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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

ARTICOLI SUL TOTO-QUIRINALE DAI GIORNALI DI GIOVEDI’ 15 GENNAIO 2015


FRANCESCO BEI E GOFFREDO DE MARCHIS, LA REPUBBLICA –
Ieri sera la cena di Raffaele Fitto con i suoi parlamentari. Lunedì a porte chiuse Massimo D’Alema riunisce i fedelissimi alla fondazione Italianieuropei. Gli ex democristiani del Pd si sono già contati martedì sera vicino al Pantheon con qualche ora di anticipo sulle dimissioni di Giorgio Napolitano. Erano 57. «Ma ne mancavano 4 o 5», aggiunge Beppe Fioroni. Come dire: non facciamo nomi ma siamo una sessantina abbondante, Renzi dovrà fare i conti anche con noi. È un calendario dell’avvento molto particolare. La data finale non è quella di Natale ma il giorno della prima seduta per l’elezione del capo dello Stato, il 29 gennaio. È il calendario delle cene, degli incontri segreti, delle riunioni di corrente. Per contare di più al momento della scelta, per sedersi al tavolo di chi decide un protagonista assoluto della politica. Per ben 7 anni.
Luca Lotti, per aggiornare il pallottoliere dei grandi elettori ed evitare i rischi del voto segreto, deve monitorare anche questi appuntamenti. Sapere chi c’era e chi non c’era, quanti erano i partecipanti e quanti i curiosi, quale indirizzo è stato deciso. Per fare il punto, due giorni fa, Lotti ha organizzato a sua volta una cena. Numeri piccoli: erano lui, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e il braccio destro di Franceschini Ettore Rosato. La corrente del ministro della Cultura (che da qualche giorno nella sede del dicastero organizza incontri con vista Quirinale) vanta un buon numero di parlamentari, conosce bene i meccanismi che regolano i gruppi del Pd e gli equilibri per piazzare il nome giusto. Renzi ha affidato a questo terzetto un mandato preciso: lavorare sull’ascolto dei grandi elettori, «stavolta non si scherza, non possiamo sbagliare». Lotti ha tirato fuori la sua lista, l’hanno guardata assieme. La conclusione: si calcolano 50 dem sicuramente pronti ad andare contro il governo e contro il premier, 20 in bilico ma recuperabili.
La verità però è che neanche le correnti scoprono le carte sui candidati. Esattamente come fa Renzi. Lasciano che trapeli il peso delle rispettive truppe, ma non avanzano proposte. «Non ci impicchiamo per avere un cattolico », dice per esempio Fioroni. «Basta che sia autorevole». E condiviso dal gruppetto degli ex Popolari, questo il sottinteso. Loro spingono per un cattolico come Sergio Mattarella. Senza dirlo però.
Tra i renziani pesa anche l’incognita dell’atteggiamento che terranno i bersaniani. Tolti i “turchi”, che si sono riuniti martedì sera al ristorante davanti al teatro Quirino (con il ministro Orlando) e di nuovo ieri sera, i seguaci dell’ex segretario Pd si vedranno oggi in vista della direzione. Cesare Damiano, esponente dell’ala più dialogante, invita il premier a non forzare: «Se si dimostra flessibilità su alcuni temi, come i capilista bloccati nella legge elettorale, qual- che ritocco alla riforma costituzionale, alcune cose ancora aperte sul Jobs Act — riflette Damiano in Transatlantico — allora anche sul Quirinale Renzi potrà correre su un tappeto rosso. Se invece ci si irrigidisce...». Di sicuro peserà anche la partita della legge elettorale, dove lo scontro è a livelli preoccupanti. Miguel Gotor già preannuncia un voto contrario all’Italicum se resteranno i cento capolista bloccati voluti da Berlusconi. E sulle sue posizioni sono attestati 40 senatori, tanto che senza il soccorso azzurro difficilmente la legge elettorale vedrà la luce.
Anche Berlusconi ha iniziato a muovere le sue pedine. Ieri sera a palazzo Grazioli una prima riunione dedicata proprio al Quirinale ha visto insieme, allo stesso tavolo, sia i forzisti che Gal e i popolari di Mario Mauro. «La prima mossa la deve fare Renzi — spiega Mauro uscendo dal vertice — ma abbiamo deciso di coordinarci per mettere tutto il nostro peso sulla stessa mattonella». Renzi aspetta. La riunione dei dalemiani è un passaggio di svolta. Si capirà quante truppe ha ancora l’ex premier in Parlamento. Il coordinamento dei dissidenti Francesco Boccia, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Pippo Civati è sempre attivo. E oggi Angelino Alfano batterà un colpo riunendo Ncd, Udc sotto la sigla Area popolare. Se Renzi vuole arrivare al traguardo deve fare i conti anche con loro.

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CONCHITA SANNINO, LA REPUBBLICA –
Del presidente emerito Giorgio Napolitano salva solo un requisito. «È partenopeo come me, un figlio illustre della città, uno che ha a cuore Napoli, e soffre se le cose non vanno bene. E quello vorrei ricordare», sentenzia Francesca Pascale.
