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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LE RIVELAZIONI DI NAPOLITANO


GRILLO
ROMA - La linea è tracciata: "L’Italia deve uscire dall’euro prima che sia troppo tardi". Così Beppe Grillo sul suo blog, presentando l’incontro con la stampa estera a Roma presenta l’exit strategy dalla crisi del MoVimento Cinque Stelle. Attacchi a tutto campo: dalla presidenza della Repubblica al governo passando per il Pd. Con il leader del M5S ci saranno anche Luigi Di Maio - "già raccolte cinquanta mila firme raccolte per la nostra consultazione" - Laura Castelli, Giorgio Sorial e Alberto Airola, che presenteranno il referendum per uscire dalla moneta unica. L’attacco al presidente della Repubblica: "Napolitano deve costituirsi non dimettersi: è responsabile di aver firmato qualsiasi cosa". E il Pd è il "referente di Carminati di Buzzi". La replica di Guerini: "Fa tristezza".
Un uomo nuovo al Colle. E Grillo, dopo aver incolpato Napolitano del fatto che "i Cinque Stelle non sono al governo" e che "rappresenta solo una fetta di un partito", traccia anche l’identikit del prossimo inquilino del Colle: "Il nuovo Presidente della Repubblica dovrà essere una persona che non firmi qualsiasi cosa, una persona di buon senso, una persona normale e al di fuori degli schieramenti politici". E prima dell’incontro Grillo aveva dichiarato: "Napolitano deve costituirsi, non dimettersi".
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La destra e Renzi. "Altrove le destre vanno in piazza con i bastoni", dice Grillo rispondendo, nella sede della stampa estera, a una domanda sui nuovi equilibri politici europei. E rivendica, per il M5S, il ruolo di argine. "Noi stiamo proteggendo la democrazia. In Germania, in Francia, in Grecia stanno venendo su delle destre che non fanno i banchetti, vanno con i bastoni". Ancora, sull’immigrazione: "Noi non siamo razzisti la destra ha lucrato sugli immigrati. Noi andiamo in mezzo alla gente, noi siamo la gente". Renzi? "Un cartone animato che esegue i diktat della finanza a capo di un governo che decreta su tutto ma non per fermare i ladri". Poi annuncia di voler vedere Salvini per il referendum anti-euro.
L’attacco al Pd. Legge una frase delle intercettazioni di Mafia Capitale, Grillo: "Buzzi parlando con Carminati dice: ’il problema e’ che non ci stiamo più noi. Grillo è riuscito a distruggere il Pd’. Vuol dire che il referente loro a Roma e altrove è un partito che si chiama Partito Democratico". Ancora: "Se avessimo fatto un’alleanza con il
Pd adesso staremmo dentro questa roba qua", spiega Grillo riferendosi all’inchiesta. "Poi che siano disonesti anche a destra nessuno lo mette in dubbio. Sono anni che lo diciamo che stanno fingendo di essere l’opposizione l’uno e dell’altro. Li chiamavamo Pd e Pd meno L. Questa frase deve farvi pensare". La reazione dei democratici arriva con il vice segretario Guerini: "Fa tristezza: Non sappiamo se definire le sue dichiarazioni odierne patetiche o inquietanti. Preoccupa che siano state pronunciate davanti alla stampa estera, dando un’immagine degradata e fuorviante del dibattito pubblico".
Il metodo referendario. Così il leader dei Cinque stelle, ancora dal suo blog, spiega il processo che porterà alla consultazione popolare: "La legge di iniziativa popolare che è stata proposta dal M5S per indire il referendum è di livello costituzionale, questo vuol dire che ha lo stesso livello di importanza della Costituzione. Infatti il referendum consultivo non è stato previsto dalla Costituzione, ma come è già stato fatto nel 1989 prima dell’ingresso nell’euro è possibile prevederlo con una legge costituzionale: ossia quella proposta come legge popolare dal M5S e che i cittadini potranno sostenere con una firma a partire da sabato 13 dicembre". E la scelta dello strumento referendario è in linea "con la storia del Movimento" dice Grillo. "Siamo nati per espandere la democrazia, abbiamo sempre fatto quello che abbiamo detto".
Ricostruire il Paese. Ai giornalisti esteri Grillo ripete la propria diagnosi sulle condizioni dell’Italia: "Questo paese ogni giorno che passa peggiora mentre i partiti parlano di cose che non hanno più senso: parlano del presidente o della Corte Costituzionale o della Legge elettorale". E intanto "stiamo peggiorando in tutti i campi". Poi la linea di demarcazione tra MoVimento e partiti: "Noi non abbiamo sfasciato il Paese e chi l’ha sfasciato propone le soluzioni? Ma non ce l’ha. Ce le abbiamo noi le soluzioni perchè siamo cittadini come voi. Noi abbiamo il diritto a ricostruire le macerie".
Voglia di governo. Poi rilancia l’ipotesi di un governo a Cinque Stelle: "Ci hanno messo in un angolo, ma dovevano dare l’incarico a noi, le elezioni le avevamo vinte noi. Se non ci facciamo del male da soli, non ho dubbi sul fatto che governeremo questo paese, aspettiamo che passi il cadavere".

