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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

LA DONNA CHE SUSSURRAVA A RENZI

[Intervista a Andrea Marcolongo] –
L’arte di correre. Il derby tra rabbia e speranza. Gli uccellacci del malaugurio. La generazione Telemaco. Eccole qua: le migliori sortite pubbliche di Matteo Renzi, quelle che finiscono nei titoli di giornale, su cui poi fioccano gli elzeviri dei cronisti più acculturati. Solo che non sono del presidente del Consiglio. Niente di anormale, per carità, il ghostwriter è una figura professionale nota in tutto il mondo. John Kennedy aveva Ted Sorensen, Barack Obama il giovane Jon Favreau (classe 1981). E anche Renzi ha avuto la sua ghostwriter, fino al novembre scorso, prima che decidesse di andarsene, un po’ delusa, dopo avergli consegnato titoli di libri, citazioni, immagini, metafore che confluissero nel messaggio politico per costruire una narrazione.
Uno «storytelling». Il presidente del Consiglio non conosceva bene questo concetto prima che gliene parlasse Andrea Marcolongo, grecista nata a Milano, proveniente dalla Scuola Holden di Alessandro Baricco. È lì che Marcolongo ha affinato la scrittura, specializzandosi nell’arte di raccontare storie. Una forma di comunicazione oggi utilizzata dai politici, ma non solo, anche dai capi d’azienda che vogliono trasmettere un messaggio ai loro dipendenti e ai loro clienti. Le storie aiutano a costruire, appunto, una narrazione, poco importa se esse siano vere o no; l’importante è che siano verosimili. «Quando la leggenda diventa un fatto, stampa la leggenda» dice il giornalista nel finale del film di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance.
Un tempo Marcolongo ci credeva nel renzismo, poi è subentrato altro, lo sconforto per i «pensierini» che il capo del governo cercava. Marcolongo, che a differenza del nome maschile è una donna, è giovane (classe 1987), è bionda e ha gli occhi azzurri (tutte cose che tra i renziani possono essere un problema se non sei Maria Elena Boschi), la incontriamo a Firenze, dove nell’ottobre 2013 arrivò per lavorare con Renzi, allora ancora sindaco del capoluogo toscano e candidato al congresso del Pd, e ha continuato fino a poche settimane fa, quando ha scritto una lunga email di congedo a «Matteo».
«Non sono mai stata pagata, a parte una mensilità» dice Marcolongo, anche se precisa subito che non è per i soldi che se n’è andata. Non è chiaro, peraltro, se a saldare sia stata poi la Fondazione Open di Renzi, il Pd o la presidenza del Consiglio. «Eravamo tutti così. Viaggi a Roma e lavori mai pagati, so di persone che si sono indebitate e sono andate dallo psicologo perché distrutti dalle promesse. E la promessa era, ogni volta: la prossima settimana tutto si risolve, dai che è fatta, manca solo un foglio». Nonostante queste (e altre) disavventure, «è stato un lavoro bellissimo, ero libera di scrivere tutto quello che volevo».
Com’è nata questa passione? «Io volevo fare la scrittrice politica, seguivo Matteo. L’ho cercato, poi ho chiesto a Baricco di aiutarmi. Lui mi disse: “Non posso fare nulla per te, se sei brava ti cercheranno”». Poi arrivò la Leopolda 2013. Per intervenire sul palco, bisognava inviare un testo online. Marcolongo inviò il suo brano, che piacque molto, fu chiamata, intervenne, iPad bianco in mano, lo stesso sul quale conserva tutti i discorsi e le idee mandate a Renzi nell’ultimo anno. Dopo la Leopolda, i renziani la cercarono e le chiesero di lavorare con loro.