Con una sua singolare riflessione sul presidente che verrà, la ventinovenne fidanzata di Silvio Berlusconi esce dal riserbo delle ultime settimane, un periodo di inusuale sottrazione - neanche un servizio sulle riviste patinate o di gossip della casa editrice di famiglia - che sembrava coincidere con una crisi definitiva tra i due, un allontanamento temporaneo o definitivo: evento poi smentito da entrambi.
«Il resto dei nove anni di “re Giorgio”? Un disastro », per lei. Lady B. respinge quindi l’idea di «un Veltroni o un Prodi» al Quirinale, come «il diavolo con l’acqua santa. Peccato che nessuno sia acqua santa». Poi snocciola: «Letta, Casini, Amato», come triade da portare avanti perché «presidente e coalizione» hanno deciso così. E infine, a sorpresa, si fa sfuggire un sospiro di ammirazione per una signora eventuale outsider. Quasi un piccolo sogno (istituzionale) proibito: Anna Finocchiaro.
Amante delle boutade? O sta prendendo gusto a giocare da amazzone della dialettica politica? «Io dico quello che penso, da militante convinta e da cittadina che prova a pensare. Ma poi le scelte toccano al partito, al leader, mi sembra scontato».
Francesca Pascale, si assiste a un coro di saluti riconoscenti e calorosi per Giorgio Napolitano, il Capo dello Stato più longevo. E lei che viene dalla stessa città, cosa ne pensa?
«Devo essere finta, diplomatica, ipocrita?».
Possibilmente, no. Rispettosa, sì.
«Allora devo dire che apprezzo tantissimo solo il fatto che sia nato e cresciuto nella mia stessa città e che obiettivamente sia legato, in particolare, alle sorti di Napoli, del sud. Per il resto penso che non si sia mai liberato della sua cultura comunista. Ricordo in particolare il saluto, sì quello strano innaturale saluto, tra lui e il neo-premier Mario Monti. Un altro governo non eletto dal popolo».
Non vale. È propaganda ed è anche datata. Non pensa?
«Io penso che lui non abbia rappresentato tutta l’Italia, che non l’abbia amata tutta».
Il paradosso, comunque, è che oggi ha più fairplay lei, che lo definisce “figlio illustre di Napoli”, rispetto al sindaco de Magistris che ieri, dopo i noti attacchi lanciati verso il Quirinale, ha ignorato le dimissioni di Napolitano.
«Scusi, vuole mettermi a paragone con de Magistris? Quel sindaco con la bandana è un disastro».
Guardiamo al futuro, parliamo del presidente che verrà. Se proprio fosse costretta a scegliere tra Prodi o Veltroni?
«Mica sono matta».
Scelga.
«Dico Letta. Anzi dico i tre nomi della coalizione, Gianni Letta, Pierferdinando Casini o Giuliano Amato».
Non è troppo paludato come profilo, per lei? Se parlassimo di una donna, per esempio: Anna Finocchiaro?
«Eh , mi piacerebbe».
Lo ha detto al “suo” presidente Berlusconi?
«Non scherziamo. Sta sull’altro schieramento, ovvio. Però non posso negare che sia una donna di carattere, indipendente, con una sua storia. Ed elegante, sì. Il che non guasta».
Si potrebbe leggere, tra queste sue poche parole: “noi del centrodestra non ce l’abbiamo un nome di donna così, da spendere al Quirinale”.
Sorride. «Guardi, già mi massacreranno. Vuole che non ne esca viva?».

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FABIO MARTINI, LA STAMPA –
Sempre con l’adrenalina a mille, alle 8 del mattino Matteo Renzi si presenta al Nazareno, apre i lavori della segreteria del Pd e qualche minuto più tardi Filippo Sensi, capoufficio stampa di Palazzo Chigi provvede a lanciare su Instagram le foto della riunione, mani che lavorano, visi pensosi, fervore mattutino. Nella riunione Renzi spiega ai suoi ragazzi i preliminari della vicenda Quirinale, ma poi a riunione finita, in una chiacchierata informale a chi gli chiede di Romano Prodi, il premier-segretario dà una risposta eloquente: il replay di quel flop va evitato a tutti i costi. Morale della favola, Romano Prodi è fuori dalla prima rosa, che poi per Renzi è quella che conta, quella con la quale vuole eleggere il prossimo Capo dello Stato. Ma non è tutto. Nelle esternazioni pubbliche di queste ore il presidente del Consiglio ha detto poche cose ma chiare e la più chiara è questa: «Ragionevolmente a fine mese avremo il prossimo presidente della Repubblica». Dunque, sin dalla quarta o quinta votazione, quelle nelle quali è sufficiente la maggioranza degli aventi diritto. Torna in Renzi la velocità, torna l’urgenza di apparire il leader che tira fuori il Paese dalla palude.
La seconda cosa chiara l’ha chiarita ieri pubblicamente: «Dobbiamo discutere il profilo di un grande arbitro che aiuti il Paese a crescere». Un identikit finalmente esplicito che, incrociato alle chiacchiere riservatissime fatte da Renzi con i suoi amici, aiuta a scoprire la sua carta coperta: il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Gli incastri convergono. È Visco, o meglio può essere lui - il «grande arbitro», che aiuta l’Italia a «crescere», verbo non casuale; è lui - per citare il Renzi di due giorni fa - «il Presidente che si trova ad assumere «rilevanti responsabilità in alcuni passaggi» e «rilevantissime in alcuni momenti storici», in definitiva potrebbe essere il Governatore della Banca d’Italia «la personalità di grande livello» che può aiutare l’Italia nella sua transizione economica.
