita così che un orologiaio come Nick Hayeck, a capo del colosso Swatch Group, perda le lancette: «Jordan - azzanna - non è solo il nome del presidente della Snb», la Banca centrale svizzera, il cui numero uno si chiama Thomas Jordan. Jordan «è anche il nome di un fiume. E oggi l’azione della Snb si è tradotta in un vero e proprio tsunami, per la industria legata all’export come per il turismo. E in definitiva per tutto il nostro Paese». Hayeck ha di che recriminare. Il «suo» titolo è tra i peggiori dello Smi: d’un botto Swatch ha perso il 16,35%. Poco distante c’è la Financiere Richemont a cui fan capo business quali Cartier, Piaget, Vacheron Constantin, Baume & Mercier, Iwc, Jaeger Le Coultre. Anche per lei, in Borsa, c’è un contraccolpo del 15,5%, anche dopo conti trimestrali non esaltanti.
Insomma, la mossa della banca centrale avrà «un impatto molto negativo per chi esporta», conferma Alessandro Caviglia, a capo delle gestioni patrimoniali di Ubs in Italia, con un effetto negativo sul Pil elvetico dello 0,7%
Grandi marchi spiazzati
Cosa faranno quindi i grandi marchi svizzeri? Aumenteranno i prezzi? Per ora in pochi azzardano previsioni. Dalla Rolex, per dire, bocche cucite. Ma Stefano Modenini, direttore dell’Associazione Industriali Ticinesi, spiega che «per il momento ribaltare sul consumatore estero il maggior onere di cambio è assai difficile. Per esempio nell’orologeria i listini di quest’anno sono già stati fissati nella primavera dello scorso anno: se ci saranno effetti si vedranno nel 2016». Ma secondo il rappresentante degli industriali «non saranno tanto le multinazionali a soffrire, perché hanno la possibilità di diversificare tra mercati e valute». A soffrire saranno le nostre «piccole e medie imprese: con il franco sotto quota 1,10 euro per le aziende già condizionate dalla crisi non c’è più la redditività sufficiente per stare sul mercato, per noi ci saranno problemi strutturali: si porranno seri problemi di scelta tra delocalizzare, licenziare o cos’altro fare». Le più grandi corrono già ai ripari. Non parliamo di Nestlè che è una multinazionale gigantesca, con stabilimenti sparsi per il mondo. Pure da un marchio più piccolo, la Lindt - che nel 2014 ha messo a segno il record di vendite - spiegano che ovvieranno al problema puntando sull’efficienza, certo, ma anche utilizzando gli 8 impianti fuori dalla Svizzera.
Il prezzo per i farmaceutici
Anche il settore farmaceutico, che vede in Svizzera la presenza di nomi famosi come Roche e Novartis, può scommettere sul gigantismo. Eppure Novartis calcola che ogni 10 punti percentuali di rafforzamento del franco svizzero sul dollaro - divisa a cui il gruppo è più sensibile e che pure è calata nei confronti del franco - ci sono 0,4-0,5 miliardi di dollari in meno di profitti «core». Mauro Baranzini, economista dell’Università della Svizzera Italiana, invita tutto sommato alla calma: «Ci siamo già passati nel ’92 quando il franco si rivalutò contro la lira del 20% e non è cascato il mondo: è aumentata la nostra disoccupazione, poi abbiamo recuperato. Soffrirà chi produce a basso valore aggiunto e il piccolo commercio di frontiera, non le multinazionali che fanno export di alta qualità, ben diversificato anche al di fuori dell’Europa». Cambieranno, forse si invertiranno abitudini consolidate. «Il super franco - scommette Modenini - porterà molti svizzeri a fare acquisti in Italia e a scegliere l’Area dell’euro per fare le vacanze. Le code di italiani per fare la benzina da noi sono già finite da un pezzo, tra un po’ inizieremo noi a passare il confine...».