NAPOLITANO
ROMA - Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha scelto il discorso al corpo diplomatico, convocato al Quirinale per gli auguri, per pronunciare per la prima volta la frase che conferma quanto sta per accadere e su cui la politica si confronta già da settimane: "Imminente la conclusione del mio mandato presidenziale". "La prossima fine di questo anno e l’imminente conclusione del mio mandato presidenziale inevitabilmente ci portano a svolgere alcune considerazione sul periodo complesso e travagliato che stanno attraversando l’Italia, l’Europa e il mondo" ha detto il presidente al corpo diplomatico.
Napolitano ha elogiato "l’opera portata avanti dal presidente Renzi e dal governo, un coraggioso sforzo per eliminare alcuni nodi e correggere mali antichi che hanno frenato lo sviluppo del Paese e sbilanciato la struttura della società italiana e del suo sistema politico". "Un’opera - ha sottolineato il presidente - difficile e non priva di incognite", ma senza "alternative per chi, come noi, crede nelle potenzialità di questo Paese, nel ruolo che deve rivestire in Europa, negli ideali che vuole portare e nella missione di pace nel mondo".
Parlando di Europa, il capo dello Stato ha spiegato come l’Italia, "insieme ad altri Paesi" si sia sforzata "con qualche successo, di focalizzare l’attenzione e la volontà politica dei Paesi membri, sull’imprescindibile necessità" di "combinare il primario obiettivo di crescita e sviluppo" con "realistiche regole di riequilibrio e di disciplina fiscale". La stessa Commissione guidata dal presidente Juncker, "è innegabile che abbia un profilo più nettamente sovranazionale e si ponga obiettivi ambiziosi per rispondere alle sfide comuni in una chiave certamente più ’politica’ di quelle che l’hanno preceduta".
E se "le elezioni del nuovo Parlamento di Strasburgo, pur in un quadro generale che ha visto una rapida e preoccupante crescita di movimenti e partiti euroscettici o apertamente antieuropei, hanno segnato un passo avanti importante verso l’europeizzazione del dibattito politico all’interno dei singoli Paesi membri e verso un inedito svolgimento della dialettica politica al livello veramente continentale". "La nostra comune battaglia - ha esortato Napolitano - sarà far riscoprire ai nostri giovani le ragioni più che mai attuali dello stare insieme e di far apprezzare ai cittadini gli enormi benefici che l’integrazione europea ci ha portato".
Riferendosi a quanto si sta verificando "ai confini dell’Europa e in aeree geografiche a noi molto vicine", situazioni per le quali lo stesso capo dello Stato ha espresso "grande preoccupazione", Napolitano ha parlato di "gravi e inaudite tensioni e violenze" che "esplodono proprio nell’anno in cui insieme ricordiamo i cent’anni dall’inizio della prima guerra mondiale e i 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, dalla fine della guerra fredda e della logica dei due blocchi in cui per decenni è stato diviso il mondo".
Per contro, ricordando "le drammatiche tensioni che in quell’area opposero le due superpotenze" Usa e Urss "che si confrontavano in un mondo rigidamente diviso in blocchi", Napolitano ha sottolineato le aperture tra Stati Uniti e Cuba si possono definire "una svolta storica", dovuta anche "alla illuminata mediazione della Santa Sede".
Tornando all’Italia e all’Europa, Napolitano ha parlato di emergenza immigrazione. "Nel corso del semestre di presidenza italiana - ha osservato - siamo riusciti a far comprendere che gli epocali fenomeni migratori connessi con i tragici eventi in Medio Oriente e in Africa costituiscono una vera emergenza europea e che come tale vanno affrontati". Il capo dello Stato ha quindi ricordato come "solo sulle coste italiane sono state quest’anno tratte in salvo 170 mila persone".
Il rapporto con chi arriva dalle sponde meridionali del Mediterraneo implica inevitabilmente anche quello con l’Islam. "Noi riteniamo - ha affermato con forza Napolitano - di essere dalla stessa parte dell’Islam, l’Islam colto, aperto e civile che ha lasciato una traccia profonda nella storia del mondo e che ancora, ne sono certo, darà un contributo importante al cammino dell’umanità". Perché questa visione prevalga sul radicalismo e sul terrorismo di matrice islamica, bisogna "evitare che la doverosa contrapposizione verso chi esercita la violenza terroristica e cerca oggi di imporre una visione del mondo fanatica, arcaica e oscurantista venga percepita come una contrapposizione tra Occidente e Islam".