Naturalmente Renzi sa bene che la battaglia per il Quirinale è snervante e un’eventuale candidatura Visco potrà essere messa in campo soltanto nel momento in cui i suoi promotori fossero sicuri di poterla condurre in porto. Proprio perché questo scenario non è garantito, Renzi si lascia aperte tutte le porte. Con alcune preferenze. Subito dopo Visco, nella rosa di Renzi, almeno così dice nelle sue chiacchierate informali, c’è una seconda fascia, formata da due nomi, capaci di coagulare attorno a loro, maggioranze larghe: l’ex vicepresidente del Consiglio (del governo D’Alema), ex Dc, ex Ppi, attuale giudice della Corte Costituzionale Sergio Mattarella e il sindaco di Torino, nonché presidente dell’Anci, Piero Fassino.
Nella top ten di Renzi, in terza fascia, l’ex leader del Pd Walter Veltroni. Un nome, si sussurra a palazzo Chigi, che potrebbe essere calato in caso di crisi degli schemi di gioco precedenti. Naturalmente nella corsa al Quirinale contano i tempi di esposizione e di «combustione» mediatica e proprio per questo a palazzo Chigi hanno cercato di capire come fosse uscita sui giornali la voce di un Veltroni in ascesa e l’indagine ha dato una risposta, a suo modo, scontata, quando nel Pd si deve trovare il nome di un colpevole: una volta ancora, sarebbe Massimo D’Alema, l’«uomo nero» che torna buono in ogni stagione. C’è poi una quarta fascia e questa comprende personalità dal profilo diverso, che Renzi lascia correre sui giornali soprattutto per vedere l’effetto che fanno: l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, la presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato Anna Finocchiaro, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

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MATTIA FELTRI, LA STAMPA –
Grande concordia fra le forze politiche: il nuovo presidente della Repubblica deve essere super partes. Seguono qualificazioni altrettanto nobili. Deve essere di alto profilo, deve essere di indiscusso spessore, deve essere un punto di riferimento. Deve essere «più legato allo spirito della Costituzione, ai princìpi e all’assetto che i padri costituenti vollero scrivere nella Carta», dice Antonio Ingroia, presidente di Azione civile. Deve essere «difensore delle istituzioni e convinto europeista», dice Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. Europeista? Certo, ma che sia «una figura distante dai circuiti europei di potere e che abbia come priorità assoluta la difesa dell’interesse nazionale», dice Giorgia Meloni di F.lli d’Italia. E non sia dunque, come Giorgio Napolitano, «un collaborazionista dell’Europa delle banche, sempre pronto a difendere i grandi interessi», dice Alessandro Di Battista dei cinque stelle. E che «goda di credibilità all’estero», dice Dorina Bianchi dell’Ncd. Ma allo stesso tempo sia, come Giorgio Napolitano, «un grande amico dell’Alto Adige Südtirol e dell’Austria e sia sempre attento e sensibile alle istanze delle autonomie speciali», dice Karl Zeller di Per le Autonomie. Si affianca - con enfasi più contenuta, almeno geograficamente - il presidente della provincia di Bolzano, Arno Kompatscher: «Abbia attenzione e rispetto per lo Statuto di Autonomia».
Il grande arbitro
E dunque chi? E dunque, dicono dal Partito democratico, il nome lo facciamo noi. Sarà «un grande arbitro», dice Matteo Renzi. E se il nome lo fanno loro, dice Maurizio Gasparri, «il meglio del Pd è Sergio Mattarella». «Non facciamo nomi», dice Renzi. Ma qualunque nome facciate deve essere uno capace di «fermare la persecuzione politica e giudiziaria nei confronti di Silvio Berlusconi», dice Daniela Santanchè. Però, per la procedura, si chiaro che «dobbiamo eleggere il Capo dello Stato che rappresenta tutti gli italiani, e la scelta non può coincidere con una sorta di primarie del Pd», dice il capo dell’Ncd, Angelino Alfano. «Bravo!», dice Nunzia De Girolamo. «Sia un italiano per gli italiani», dice Stefania Prestigiacomo di Forza Italia. «Che rafforzi l’immagine dell’Italia a partire dalla riduzione delle tasse» dice, sempre da Forza Italia, Domenico Scilipoti Isgrò (il doppio cognome è una recente conquista). Importante è la nerboruta indicazione di Renato Brunetta: «Basta con i presidenti della Repubblica che vengono dal Partito comunista». «Fosse per me», dice l’ex sindaco di Bari, Michele Emiliano, «il presidente non lo farei con FI ma con il M5S». Ottimo, e come lo vuole il M5S?