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MARCELLO BUSSI, MILANOFINANZA -
Uno «tsunami». Così Nick Hayek, amministratore delegato e fondatore del gruppo Swatch, ha definito la sorprendente decisione della Banca nazionale svizzera (Bns) di eliminare il livello minimo del cambio del franco, fissato a 1,20 per euro a partire dal settembre 2011, con l’obiettivo di frenarne la rivalutazione. La divisa elvetica è infatti subito schizzata in alto, arrivando a rivalutarsi del 27% a 0,86 per euro, per poi stabilizzarsi nella serata di ieri a 1,03 per euro, per una rivalutazione del 14%. Un colpo tremendo per l’industria manifatturiera nazionale, i cui prodotti saranno notevolmente più cari all’estero, minando così le esportazioni. Da qui il grido di dolore di Hayek e il crollo della borsa di Zurigo, che ha chiuso in ribasso dell’8,7% dopo essere arrivata a perdere il 12%. Possibile che la Banca centrale non abbia calcolato le conseguenze devastanti del suo gesto? Il presidente della Bns, Thomas Jordan, ha spiegato che «questo è il momento giusto per abbandonare» la soglia minima, «che non era più sostenibile e che avrebbe potuto essere mantenuta solo con continui interventi sui mercati. Abbiamo concluso che è meglio uscire ora che tra 6 o 12 mesi, quando il quadro economico potrebbe essere più difficile ovunque». Per cercare di contenere la rivalutazione del franco, la Bns ha contestualmente abbassato dello 0,50%, portandolo al -0,75%, il tasso d’interesse applicato ai depositi delle banche commerciali presso la stessa banca centrale. Tra gli analisti il parere è unanime: la Bns ha deciso di sganciare il dollaro dall’euro in vista del Qe, che dovrebbe essere lanciato dalla Bce giovedì prossimo, 22 gennaio. L’acquisto dei titoli di Stato da parte della banca centrale ha sempre come conseguenza l’indebolimento della moneta in cui sono denominati i bond. Questo dovrebbe spingere molti investitori ad abbandonare l’euro per comprare franchi svizzeri, rafforzando così la valuta elvetica. Con questa prospettiva, diventerebbe sempre più oneroso per la Bns difendere la soglia minima con la moneta unica. A causa di questi interventi, alla fine del 2014 la Bns aveva investito in divise estere 495 miliardi di dollari. Non è ancora nota la parte in euro: si sa però che tre mesi prima, a fine settembre, la quota era del 44,6%, cioè circa 174 miliardi. Con il crollo odierno del corso da 1,20 a 1,03 la Bns ha così subito una perdita (sulla carta) del 14%. Sulla base delle cifre di settembre si parla di circa 30 miliardi di franchi. A queste si aggiungono poi le perdite sul dollaro (142 miliardi a bilancio in settembre), che pure è calato. Ieri anche la divisa americana è scesa pesantemente, provocando un deprezzamento di altri 17 miliardi. Chiaramente, in vista della corsa al franco svizzero che sarà scatenata dal lancio del Qe, questi costi sono insostenibili. Come hanno osservato gli economisti di Jci Capital, è quindi «ipotizzabile che la Bns sia stata costretta a ritirarsi prima che la battaglia si facesse troppo sanguinosa». E così si spiega anche l’impennata delle altre borse europee. La mossa della Bns sarebbe infatti avventata se non avesse la certezza che il 22 gennaio la Bce darà il via all’acquisto di titoli di Stato. Operazione che, data l’entità della contromossa elvetica, potrebbe essere anche più sostanziosa del previsto sia dal punto di vista quantitativo (acquisti superiori ai 500 miliardi di euro stimati dagli analisti) che qualitativo (acquisti a manetta dei bond emessi dai Paesi più bisognosi, l’Italia, senza perdere tempo a comprare quelli tedeschi). E così Piazza Affari ha guadagnato il 2,36%, Parigi il 2,37%, Madrid l’1,39% e Francoforte il 2,20%. La fine degli acquisti di euro da parte della Bns ha inevitabilmente indebolito la moneta unica anche nei confronti del dollaro. L’euro ha quindi perso l’1,5% sul biglietto verde, a 1,1608, dopo avere toccato un minimo di giornata a 1,1568, il livello più basso dal novembre 2003. E subito Morgan Stanley ha consigliato di vendere euro fino a quando la moneta unica scenderà a 1,050 dollari. Sulle prospettive dell’euro bisogna poi ricordare che la Bns aveva fissato il livello minimo del cambio a 1,20 per euro nel settembre 2011, quando lo spread dell’Italia era salito a livelli talmente alti da far temere una sua bancarotta, che avrebbe reso molto probabile la fine dell’euro. Adesso la Bns sembra lanciare un nuovo allarme rosso sull’euro, nell’imminenza delle elezioni in Grecia. Tutti, compreso Alexis Tsipras, il leader di Syriza, il partito dato vincente dai sondaggi, si sbracciano a dire che Atene non tornerà alla dracma e quindi non si innescherà nessun effetto contagio negli altri Paesi di Eurolandia. Ma Tsipras chiede che gran parte del debito greco sia condonato, cosa inaccettabile per la Germania. Se non si arriva a un compromesso, Atene sarà costretta a tornare alla dracma. E a quel punto il rischio contagio tornerà elevatissimo, e a quel punto potrebbero ripetersi le turbolenze dell’autunno 2011. Non per niente lo stesso presidente della Bns, Jordan, ha detto che «è meglio uscire ora che tra 6 o 12 mesi, quando il quadro economico potrebbe essere più difficile ovunque». Il riferimento è inequivocabilmente a Eurolandia, che avrebbe una moneta sempre più svalutata. Visti i rischi futuri, ieri l’oro è tornato a essere un bene rifugio, guadagnando l’1,9% a 1.258,10 dollari l’oncia.
