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 2014  dicembre 24 Mercoledì calendario

SARA’ DIFFICILE TAGLIARE LE UNGHIE ALL’ORSO RUSSO

Che cosa ci possiamo aspettare per il prossimo anno da Vladimir Vladimirovic Putin? Gli elementi che si possono ricavare dalla sua lunga conferenza stampa del 18 dicembre risultano poco risolutivi, e in fin dei conti piuttosto enigmatici.
Disponibilità a trattare per risolvere la crisi dell’Ucraina orientale, ma nello stesso tempo elogio dei «volontari» russi che combattono con i separatisti («dato che non sono pagati, non sono mercenari»): ammissione delle difficoltà economiche della Russia, ma solo dopo avere messo in risalto, con un elenco di stile vagamente sovietico, una serie di risultati positivi; riconoscimento che i problemi sono dovuti anche alle sanzioni (ma solo per «un 25-30 per cento»); ostentata fiducia che «nella peggiore delle ipotesi» l’economia russa uscirà completamente dalla attuale congiuntura negativa nel giro di due anni.
Un tono leggero, a tratti anche scherzoso, e persino un’insolita, tollerante pazienza nei confronti di domande puntute, come quelle rivoltegli dalla conduttrice televisiva Ksenia Sobchak e da un giornalista ucraino che ha duramente denunciato l’aggressione russa.
Consensi ancora alti
È evidente che in questa fase Putin ci tiene a proiettare un’immagine di fiducia e sicurezza, soprattutto nell’intento di contrastare il clima di quasi-panico che si sta diffondendo in una popolazione che assiste alla vertiginosa svalutazione del rublo e che accaparra quanti più beni di consumo nell’aspettativa di un radicale aumento dei prezzi.
Ma se è vero che tutta la sua storia sia politica che personale dimostra che Putin è sostanzialmente un pragmatico, capace di adattarsi opportunisticamente al variare delle circostanze, sarebbe un errore dimenticare lo «zoccolo duro» della sua ideologia e del suo progetto politico. Ricorrendo non per la prima volta alla classica, popolare immagine, Putin ha risposto a una domanda sulla crisi ucraina parlando della Russia come dell’orso che difende il proprio territorio, e si è chiesto retoricamente: «Pensate forse che se l’orso se ne restasse buono e tranquillo - senza dare la caccia ai porcellini e nutrendosi di bacche e miele - lo lascerebbero in pace?». E si è dato subito la risposta: «No, non lo lascerebbero in pace, perché il loro obiettivo costante è metterlo in catene e poi strappargli denti e artigli».
Una storiella inquietante, non certo perché sia falso che si sia davvero cercato di mettere in un angolo, se non incatenare, l’orso russo, ma perché conferma che l’aggressività della Russia di Putin si basa su una frustrazione di fondo, su un risentimento storico, su una non accettata condizione di debolezza oggi drammaticamente confermata dalla crisi economica. Sentimenti ampiamente condivisi dalla popolazione, di modo che risulta oggi impossibile immaginare, anche nel medio termine, una leadership alternativa a quella di Putin, se non una ancora più nazionalista e aggressiva.
E poi, anche se ammettiamo che l’orso vorrebbe davvero starsene tranquillo nel suo territorio, come si fa a non chiedersi chi sarebbero «i porcellini» cui l’orso vorrebbe dare la caccia per nutrirsene? Non sarà che questo orso carnivoro assomiglia troppo a un lupo? E come si definisce il territorio entro il quale dovremmo lasciarlo in pace? Per Putin comprende Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud, Crimea, Donbass. E basta?
La questione dei confini
Ecco il non facile dilemma che ci troveremo ad affrontare nel prossimo anno: come definire e riconoscere il legittimo territorio dell’orso e le sue preoccupazioni di sicurezza, ma anche come impedire gli sconfinamenti e soprattutto come evitare che faccia strage di porcellini.
Non sarà facile mantenere l’unità europea, e atlantica, di fronte a questo problematico compito, ma forse la storia ci può fornire qualche suggerimento. Non certo perchè si possano ripetere gli schemi della Guerra Fredda: la Russia di oggi non è certo in grado – né militarmente, né economicamente, né ideologicamente - di rappresentare una sfida globale. Ma da quegli anni del grande confronto dovremmo recuperare la lezione fondamentale che fu allora di George Kennan, quella che porta a escludere sia l’«appeasement» che il «rollback», il tentativo, soprattutto militare, di ricacciare indietro l’avversario. Un compito non facile, un equilibrio sempre instabile, un inevitabile terreno di controversie fra alleati che metterà a dura prova sia noi che gli americani.