Che non firmi le «porcate»
«Me ne basterebbe uno che non firma qualsiasi cosa», dice Beppe Grillo. «Che non firmi leggi porcate», specifica Luigi Di Maio. «Ma tanto alcuni di loro (generico, ndr) vanno in Germania, negli Stati Uniti, vanno dai potenti e quando hanno il loro parere lo eleggono», aggiunge Grillo tirandosi fuori. A proposito: «Che sia una Merkel italiana!», dice ancora la Meloni. Anzi, proprio una donna, «sarebbe ora», dice il governatore leghista Bobo Maroni. E che donna? «Anna Finocchiaro è una abbastanza brava, anche se io ci metterei Ettore Albertoni», dice Umberto Bossi. «La Finocchiaro? Non ce la vedo proprio», dice Matteo Salvini, che preferisce «Angelo Panebianco e Piero Ostellino». Il segretario della Lega mette una condizione irrinunciabile: «Basta coi rottami di sinistra», categoria alla quale evidentemente non appartiene Piero Fassino, lanciato dal collega leghista di Verona, Flavio Tosi.
Nero, perché no?
Ci siamo: il ritratto è quasi completo. Che manca? «Lo vorrei nero», dice Cécile Kyenge. «Non lo vorrei eletto da parlamentari diventati tali grazie all’incostituzionale premio di maggioranza del Porcellum», dice Francesco Storace. «Lo vorrei all’altezza di Franco Marini e Romano Prodi», dice Pierluigi Bersani. E poi attenzione che c’è l’emergenza lavoro! «Sia autorevole sul lavoro», dice Anna Maria Furlan della Cisl. E attenzione che c’è l’emergenza terrorismo! «Ne serve uno per contrastare i pericoli del terrorismo che minacciano la nostra nazione», dice Giuseppe Esposito dell’Ncd. E attenzione che van fatte le riforme! «Dia una spinta verso una nuova stagione di riforme», dice Carlo Sangalli di Confcommercio.
Il dottor Frankenstein?

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FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA –
Terrà fede al soprannome che gli hanno affibbiato in Consiglio dei ministri, perciò prima di lanciare un nome per il Colle Renzi «last minute» aspetterà fino all’ultimo, fino all’ultimo studierà i candidati e i sondaggi che sul loro conto ha commissionato. E siccome dai dati demoscopici emerge che nessun politico spicca oggi negli indici di gradimento, non ha definitivamente accantonato l’idea della sorpresa.
Ma di questo il premier tace con i quirinabili, a cui dice o fa dire cose che non spengono le loro speranze. Per Amato ha avuto parole commendevoli, a Del Rio ha spiegato che «tu saresti il mio ideale», a Casini non ha opposto veti all’ipotesi di un esponente dell’area moderata al Quirinale. Tranne Cantone – a cui ieri ha cancellato ogni aspirazione sostenendo in pubblico che «lui ha già tanto da fare all’Autorità anticorruzione» – il leader del Pd fa sentire tutti in corsa. Se i candidati di Renzi si costituissero in Associazione, capirebbero che a ognuno di loro è stata detta sostanzialmente la stessa cosa.
Sarà per via della sua indole o per la difficoltà politica di comporre al momento l’intricata faccenda, in ogni caso il premier sta alimentando le ambizioni di quanti vorrebbero succedere a Napolitano. E li tiene stretti a sé, grazie a un network di fedelissimi che risponde solo a lui e che ha il compito di monitorare i quirinabili e riferirgli ogni dettaglio delle loro conversazioni.
Così a Delrio è stato assegnato il «fronte emiliano», dove sono di stanza Prodi e Castagnetti. Alla Boschi sono toccate la Severino e la Finocchiaro. La Madia è stata facilitata, visto che parla ogni giorno con il figlio di Mattarella, capo legislativo del suo dicastero. Nessuno si risparmia. Persino il sindaco di Firenze è coinvolto da Renzi nella «rete»: è Nardella infatti a tenere in via riservata i rapporti con Amato.
Agli ex segretari del partito ci pensa invece il premier, conscio che «tutti i miei predecessori si sentono candidati in pectore per il Quirinale». E con loro Renzi parla, più di frequente manda sms di lusinga o di rassicurazione. Ma tra questi c’è chi ricorda com’era rassicurante il messaggio inviato dal segretario del Pd a D’Alema quando era in ballo per una nomina in Europa: è un messaggio che l’ex premier ha tenuto nella memoria del telefonino e che ogni tanto mostra ai suoi interlocutori per metterli sull’avviso.
In fondo però Renzi va capito. Deve gestire il passaggio più delicato della sua giovane carriera politica, con avversari interni ed esterni al suo partito che — a scrutinio segreto — vorrebbero riservargli il trattamento della rottamazione. Il premier però è convinto di partire nella corsa al Colle da una posizione di forza, e da lì poter mediare: «Nessuno — spiega — potrà fare un presidente della Repubblica contro di me, anche se io dovrò farlo insieme agli altri».
Gli «altri» sono Berlusconi, l’Area popolare di Alfano e la minoranza democratica. E pur di tenere dentro l’accordo il Cavaliere, mette in conto di perdere un pezzo del suo stesso partito. Il problema è di non perdere tanti pezzi del Pd e soprattutto di non ritrovarsi con una Forza Italia a pezzi. Questo è il maggior rischio, evidenziato ieri nell’Aula della Camera e riassunto in un tweet dal renziano Giachetti: «Dal dibattito sulle riforme si deduce che a giorni cadrà la giunta Maroni e che ad ore i fittiani usciranno da Forza Italia».
