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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

BUSH III


WASHINGTON. «No, un altro Bush, no» è sbottata la Grande Nonna dai capelli turchini. «Ci devono pur essere altri che non si chiamino Bush in grado di guidare l’America». Ma il grido di ribellione di Barbara Prescott Bush – la matrona ormai quasi novantenne che è l’unica donna nella storia americana a poter dire di essere moglie e madre di Presidenti degli Stati Uniti – non ha fermato un altro dei suoi figli, il secondogenito John Ellis Bush, deciso a provarci.
Jeb, come è chiamato delle iniziali dei suoi nomi, ha cominciato dagli ultimi giorni dello scorso anno a preparare i pezzi per la sua corsa alle elezioni presidenziali del 2016 e a mungere i finanziatori per ottenere quello che un politico californiano chiamò «il latte materno della politica», i soldi. E se i primi sondaggi sono vagamente attendibili, Jeb, figlio prediletto di Barbara e di George il Vecchio, quello sul quale la famiglia puntava molto più che su George W. il Giovane, ha non poche probabilità di diventare il portabandiera repubblicano nel duello per occupare la poltrona dove sedettero il padre e il fratello. Allargando come mai prima era avvenuto dall’Indipendenza, 238 anni or sono, il controllo dinastico di una sola famiglia sul potere politico americano, nel probabile duello contro la moglie di un altro ex presidente, Hillary Rodham Clinton. La democrazia americana come Giochi in Famiglia.
La parola «dinastia» è la più immediata e ovvia che si presenti a chi osservi il potere sviluppato da questo clan. Un clan disceso da Richard Bush, fabbro ferraio inglese sbarcato sul Nuovo Continente alla fine del Seicento prima di trasferire la bottega nello stato di New York. Ma, anche se i Bush possono ricostruire la propria genealogia fino ai Pellegrini approdati nel New England, l’unica fonte di sangue blu accettabile in una nazione che non riconosce titoli nobiliari, l’immagine più realistica per la Gens Bushiana è un’altra. È una ragnatela, quella che da un secolo e mezzo, dall’ingegner Samuel Bush che incrociò i Rockefeller nella propria vita di dirigente di ferrovie nel Midwest, espande incessantemente i propri fili visibili e invisibili: dalle rotaie dei treni all’industria delle armi, dalla finanza al petrolio, dal Texas all’Arabia Saudita attraversando naturalmente Wall Street e la Cia. Lentamente, inesorabilmente avvolgendo nella propria tela il potere politico e le istituzioni.
L’ingegnere che nella seconda metà dell’Ottocento fece carriera in ferrovia fu il primo a produrre il filo che avrebbe portato due Bush alla Casa Bianca e forse un terzo. Ma il grande ragno al centro della tela è la figura inquietante di Prescott Bush, l’uomo che avrebbe fatto fare al clan il salto dalla dimensione di semplici ricconi ai margini del generone Wasp, bianco e protestante, a potenza famigliare che ormai ha largamente e definitivamente detronizzato anche i Kennedy.
Fu Prescott, padre di George il 41esimo presidente e nonno di George il 43esimo, a trasferire gli interessi e il centro di gravità della famiglia dalla provincia alla città, dall’industria alla finanza, e dalla finanza alla politica. Si fece eleggere senatore del Connecticut dopo la guerra nella quale il figlio George aveva combattuto ed era stato abbattuto nei cieli del Pacifico dalla contraerea giapponese, mentre lui, Prescott, sedeva nel consiglio di amministrazione di una banca, la Union Banking Corporation, messa sotto sequestro dal governo per essere stata la clearing house, un nome elegante per dire il centro di riciclaggio, delle fortune della Thyssen nazista.
Dal grande ragno Prescott, i fili sottili della tela cominciarono a farsi d’acciaio. Nell’incubatrice dell’Università di Yale, che i Bush frequenteranno per generazioni accettati soltanto per il nome e non per i voti (la pagella finale conseguita da George W. al liceo è sigillata per ordine del tribunale, prova sicura della sua mediocrità), fu attorno a una piccola e selezionatissima società segreta di studenti, la società del Teschio e delle Ossa, che prima il servizio di intelligence dell’Esercito, l’Oss, e poi la Cia (dalla sua fondazione nel 1947) avrebbero pescato i propri agenti. Leggenda vuole che Prescott Bush fosse il leader del Teschio e delle Ossa, un rango acquisito rubando il teschio e le ossa del grande guerriero Apache Geronimo, e che dai suoi resti trafugati la confraternita avesse preso il nome.
È nella penombra di questa grande e prestigiosissima università, la stessa dove Bill Clinton e Hillary Rodham si sarebbero conosciuti studiando per diventare avvocati, che si forma il network, la rete di conoscenze, rapporti personali, complicità, danaro. Quando George H. ne uscì fresco sposo di Barbara per tentare la fortuna intingendo trivelle nel sottosuolo del Texas e fingendo di «cominciare da zero», si portò dietro le amicizie del padre e i dollari di investitori che gli permisero di accumulare una discreta fortuna e di assumere quella maschera da texano con il cappello a large tese che poi anche il figlio avrebbe indossato. Quello che camminava sempre a gambe larghe, disse un comico, per far credere di essere a cavallo.
