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 2015  gennaio 16 Venerdì calendario

ECCO LA PRIMA VITTIMA DEL QE

Thomas Jordan è la prima vittima collaterale di Mario Draghi. L’inattesa decisione della Banca centrale svizzera presieduta da Jordan di abbandonare la linea del Piave, ovvero gli 1,2 franchi svizzeri per ogni euro, per arrendersi alle logiche del mercato, è conseguenza diretta del tanto atteso Quantitative easing che la Bce dovrebbe intraprendere dalla fine di gennaio.
La Banca centrale svizzera aveva adottato questa politica del peg (il legare una valuta a un’altra) nel giugno del 2011, quando tutto il mondo - e in particolare tutti i ricchi europei - volevano comprare franchi svizzeri per proteggersi dalla paventata frantumazione dell’euro. Il predecessore di Jordan, Philipp Hildebrand, decise di adottare questa politica, che si traduceva in una semplice scommessa diretta alla speculazione internazionale: volete comprare franchi svizzeri? Benissimo, siamo pronti a stamparne di nuovi all’infinito, perché non accetteremo che il franco si rivaluti a detrimento dell’economia nazionale.
La scommessa, ennesimo capitolo della lotta tra i banchieri centrali e la legge della domanda e dell’offerta, ha finito per comprare tempo e basta. Nel 2011, al momento della fissazione della barriera degli 1,20 franchi per un euro, il mercato esprimeva una sostanziale parità tra le due monete. Tre anni e quattro mesi dopo, la Banca nazionale svizzera ha dovuto capitolare e la parità è tornata tale e quale.
Nel frattempo la banca centrale era diventata un vero e proprio hedge fund: nel suo bilancio infatti c’erano attività short (al ribasso) contro la propria moneta per 500 miliardi di dollari, con le casse che straripavano di euro e dollari e titoli azionari. Sono posizioni ancora aperte e che solo il 15 gennaio hanno provocato perdite per 80 miliardi di franchi. Perdite che comunque si confrontano, come in ogni hedge fund che si rispetti, con le rilevanti plusvalenze del passato su quel portafoglio. L’attivo di bilancio della banca centrale era diventato troppo grosso per un’economia di 8 milioni di cittadini: basta confrontare i 500 miliardi della Bns con i 2.168 miliardi di attivo della Bce. Solo nel mese di novembre, per contrastare la marea di coloro che vendevano euro per comprare franchi, la Bns aveva stampato 28 miliardi di nuovo conio.
La mossa di Jordan prende semplicemente atto che l’agganciare il franco all’euro aveva senso con un euro sostanzialmente stabile. Era diventata una missione impossibile da quando, con i ripetuti annunci di misure non convenzionali in arrivo da parte di Draghi, l’euro ha preso a scendere; e soprattutto sarebbe diventata una missione suicida continuare a farlo alla vigilia del passaggio dalle parole ai fatti, nel senso del Quantitative easing della Bce.
Insomma, la mossa della Banca nazionale svizzera è la più recente dalla vera e propria guerra valutaria in atto, che come tutte le guerre valutarie nasce quando non c’è più coerenza tra l’economia di una zona e la moneta che quella zona sintetizza nel rapporto di cambio con le altre.
Per la Svizzera si annuncia un periodo durissimo. Secondo alcuni economisti entrerà in recessione, in quanto i prezzi degli asset, del costo del lavoro, dei manufatti dovranno diminuire per contrastare la forte rivalutazione che li rende ora non competitivi rispetto ai concorrenti tedeschi e italiani e non interessanti per gli investitori russi o cinesi in case svizzere, già supervalutate. Già oggi la benzina svizzera costa come quella (carissima) italiana e il gasolio addirittura di più. Secondo altri, l’impatto per i grandi gruppi svizzeri sarà invece minimo, in quanto gli impianti di produzione del farmaceutico, per esempio, sono all’estero da anni.
Quali conseguenze per gli altri grandi eserciti impegnati nella nuova guerra valutaria? La mossa degli svizzeri aumenta ancora la pressione su Draghi. I mercati si attendono un intervento molto forte, molto concentrato nel tempo. I 500 miliardi attesi non sono adeguati se l’obiettivo con il Qe è quello di mantenere l’euro intorno a 1,15-1,20 dollari, il più a lungo possibile, per avvantaggiarsi nella guerra valutaria in atto e far ripartire le economie europee. Dubbi inoltre persistono sulle modalità di acquisto: comprare 120 miliardi di Bund tedeschi, che ora sono carissimi tanto da avere rendimenti negativi, darebbe davvero una spinta e nuove prospettive all’economia europea? E infine a rendere sterile il tutto sarebbe il cosiddetto no-risk sharing, la ripartizione tra le varie banche centrali dei Paesi dell’euro di eventuali forti minusvalenze sui titoli di Stato che la Bce comprerà sul mercato. Meccanismo ovviamente preteso dai tedeschi per le ragioni di elettorato interno, ma che di fatto renderebbe il «whatever it takes» del 2012 di Draghi una sorta di promessa da marinaio.
E dopo la Bce? Finora ad azionare l’arma della stampa di moneta di massa sono stati americani, inglesi, giapponesi, svizzeri e forse europei dell’Eurozona. Chi manca? I cinesi. Che stanno comunque soffrendo un dollaro (a cui lo yuan è ancorato) in forte rialzo. Che cosa farà la People’s Bank of China? Farà come gli svizzeri? Insomma, la guerra è appena iniziata.
Gabriele Capolino, MilanoFinanza 16/1/2015