Nonostante Berlusconi faccia sfoggio dei «nostri 150 grandi elettori» per dire che «al Quirinale non voteremo un capo dello Stato come gli ultimi tre», lo spettacolo offerto a Montecitorio non è stato un bel segnale per il premier alla vigilia della partita per il Quirinale. E come non bastasse, in vista delle prime tre votazioni — le più insidiose per Renzi — i dirigenti del Pd hanno segnalato a palazzo Chigi movimenti di truppe Cinquestelle, pronte a votare Prodi per tentare di sabotare il patto del Nazareno. Come ammette il vice segretario del Pd Guerini, il passaggio in cui è prevista la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori, «sarà delicato».
Ecco spiegato l’ endorsement per Veltroni, che di fatto viene contrapposto al fondatore dell’Ulivo. Guerini confuta la tesi, spiegando che «comunque un candidato forte si misura poi alla prova del consenso». Insomma, è solo l’inizio della sfida, non è pensabile sia già scritta la fine. Perciò al momento tutti nutrono speranze. Grasso, per esempio, agli occhi di Renzi si gioca la partita della vita con il «canguro», l’arma usata per eliminare gli emendamenti di massa presentati dalle opposizioni per fare ostruzionismo. E il presidente del Senato — pur da supplente di Napolitano — tiene la regia dell’Aula di palazzo Madama dov’è in gioco l’approvazione dell’Italicum prima delle votazioni per il Colle.
Nell’attesa tutti si apprestano a manovre di posizionamento. Anche quello che un tempo fu il centrodestra — cioè i gruppi di Forza Italia e di Area popolare — dovrà decidere: marcerà in ordine sparso verso l’intesa con il premier o darà vita a un preventivo patto di consultazione? Alfano, puntando per il Colle su una personalità «garante di tutti e con sensibilità cattolica» si schiera per Casini. E Berlusconi?

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NINO BERTOLONI MELI, IL MESSAGGERO –
Non si sa se lo hanno scelto apposta o per caso, fatto sta che andare a cenare al ristorante ”Scusate il ritardo” è il must per dei cattolici che militano nel Pd e devono eleggere il nuovo capo dello Stato. Dura da sedici anni il loro ritardo, da tanto digiunano, da quando Oscar Luigi Scalfaro lasciò, e da allora solo Presidenti laici e di sinistra. Si ritrovano in 57 nel locale con vista sul Pantheon, varie anime degli ex popolari a esclusione di bindiani e lettiani (solo dissidenti dei rispettivi gruppi). Tra i commensali, Bocci, Grassi, Richetti, Bobba, Rubinato, Santini, Fiorio, Preziosi, Cova e, vedette della serata, Lorenzo Guerini, il vice segretario di Renzi. Dieci tavoli da sei persone, sotto l’attenta regia di Beppe Fioroni che parla per primo tra una portata di pasta asciutta e un’altra di tagliata di carne (35 euro a testa, «ma si è mangiato malissimo», il lamento di più di un commensale). Fioroni sarà pure ex democristiano di scuola andreottiana, ma a differenza dei suoi maestri non gli piace girare attorno alle cose, va direttamente al nodo.
LE CARTE DA GIOCARE
La sua tesi è che «bisogna sperimentare la possibilità di un candidato cattolico dopo tanti anni di astinenza», altre volte, e pare anche alla cena, ha parlato apertamente di procedere su un candidato «non Ds», sicché a detta di alcuni dei partecipanti la cena è sembrata planare, alla fine, sul sostegno a candidature tipo quella di Sergio Mattarella o ancora meglio Pierluigi Castagnetti, l’ultimo segretario del Ppi, «senza ostilità preconcetta verso un Veltroni». Ma i nomi che circolano nel Pd sono anche quelli di Walter Veltroni, Piero Fassino, Anna Finocchiaro, Paolo Gentiloni e Graziano Delrio.Resta poi la carta Romano Prodi.
Sul punto però le versioni cambiano. Secondo Gero Grassi, moroteo prima che fioroniano, «se era una cena per Mattarella non mi avrebbero invitato, e non perché io non voterei Sergio, ma perché non era questo l’obiettivo». Dunque? Grassi spiega scandendo le parole: «Puntiamo a essere un pacchetto di mischia a favore del governo, a favore del premier, contro le elezioni anticipate, per le riforme, dei facilitatori più che un ostacolo». Per il pesarese Ernesto Preziosi, fresco di stampa di un libro sull’impegno politico dei cattolici, «dopo quello che è successo la volta scorsa con candidati passati via sms, meglio vedersi prima, discutere, confrontarsi». Le conclusioni sono state fatte da Guerini, destinato a ingrassare in questa campagna presidenziale visto che ha promesso «parteciperò a tutte le cene e gli appuntamenti come questo, dobbiamo ascoltare, discutere, confrontarci», appellandosi poi al «senso di responsabilità» et similia. Al termine però, con la maggior parte dei commensali usciti per fumare o per rientrare a casa, si è formato un ristretto capannello di 4-5 superstiti e lì Guerini ha smesso per un po’ i panni di Arnaldo (nel senso di Forlani, il suo nume ispiratore) per assumere quelli del vice del Pd, mettendosi a illustrare i «criteri» per la scelta al Colle, «l’identikit», i «patti», avvicinandosi a qualcosa di concreto, «ma il nome no, non potete chiedermelo, sapete com’è Renzi, quello è capace di cambiare schema all’ultimo momento».
