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 2014  dicembre 20 Sabato calendario

STALIN INCOMBE, PROKOFIEV SORRIDE

STALIN INCOMBE, PROKOFIEV SORRIDE –
Uno degli avvenimenti musicali più importanti dell’anno è stato il «Festival Prokofiev» svoltosi la settimana scorsa per l’Accademia di Santa Cecilia. Un’orchestra in gran forma ha eseguito le Sinfonie del genio russo sotto la guida di Valery Gergiev: ed è stata la volta che ho visto meglio prodursi questo direttore immensamente dotato ma discontinuo e a volte addirittura poco serio. Qui egli ha diretto il ciclo con grande consapevolezza della fondamentale unità stilistica e di ethos, pur nella grande diversità, di queste opere, dalla Seconda alla Settima (la Prima è cosa sui generis , come diremo); con grande lucidità tecnica e interpretativa; con scioltezza e sicurezza; e persino con un gesto inconsuetamente contenuto, il che di questi tempi è una rarità.
Il massiccio delle Sinfonie di Prokofiev si contrappone, pur se lievemente meno elevato, nella prima metà del Novecento a quello altissimo delle Sinfonie di Sciostakovic; e costituisce anch’esso un terribile monito compositivo ai musicisti ricorrenti alla formula, quale che sia. Con quest’articolo io continuo la palinodia nei confronti dei Mani di Prokofiev che ho incominciata a giugno dopo l’esecuzione de L’amore delle tre melarance al Maggio musicale fiorentino; Mani da me lungamente offesi. Mi è guida, innanzitutto, la voce dedicata al Maestro russo dal sommo Guido Pannain sull’ Enciclopedia musicale Utet nella prima edizione; malamente sostituita nella successiva, come anche per la voce dedicata a Wagner: al suo posto ne è stata collocata una scritta da un celebre fantasista.
La Prima Sinfonia, risalente al 1917, è la più conosciuta delle sette per la sua amabilità neoclassica; e porta infatti il titolo di Classica per il rifarsi allo stile di Haydn. È un pezzo piacevole ma niente di più; e giacché nel 1912 Franco Alfano scrive la sua Sinfonia classica , di un livello e di una complessità armonica e formale pur nella cristallinità dell’impianto da poter essere accostata solo alla musica di Ravel, di Roussel e di Schmitt (ponendosi quindi ben al di sopra di Hindemith e Honegger), il caso della Prima di Prokofiev andrebbe chiuso qui.
La Seconda è invece tra i più importanti monumenti sinfonici del Novecento; e mi pare, insieme con il Giuocatore , da Dostoevskij, e l’ Angelo di fuoco , una delle poche opere autenticamente tragiche di Prokofiev. Il primo movimento è un atroce perpetuum mobile basato su di un ostinato ritmico che pare dipingere il macchinismo del predominio della tecnica nel mondo; e l’orchestra è trasformata in un gigantesco, inesorabile apparato percussivo. Il secondo movimento ne racchiude in realtà tre: a un meraviglioso stormire di zefiri succede un’affermazione vitalistica seguita da un aspro Corale, di nuovo pessimistico; onde, non possedendo tale Corale natura sintetica e conclusiva, tu non sai qual sia la parola ultima della Sinfonia. Prokofiev è anima profondissimamente russa; eppure l’ultima strofe di Quaternario di Gottfried Benn vale a perfettamente descrivere il secondo tempo della Sinfonia: «(...) – scene / ma nessuna ti dà la certezza / se l’ultima cosa sia il pianto / o l’ultima cosa il piacere / o ambedue un arcobaleno / che frange alcuni colori, / riflesso oppure menzogna - / tu non lo sai, non lo sai». Già nella Terza e nella Quarta s’introduce un elemento, dal Pannain definito «beffardo e sardonico», ch’è affatto altra cosa dal grottesco nichilista di Sciostakovic, e che io denominerei Chout , dal titolo del bellissimo Balletto Chout il buffone . Esso erode la compattezza degli stessi primi tempi di Sinfonia, oltre a occupare il luogo dello Scherzo.
Esemplare il caso della Quinta , con uno Scherzo mirabile, e un primo tempo e un tempo lento di quella lancinante intensità melodica propria al nostro Autore. Se questa Sinfonia non possedesse un debole Finale sarebbe un capolavoro assoluto alla stregua della Seconda . A mio disdoro debbo confessare che ho fatto trascorrere esattamente quarant’anni fra il primo e il secondo mio ascolto della Sinfonia. L’avevo apprezzata nel 1974 in un’esecuzione diretta alla Scala dal grande Mtislav Rostropovich.
Prokofiev era così profondamente russo da non resistere lontano dalla patria ancorché questa giacesse sotto la tirannide staliniana; e dai burocrati di partito, assai più illiberali del medesimo Stalin, ebbe a subire persecuzioni che lo fiaccarono.
Oso tuttavia dissentire dal mio Maestro Pannain il quale dice di una dimidiata capacità creativa degli ultimi anni di Sergej; la Settima Sinfonia possiede un’intensità melodica così, mi ripeto, lancinante, e una tale translucidità timbrica, che mi pare vada accostata ai capolavori orchestrali di Olivier Messiaen. Al centro di essa un lungo, complesso e raffinato Valzer: sebbene esso possegga caratteri prettamente novecenteschi non emana da esso l’ethos spettrale emanante dalla Valse di Ravel e dai Valzer di Mahler e Sciostakovic. Sergej non riesce a impedirsi di sorridere.