«Il primo discorso per Renzi fu quello per l’inaugurazione dell’anno accademico fiorentino». Era il 15 novembre 2013. Renzi fece sfoggio di etimologia greca, citando il pathos che, disse, «richiama l’elemento della passione, del desiderio, che chi vive l’università deve avere; della pazienza, e chi sta dentro l’università sa che della pazienza c’è bisogno». Ma la parola pathos, diceva Renzi, allude anche all’elemento di un «pizzico di sana follia, la radice della parola richiama la pazzia. Pensare che al giorno d’oggi si esca dalla crisi investendo nella cultura, nell’educazione, nella scuola e nell’università può sembrare un elemento di pazzia ma a mio giudizio è l’unica strada per superare le difficoltà in cui viviamo». «L’etimologia pathos, pazzia, pazienza era mia» dice Marcolongo. Come sua e anche la «generazione Telemaco» con cui Renzi inaugurò il semestre europeo a Bruxelles, a luglio 2014, e il precedente «derby tra rabbia e speranza» con cui alle Europee attaccò Grillo e che contribuì alla vittoria del Pd, arrivando al 40,8 per cento. Perché le narrazioni sono materiale da campagna elettorale. Materiale che va maneggiato con cura però, perché a un certo punto, scrive Christian Salmon, maestro di Marcolongo, nel suo Storytelling, la fabbrica delle storie (Fazi editore), «l’arte della narrazione, che fin dalle origini racconta e spiega l’esperienza dell’umanità, è divenuta grazie allo storytelling lo strumento della menzogna di Stato e del controllo sulle opinioni».
È di Marcolongo anche la lettera d’addio ai fiorentini con la quale Renzi si congedò, il 24 marzo dell’anno scorso, per andare Palazzo Chigi: «Indipendentemente da me, comunque, il punto è fare il tifo perché l’Italia torni a sorridere. Io sono certo che ce la faremo. Sarà bellissimo smentire gli uccellacci del malaugurio con l’energia e la serietà del nostro impegno». A quel tempo, Marcolongo stava ancora a Firenze, integrata nel gruppo di Palazzo Vecchio e sotto l’ala protettiva di Franco Bellacci, collaboratore storico di Renzi (quello che ha twittato per sbaglio al posto del presidente del Consiglio durante Udinese-Roma).
L’impatto di Marcolongo sulla narrazione renziana si fece sentire anche al Senato, era il 25 febbraio 2014, quando Renzi chiese la fiducia e si presentò con un armamentario tecnologico tutto firmato Apple: iPhone, iPad, e un MacBook. C’era anche un libro, L’arte di correre di Haruki Murakami (Einaudi). A suggerirgli lo scrittore giapponese era stata Marcolongo, che pochi giorni dopo gli consegnò anche una frase di Walt Disney per partecipare al salotto di Fabio Fazio, Che tempo che fa. «La data è ciò che fa la differenza tra un sogno e un progetto». E la frase del poeta Robert Frost letta durante la direzione del Pd che defenestrò Enrico Letta? «Due strade divergevano in un bosco, e io presi quella meno battuta». Sempre di Marcolongo.
La ghostwriter aveva, specie nella fase romana, un rapporto diretto con Renzi. Prima gli mandava email con allegati, poi email senza allegati, poi si è arrivati, per brevità, a Whatsapp, il mezzo di comunicazione preferito dal presidente del Consiglio. In caso di emergenze, parlava con Filippo Sensi, portavoce di Renzi. Luca Lotti invece, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria, aveva soprattutto timore che parlasse. Per questo le era stato impartito un ordine: se ti chiedono chi sei, tu rispondi che sei una segretaria. «Renzi non mi chiedeva quasi mai discorsi, ma idee» dice. Anche quando era giovane, Renzi faceva così. Non si scriveva mai discorsi, ma appuntava su fogli bianchi i punti e citazioni pop da dire. «Si va a Ballarò. Hai idee?» le whatsappava Renzi. «Alla fine stavo sempre attaccata al cellulare, mi sentivo un po’ come Siri dell’iPhone», racconta lei.
Ma perché ha lasciato? «Mi era impossibile continuare» taglia corto Marcolongo. «Non è facile per una donna, e non aggiungo altro, ma sono fiera di quello che ho fatto, perché il ghostwriter è una figura professionale riconosciuta e molto stimata in tutto il mondo». Favreau, di poco più grande di lei, è stato speechwriter di Barack Obama dal 2009 al 2013. Era un ruolo pubblico. Di Marcolongo, invece, finora si sapeva poco o nulla. E adesso che è fuori dal giro, anche quei pochissimi amici che aveva nel ristretto gruppo intorno al presidente del Consiglio non li sente quasi più. Perché l’isolamento è il destino di chi lascia il clan renziano.