Il Palazzo è in fibrillazione, cene e incontri si susseguono e sono destinati a infittirsi. A cena si sono visti anche i giovani turchi, al Baccano vicino Fontana di Trevi sotto la regia di Andrea Orlando. Lunedì toccherà ai dalemiani, mentre non mancano cene ”etniche”, trasversali, come quelle organizzate dai calabresi, sponsor Stumpo, Calipari, Dorina Bianchi. Si stanno muovendo per primi e per tempo i cattolici, vuoi per il ”ritardo” e il digiuno di tre lustri, vuoi perché la componente centrista costituisce una importante massa critica in vista delle votazioni. Il Sole 24ore ha calcolato in 118 i grandi elettori centristi in attesa di un candidato.
Nino Bertoloni Meli

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ANTONIO CALITRI, IL MESSAGGERO –
È partita la caccia da parte di Matteo Renzi a 505 grandi elettori sicuri per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Con le dimissioni ufficializzate ieri da Giorgio Napolitano e con la convocazione dei 1.009 grandi elettori per giovedì 29 gennaio, i giochi adesso si fanno seri. E di colpo anche nel Pd dove fino a poche settimane fa si professavano quasi tutti renziani, iniziano i riposizionamenti e i ripensamenti che preoccupano seriamente il premier.
Quel clima favorevole a Renzi sorretto anche dal patto del Nazareno e appena scalfino dai 40 dissidenti ufficiali del Pd, è stato rotto da due fatti che rappresentano in filigrana l’apertura delle ostilità e che possono arrivare a mettere in gioco non solo l’elezione di un personaggio gradito al premier, ma anche la permanenza dello stesso alla guida del governo. Nella settimana che ha preceduto le dimissioni di Napolitano prima è venuta fuori la norma sulla non punibilità della frode fiscale sotto il 3%, quel Salva- Berlusconi che ha scatenato i democrat e ha costretto il premier a ritirarla. Poi è arrivato l’attacco di Pier Luigi Bersani che ha accusato il premier di essere stato il regista dei 101 che affossarono Romano Prodi. E ora possono partire i giochi.
I 6 SENATORI A VITA
L’elezione del presidente della Repubblica è regolata dall’articolo 83 della Costituzione che prevede un’assemblea di grandi elettori formata dai deputati (630), senatori (315), senatori a vita (6) e delegati delle regioni (58). Per un totale, a questa tornata, di 1009 votanti a scrutinio segreto, due in più rispetto all’assemblea che ha eletto Napolitano nell’aprile 2013. Per eleggere il capo dello Stato, nei primi tre scrutini è necessaria una maggioranza dei due terzi degli elettori ovvero 672 voti se tutti gli aventi diritto partecipano. Dal quarto scrutinio basta la maggioranza assoluta che è di 505 voti. Con un Pd che tra deputati, senatori e rappresentanti delle regioni vanta quasi 450 elettori, sulla carta basterebbero soltanto altri 55 elettori. E se si pensa che la maggioranza di governo da sola ne vanta 589, il gioco dovrebbe essere una passeggiata. Di fatto le cose sono diverse e grazie al voto segreto, molti schemi che sulla carta funzionano, alla prova del voto cadono. Proprio come accadde per l’elezione di Romano Prodi, affossata da 101 franchi tiratori del Pd dopo che solo poche ore prima, i grandi elettori riuniti al cinema Capranica avevano garantito a Bersani di votarlo.
In questi mesi il Pd e l’area favorevole a Renzi si è allargata mente l’opposizione si è ristretta. Il Pd ha conquistato 16 parlamentari in più, provenienti da Scelta civica e da Sel. Il Movimento 5 stelle, il più ostile ad accordi, ne ha persi 26. Sel ne ha persi 10. Il Pdl che aveva 211 grandi elettori non esiste più, al suo posto c’è Forza Italia con 143 e Ncd che si è alleato con l’Udc in Area Popolare dove se ne contano 77. Fin qui i numeri ufficiali.
Poi ci sono i franchi tiratori pronti a far saltare il banco e a rimettere tutto in gioco. Renzi sulla carta ha due opzioni, in teoria tutte e due vincenti. Dal quarto scrutinio infatti, la semplice somma della maggioranza di governo avrebbe 598 voti e potrebbe eleggere il presidente con una soglia di sicurezza di 93 voti. Anche se il Pd si accordasse solo con Forza Italia, i voti sarebbero 589 con 84 voti di sicurezza. Nel pratico queste soglie non sono affatto sufficienti.