Marcello Bussi

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GABRIELE CAPOLINO, MILANOFINANZA -
Thomas Jordan è la prima vittima collaterale di Mario Draghi. L’inattesa decisione della Banca centrale svizzera presieduta da Jordan di abbandonare la linea del Piave, ovvero gli 1,2 franchi svizzeri per ogni euro, per arrendersi alle logiche del mercato, è conseguenza diretta del tanto atteso Quantitative easing che la Bce dovrebbe intraprendere dalla fine di gennaio.
La Banca centrale svizzera aveva adottato questa politica del peg (il legare una valuta a un’altra) nel giugno del 2011, quando tutto il mondo - e in particolare tutti i ricchi europei - volevano comprare franchi svizzeri per proteggersi dalla paventata frantumazione dell’euro. Il predecessore di Jordan, Philipp Hildebrand, decise di adottare questa politica, che si traduceva in una semplice scommessa diretta alla speculazione internazionale: volete comprare franchi svizzeri? Benissimo, siamo pronti a stamparne di nuovi all’infinito, perché non accetteremo che il franco si rivaluti a detrimento dell’economia nazionale.
La scommessa, ennesimo capitolo della lotta tra i banchieri centrali e la legge della domanda e dell’offerta, ha finito per comprare tempo e basta. Nel 2011, al momento della fissazione della barriera degli 1,20 franchi per un euro, il mercato esprimeva una sostanziale parità tra le due monete. Tre anni e quattro mesi dopo, la Banca nazionale svizzera ha dovuto capitolare e la parità è tornata tale e quale.
Nel frattempo la banca centrale era diventata un vero e proprio hedge fund: nel suo bilancio infatti c’erano attività short (al ribasso) contro la propria moneta per 500 miliardi di dollari, con le casse che straripavano di euro e dollari e titoli azionari. Sono posizioni ancora aperte e che solo il 15 gennaio hanno provocato perdite per 80 miliardi di franchi. Perdite che comunque si confrontano, come in ogni hedge fund che si rispetti, con le rilevanti plusvalenze del passato su quel portafoglio. L’attivo di bilancio della banca centrale era diventato troppo grosso per un’economia di 8 milioni di cittadini: basta confrontare i 500 miliardi della Bns con i 2.168 miliardi di attivo della Bce. Solo nel mese di novembre, per contrastare la marea di coloro che vendevano euro per comprare franchi, la Bns aveva stampato 28 miliardi di nuovo conio.
La mossa di Jordan prende semplicemente atto che l’agganciare il franco all’euro aveva senso con un euro sostanzialmente stabile. Era diventata una missione impossibile da quando, con i ripetuti annunci di misure non convenzionali in arrivo da parte di Draghi, l’euro ha preso a scendere; e soprattutto sarebbe diventata una missione suicida continuare a farlo alla vigilia del passaggio dalle parole ai fatti, nel senso del Quantitative easing della Bce.
Insomma, la mossa della Banca nazionale svizzera è la più recente dalla vera e propria guerra valutaria in atto, che come tutte le guerre valutarie nasce quando non c’è più coerenza tra l’economia di una zona e la moneta che quella zona sintetizza nel rapporto di cambio con le altre.
Per la Svizzera si annuncia un periodo durissimo. Secondo alcuni economisti entrerà in recessione, in quanto i prezzi degli asset, del costo del lavoro, dei manufatti dovranno diminuire per contrastare la forte rivalutazione che li rende ora non competitivi rispetto ai concorrenti tedeschi e italiani e non interessanti per gli investitori russi o cinesi in case svizzere, già supervalutate. Già oggi la benzina svizzera costa come quella (carissima) italiana e il gasolio addirittura di più. Secondo altri, l’impatto per i grandi gruppi svizzeri sarà invece minimo, in quanto gli impianti di produzione del farmaceutico, per esempio, sono all’estero da anni.
Quali conseguenze per gli altri grandi eserciti impegnati nella nuova guerra valutaria? La mossa degli svizzeri aumenta ancora la pressione su Draghi. I mercati si attendono un intervento molto forte, molto concentrato nel tempo. I 500 miliardi attesi non sono adeguati se l’obiettivo con il Qe è quello di mantenere l’euro intorno a 1,15-1,20 dollari, il più a lungo possibile, per avvantaggiarsi nella guerra valutaria in atto e far ripartire le economie europee. Dubbi inoltre persistono sulle modalità di acquisto: comprare 120 miliardi di Bund tedeschi, che ora sono carissimi tanto da avere rendimenti negativi, darebbe davvero una spinta e nuove prospettive all’economia europea? E infine a rendere sterile il tutto sarebbe il cosiddetto no-risk sharing, la ripartizione tra le varie banche centrali dei Paesi dell’euro di eventuali forti minusvalenze sui titoli di Stato che la Bce comprerà sul mercato. Meccanismo ovviamente preteso dai tedeschi per le ragioni di elettorato interno, ma che di fatto renderebbe il «whatever it takes» del 2012 di Draghi una sorta di promessa da marinaio.