In quel Texas che stava fatalmente muovendo dal passato democratico al futuro repubblicano, la ragnatela della «dinastia invisibile», come allora era, acchiappò mosche preziose. E cominciò a suscitare quei dubbi, a riempire quei capitoli segreti che torneranno a essere sfogliati se Jeb dovesse correre verso la Casa Bianca. Nell’universo del petrolio, i Bush incrociano i signori del greggio, i Sauditi, con i quali stringeranno un rapporto fortissimo. Tanto forte che George H., spaventato dall’ignoranza sulle faccende del mondo del figlio George W., suo successore alla presidenza, chiese proprio all’ambasciatore saudita a Washington, principe Bandar bin Sultan, di istruirlo un po’ in politica estera.
E, dal Texas, George il Vecchio cominciò il viaggio nella politica che il padre, il Grande Ragno, aveva lasciato al semplice laticlavio senatoriale e che il figlio avrebbe dovuto portare fino alla Presidenza. Era già attivo nel partito repubblicano, George il Vecchio, nel novembre del 1963 quando a Dallas, dunque in Texas, fu ucciso Kennedy, eppure, molto stranamente, ha sempre dichiarato di «non ricordare» quel giorno, che si fissò per sempre negli occhi e nella memoria di milioni di americani. Un’amnesia poco credibile, che aggiunse alla montagna di teorie e di sospetti attorno all’omicidio di JFK anche questo sassolino, destinato a diventare un grosso ciottolo quando, più tardi, lo stesso George H. sarebbe stato chiamato apparentemente senza alcuna qualifica, a dirigere la Central Intelligence Agency per un anno, nel 1976.
Qui, nel paradosso di un clan che nasconde nell’evasività, nell’aristocratica smemoratezza e nel segreto la propria storia, ma poi cerca il massimo della notorietà attraverso le elezioni presidenziali, sta uno dei misteri che affascinano autori e ricercatori, come Russ Baker che ha dedicato un decennio a ricostruire la ragnatela nel suo colossale lavoro Family of Secrets. Ricorre, lungo i fili della trama, una sbalorditiva capacità dei rampolli di trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto. Il vecchio George, ora costretto in carrozzella, si vide consegnare la presidenza del Partito repubblicano dopo il Watergate, nel quale uomini proprio della Cia come Howard Hunt ebbero tanta parte.
A lui, Kissinger, uomo dei Rockefeller ai quali la famiglia era legata dal secolo dei Baroni delle Ferrovie, diede l’incarico di rappresentante all’Onu: da lì venne poi spontanea la nomina a primo ambasciatore in Cina. Nella decade degli anni Settanta, mentre l’America si avvitava agli spasmi terribili del Vietnam e del Watergate, George il Vecchio navigava sicuro fra Onu, Cina e Cia, mai scalfito dalle schegge di un Partito repubblicano in pezzi. Con il figlio, George il Giovane, George W, bene al sicuro nella Guardia Nazionale texana come pilota di jet, esentato dal rischio di essere buttato nel crogiolo indocinese, fingendo di essere comunque pronto al dovere.
Ancora misteri circondano la giovinezza del secondo Bush destinato alla Casa Bianca, appena parzialmente ammessi, come il tempo delle sbornie, fino ai 40 anni, e la conversione mistica e matrimoniale, comprese voci spesso riportate e mai confermate di aborti pagati con i soldi della casata per sistemare i problemi con le sue amiche. E via di coincidenza fortunata in coincidenza fortunata, fino ai giorni del novembre e dicembre 2000, quando l’ultima conta contro Al Gore cadde proprio nelle schede elettorali confusamente scrutinate in Florida. Lo Stato che il fratello Job in quel momento governava. E nel quale, come presidente, George W. si sarebbe trovato mentre il figlio degenere dei bin Laden, Osama, lanciava i suoi assassini kamikaze contro New York e Washington.
Una famiglia fortunata, anche troppo, almeno fino all’estate del 2008 quando la montagna di carta costruita sulla speculazione a Wall Street e su quei mutui allegri concessi per fare di tutta l’America «una nazione di padroni di casa» a credito, come disse George Bush il Giovane, crollò. E l’81 per cento degli americani espresse per lui nei sondaggi la propria disapprovazione. Quel disastro di conseguenze globali, insieme con la catastrofe dell’invasione dell’Iraq, ancora oggi una cambiale di sangue in perenne protesto, avrebbero distrutto qualsiasi famiglia che avesse legato il proprio nome a tanti fallimenti.
Ma la ragnatela d’acciaio tessuta dai ragni pazienti ha tenuto. Chi grazie a loro ha accumulato la ricchezza che, anche sotto i Bush, anche tra le rovine e i caduti degli altri, ha continuato a scorrere dal basso verso l’alto sfidando leggi naturali che nella finanza non si applicano, li ricorda con gratitudine e con il portafoglio spalancato per il nuovo Bush, Jeb, il latino della famiglia, il marito di Colomba, la signora messicana. Anche lei entrata nell’ombra dei misteri, quando fu arrestata e detenuta nel 1999 all’areoporto di Atlanta di ritorno da Parigi con merce non dichiarata per quasi 20 mila dollari. «La tenne nascosta per non far sapere al marito quanto aveva speso» fu la scusa ufficiale, come se i mariti chiedessero alle proprie mogli al ritorno da un viaggio di mostrare la dichiarazione alla dogana.
Niente sembra poter smagliare la ragnatela, che cresce. Due mesi or sono, George P. Bush, pronipote del senatore Prescott, nipote di George H. il presidente, nipote di George W. il presidente, figlio di Jeb governatore e forse prossimo presidente, ha vinto l’elezione per il posto di assessore al territorio del Texas, una superficie tre volte l’Italia. Si rassegni dunque la Grande Nonna dalla grande corona di capelli turchini: ci sarà sempre un Bush nel futuro dell’America.
Vittorio Zucconi