I FUORIUSCITI M5S
Nel solo Pd, tra opposizione ufficiale, dalemiani e bersaniani passati con Renzi, il braccio destro del premier Luca Lotti ha contati massimo 130 franchi tiratori, troppi per reggere uno dei due schemi, maggioranza di governo o patto del Nazareno. Con l’aiuto di qualche gruppo minore e dei fuoriusciti grillini però, questi potrebbero essere sterilizzarli. I numeri che circolano, considerando anche una parte di Area Dem e i delegati delle regioni non renziani o renziani della seconda ora, parlano di una forbice di almeno 150 ma che può arrivare a 190. Una fronda che metterebbe a rischio qualsiasi patto. Anche perché, nel solito pallottoliere che tengono Lotti e Lorenzo Guerini, i renziani fedelissimi sono solo 250. A tutto questo poi, va aggiunta la fronda di Forza Italia che sta organizzando Raffaele Fitto. Anche qui i numeri ufficiali parlano di 40 voti, ma considerando il lavorio che sta facendo l’ex ministro nelle regioni e i tanti scontenti che sanno che non saranno ricandidati, a maggior ragione se passa l’Italicum, sembra si possano superare i 50. E con quasi 240 franchi tiratori, non reggerebbe nessun accordo. O meglio, soltanto quello di trovare un nome di garanzia per far confluire l’intera maggiorana e Forza Italia, che raggiungerebbero insieme i 741 voti con una soglia di sicurezza di 236 ”traditori”.
Antonio Calitri

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ROBERTO SCAFURI, IL GIORNALE -
Fuori i nomi, anzi fuori il nome. Il gioco delle autocandidature al Quirinale impazza sui giornali prim’ancora che nei Palazzi, dove i ragionamenti che si fanno per ora prescindono dal nome del «papabile». Prudenza o scaramanzia a parte, il premier Renzi sta conducendo un legittimo tentativo di guidare le danze: non solo per evitare brutte figure, quanto perché dal futuro inquilino del Colle dipende anche la sua futura agibilità politica (specie in assenza di risultati). Il problema è come creare le condizioni di fondo per far crescere la rincorsa dei «cavalli» che ha in mente e che tirerà fuori a seconda degli schemi che si presenteranno.
STORIA DOCET. Dei dieci presidenti è assai interessante leggere il corsus honorum istituzionale. La carica che mette in pole position è quella di presidente della Camera: lo erano stati due volte Gronchi, Leone e Pertini, una Scalfaro e Napolitano. Curriculum legati all’attività di governo quelli di Segni e Cossiga, mentre governatori Bankitalia erano stati Einaudi e Ciampi. Uno solo aveva fatto prevalentemente attività di partito, Saragat, assumendo meriti per aver diviso i socialisti.
IL PESO DEL CANDIDATO. Mutati i tempi, calata la caratura, oggi ad avere curriculum istituzionali all’altezza sono in due: Prodi e Amato, «campioni» di schemi agli antipodi. Il fondatore dell’Ulivo e del Pd, sempre che Berlusconi non ponga veti (ma ha detto di non porne), rappresenterebbe il suggello alla pacificazione nazionale. Con un occhio all’economia e fittissima rete internazionale, tali però da farne lo spauracchio di Renzi, che si potrebbe sentire sminuito, addirittura «commissariato». Se le sinistre e i grillini trovassero sponda nel Pdl (fittiani), il suo nome salirebbe nelle prime tre votazioni, fino a porre Renzi di fronte al bivio: farlo suo candidato o mollarlo e precipitare verso l’incognito. Amato, assai più gradito al centrodestra, potrebbe invece essere impallinato all’interno del Pd. Come il suo passato testimonia, per il premier sarebbe l’arbitro perfetto per il Colle: competente senza soverchiarlo. Meglio ancora di Amato, nella logica del premier, è Rutelli, capofila di tutti i suoi più stretti collaboratori. Ma assai scarno il curriculum, e variopinto: da radicale a verde, da assaltatore anticlericale della Camera a teo-dem, fino alla scandalosa Margherita. Soluzione di ripiego: Mattarella, giudice costituzionale, ma figura politica sbiadita.
PARTITO BOYS. Figure rilevanti solo per presenza sulla scena politica, giornali e talk show (almeno quando erano in auge). Hanno ricoperto cariche di partito, e poco altro. Il numero uno è Veltroni, azzoppato però dalla presenza del suo ex vice capo gabinetto Odevaine in Mafia Capitale. Poi Fassino, che avrebbe gran voglia di mettersi alla pari dei corazzieri. O Franceschini, già portaborse di Marini (a proposito: l’ottantenne ex presidente del Senato s’è rifatto vivo, dopo la cocente delusione del 2013, per dire di «non essere disponibile» - da leggere all’incontrario). Infine Castagnetti, del quale non si ricordano né opere né omissioni, e la coppia Bassanini-Lanzilotta, marito e moglie, entrambi aspiranti ma assai lontani dall’identikit che serve. Se non a Renzi, gallo del pollaio.