E dopo la Bce? Finora ad azionare l’arma della stampa di moneta di massa sono stati americani, inglesi, giapponesi, svizzeri e forse europei dell’Eurozona. Chi manca? I cinesi. Che stanno comunque soffrendo un dollaro (a cui lo yuan è ancorato) in forte rialzo. Che cosa farà la People’s Bank of China? Farà come gli svizzeri? Insomma, la guerra è appena iniziata.
Gabriele Capolino

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NINO SUNSERI, LIBERO -
NINO SUNSERI L’euro trattato come se fosse una liretta qualsiasi. Ieri, ad un certo momento, le banche svizzere, senza farne proclama pubblico, hanno dichiarato l’inconvertibilità (...) :::segue dalla prima NINO SUNSERI (...) della moneta unica. Niente di ufficiale, per carità. Nessun comunicato alla stampa. Solo fatti concreti: nel pomeriggio il cambio tra euro e franchi è stato sostanzialmente bloccato. Era diventato un gioco d’azzardo per speculatori d’alto bordo. Troppo pericoloso finirci in mezzo. Per i comuni mortali l’invito a star fermi. La confusione era già molto alta: inutile aggiungere il polverone dei pesi minimi a caccia di sicurezza. Se proprio proprio non se ne poteva fare a meno bisognava passare il guado a bordo del dollaro: prima fissare la parità tra la moneta europea e quella Usa. Poi farsi riconoscere il controvalore in franchi svizzeri. O viceversa. La spiegazione che proviene dalle sale operative è abbastanza ragionevole: l’incrocio tra l’euro e il dollaro ha ballato ma senza rischi di infarto. Nei confronti della valuta elvetica invece si sono viste cose da pazzi: rapidissime salite e discese da togliere il fiato. All’inizio il valore era quello di sempre: 1,20. Poi l’annuncio dello sganciamento e l’inizio del carosello. Più che altro il ballo della tarantola: un primo passaggio a 1.16, poi il tuffo verso 0,80. Infine il recupero. Tutto quanto in un fazzoletto di tempo. A questo punto le transazioni sono state di fatto sospese: di fronte a oscillazioni che superavano il 40% c’era il rischio di farsi male. Molto male. Tanto più che la compassata Borsa di Zurigo appariva come una barca a vela investita dallo tsunami. Così, per qualche ora l’euro è diventata una moneta artificiale: un segno sul computer da maneggiare con molta attenzione. Dinamite pura. Un fatto assolutamente normale per noi italiani cresciuti nel ricordo dei valzer della lira, del mercato dei cambi che veniva chiuso d’improvviso, del doppio regime per separare la speculazione finanziaria dagli scambi commerciali. Ma i tedeschi? Chissà come l’avranno presa a Berlino e a Francoforte? Loro che sono cresciuti nel mito del marco. Affilato e luccicante come una lama d’acciaio che, normalmente affettava le altre monete (a cominciare dalla nostra) come fossero di burro. Certo gli industriali tedeschi (come tutti nell’Eurozona) ieri si fregavano le mani. Con l’euro sotto 1.17 con il dollaro per noi italiani è come se fossero tornati i bei tempi della lira che ogni tanto si prendeva una spuntatina per ridare ossigeno alle esportazioni. Ma i tedeschi? Il super-marco che in mezzo secolo si era sempre e soltanto rivalutato? Bei tempi: il simbolo della ritrovata potenza tedesca. La bandiera di un sistema industriale talmente efficiente e produttivo da poter prosperare nonostante un cambio sempre più forte. E invece vedi che cosa succede a mettersi insieme agli italiani, agli spagnoli e ai greci. Per carità tutto bene fino a quando si tratta di fare le vacanze o vendere Audi, Mercedes a Bmw. Ma farli diventare soci d’affari nella moneta unica? Questi sono i risultati. E poi essere presi in giro da quei presuntuosi banchieri svizzeri. Che beffa. Un dubbio. A Zurigo hanno proclamato l’inconvertibilità dell’euro in franchi. Non è che gli svizzeri, abituati da secoli a maneggiare denaro, abbiano visto lungo? Tanta diffidenza perchè cominciano a pensare che, da ora in avanti, più si sta lontani dalla moneta europea meglio è? Un incubo. Ma anche un interrogativo che merita una riflessione.