MATTEO GIRLS. In un possibile impasse, Renzi avrebbe sempre la carta in grado di sparigliare, futile come pretendono i tempi: la presidente donna. La triste uscita dalla corsa della Bonino, unica adeguata alla bisogna, fa sì che ne restino in lizza tre: Finocchiaro, Pinotti e l’ex ministro Severino. Gradite nella rosa per questioni di audience, hanno peso lieve, lievissimo, proprio come piace a Renzi. Forse non ai partner Ue.
SURPRISES. Se potesse fare da solo, avrebbe già deciso: tirerebbe una monetina tra Delrio e Padoan, poi farebbe il tweet di felicitazioni. Ma la situazione potrebbe incancrenirsi e sfuggire dalle mani di Renzi. In questo caso, a nutrire speranze suffragate da percorsi istituzionali, sono Grasso e Violante (unico ex presidente della Camera spendibile, anche se inviso a buona parte del Parlamento). Se si andasse per le lunghe, visto che in teoria toccherebbe a un cattolico, sarebbe(ro) Casini. Un maestro del genere.

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STEFANO FOLLI, LA REPUBBLICA -
L’uscita di scena di Giorgio Napolitano è percepita da molti, anche dai suoi critici, come un fatto storico. Non tanto perché priva di precedenti (c’è l’eccezione di Cossiga che si dimise qualche settimana prima della scadenza). Quanto perché l’immagine dell’anziano signore che con molto decoro, sotto braccio alla moglie, lascia per sempre il Quirinale, porta con sé vari interrogativi.
Uno resterà senza risposta: non sapremo mai se nella decisione del capo dello Stato di ritirarsi abbiano contato solo l’età e i malanni, ovvero anche l’amara constatazione che la classe politica nel suo insieme non riesce ad affrancarsi dai suoi vizi di fondo. In ogni caso, anche quelli che dicono «meno male che se n’è andato » gli rendono omaggio in modo indiretto: riconoscono cioè che in tempi recenti nessuno come Napolitano, a parte il Renzi degli ultimi mesi, ha inciso così tanto nel dibattito pubblico e lo ha condizionato con la sua personalità. Il che accentua il vuoto del Quirinale: fino a che punto il venir meno di una figura autorevole e centrale determinerà uno squilibrio?
Secondo punto. I critici insistono sul «fallimento » del secondo mandato, per dire che è stato un errore di Napolitano accettare la rielezione. E si stabilisce un confronto fra il tono duro, perentorio del famoso discorso della reinvestitura davanti al Parlamento e il magro bilancio odierno per quanto riguarda le riforme approvate e il rinnovamento istituzionale avviato. In realtà, se si vuole usare il termine fallimento, esso non riguarda il presidente, che si è speso senza risparmio per favorire il processo riformatore, bensì il sistema politico nel suo complesso. Un sistema che nel 2013 aveva confessato la sua impotenza ad eleggere un altro capo dello Stato e si era rivolto a Napolitano per aggirare il disastro. Da allora quel sistema ha dato solo fragili segni di novità: c’è il dinamismo volitivo di Renzi, ma anche nel suo caso mancano risultati degni di nota. Il conservatorismo autoreferenziale della classe politica non si è modificato di molto e fra pochi giorni si tornerà a votare per il presidente della Repubblica senza nemmeno avere alle spalle la possibilità di ricorrere di nuovo a Napolitano.
L’intreccio fra la scadenza del Quirinale e la riforma elettorale, che sarebbe stato opportuno evitare, è invece sul tavolo. Quanti nel Pd si battono a suon di emendamenti in Senato contro le liste bloccate e di conseguenza contro l’altissimo tasso di «nominati» che entreranno in un Parlamento peraltro monocamerale (dopo la trasformazione del Senato) sono gli stessi chiamati a votare a giorni per il capo dello Stato. Come non vedere quale groviglio di frustrazioni e desiderio di vendetta si è creato nella pancia del partito, almeno fra coloro che non hanno nulla da perdere perché sanno di non essere comunque ricandidabili?
È in questo clima che Renzi ostenta la più placida sicurezza, convinto — come è noto — che il presidente della Repubblica sarà eletto alla quarta votazione. È come se volesse dare coraggio soprattutto a se stesso e in secondo luogo all’opinione pubblica che lo festeggia in giro per l’Italia. Senza contare, tuttavia, che i battimani non bastano a nascondere gli indici dei sondaggi, per la prima volta in declino. Quanto ai candidati alla successione quirinalizia, non è facile individuare un nuovo Napolitano, ma ancora più difficile e rischioso è rinunciare in partenza al nuovo Napolitano.
Negli ultimi giorni Renzi ha accentuato la spinta psicologica a favore della quarta votazione, dopo che nelle prime tre il Pd voterà scheda bianca (chissà se questo punto è concordato con Berlusconi, il che porterebbe a un’invasione di schede bianche: sarebbe la prova, al di là di tante parole, che il fatidico «patto» esiste e si manifesta nei passaggi topici). Ma in tutti i casi occorre arrivare all’appuntamento con un concorrente che non coalizzi troppi franchi tiratori contro. I quindiciventi nomi che si leggono sui giornali come candidati vanno anche bene sotto il profilo istituzionale, ma sono la prova che per adesso nessuno ha le idee chiare. Nemmeno quei candidati che esagerano nella campagna elettorale personale.