BOSCHI
ROMA - Resta saldo il patto del Nazareno, che ieri sembrava traballare pericolosamente per una questione di ’tempistica’. Il nodo era il timing delle votazioni: votare prima per il Colle (scelta caldeggiata da Forza Italia) o per le riforme (l’opzione del Pd)? Oggi il ministro Maria Elena Boschi ha annunciato che tra azzurri e dem è stata trovata la quadra: "Sui tempi - spiega il ministro - c’è sempre intesa con Forza Italia. Il calendario prevede che l’8 gennaio saremo in aula alla Camera con la riforma costituzionale e contemporaneamente al Senato procediamo con la legge elettorale". E a Montecitorio il cammino del disegno di legge procede spedito: la Camera ha respinto questa mattina le pregiudiziali di costituzionalità presentate da Sel e Cinque Stelle.
E oggi il premier Renzi, a Bruxelles per il Consiglio europeo, si dice tranquillo in vista dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica (oggi Napolitano ha definito "imminente" la fine del suo mandato): "Credo che il Parlamento abbia imparato la lezione dell’aprile 2013 e riuscirà a fare quello che deve nei tempi stabiliti" ha detto il premier.
L’azione del governo per accelerare le riforme è stata elogiata oggi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha ricordato "l’ampio e coraggioso sforzo che il governo italiano sta compiendo per eliminare alcuni nodi e correggere taluni mali antichi" dell’Italia. Pensiero condiviso dalla terza carica dello Stato Laura Boldrini che ha sottolineato come sulle riforme sia necessario procedere spediti: "Tutti i partiti sui sono impegnati per le riforme in campagna elettorale, specie per quella elettorale. Si deve andare avanti".
Boschi alla Camera per illustrare il ddl riforme. Il ministro ha confermato così le indiscrezione di Repubblica su una nuova intesa tra il premier e l’ex Cav in base alla quale la riforma della legge elettorale dovrebbe entrare in vigore dal settembre 2016. Ieri c’era stata tensione tra azzurri e democratici: il capogruppo forzista alla Camera, Renato Brunetta, aveva chiesto nella capigruppo di posticipare il voto sulla Riforma costituzionale a dopo la scelta del prossimo inquilino del Quirinale. Richiesta respinta però dal Partito Democratico. Brunetta, tra i più critici dell’intesa con Renzi sulle riforme, non ha mancato anche oggi di attaccare il premier ricordando tutte le modifiche "unilaterali" che Renzi ha apportato al Patto del Nazareno e alla legge elettorale. Le incomprensioni erano partite domenica, quando Berlusconi aveva affermato che anche la scelta del Capo dello Stato rientra nel Patto, affermazione smentita con decisione dai vicesegretari dem Serracchiani e Guerini. Lo stesso Lorenzo Guerini oggi ha mandato un messaggio neanche troppo velato a Forza Italia: "Se qualcuno vuol ritardare le riforme su cui si sta discutendo da anni nel Paese, lo dica agli italiani".
Oggi Maria Elena Boschi ha illustrato a Montecitorio il ddl riforme, che ha terminato l’esame in Commissione, e ai giornalisti ha assicurato che l’intesa con Forza Italia riguarda anche la decisione di procedere con le riforme prima di votare il successore di Giorgio Napolitano. "Certo - afferma il ministro delle Riforme - anche perchè il Capo dello Stato ancora non si è dimesso e non possiamo bloccare tutto in attesa di una data che non si sa quale sarà. Su questo anche Forza Italia è d’accordo". "Ora - ha proseguito - andiamo alla capigruppo del Senato, si discuterà del calendario della legge di Stabilità e non so se all’ordine del giorno c’è anche il timing della legge elettorale, ma se non sarà in questa capigruppo sarà nella prossima. L’esame dell’Italicum in aula comincerà ai primi di gennaio, forse anche prima".
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Il ministro ha voluto ribadire l’importanza del ddl per il governo e per il Paese: "Le Riforme sono un tema centrale dell’azione di questo governo e il testo che stiamo discutendo ormai è diventato parlamentare con le modifiche che sono state introdotte". La Boschi ha ricordato che il disegno di legge è passato con un’ampia maggioranza al Senato e ha sottolineato l’esigenza che il testo venga approvato al più presto: "L’urgenza nel procedere - ha spiegato - non è stata determinata da un vezzo del governo o da una voglia di distrazione di massa. Le riforme hanno un impatto economico fondamentale". Poi ha ricordato: "Il processo delle riforme è urgente per il Paese che da troppo tempo aspetta che la classe politica mantenga un impegno. Quindi non riguarda solo il governo ma l’intera classe dirigente".

DAL CORRIERE DI OGGI


Giovedì 18 Dicembre, 2014
CORRIERE DELLA SERA
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Incontro Lotti-Verdini, parte la trattativa Berlusconi: no a tecnici dopo Napolitano
ROMA Il clima è caotico, le guerre sotterranee feroci. E Silvio Berlusconi sta nel mezzo, infastidito per le «forzature» di Matteo Renzi, preoccupato dall’ipotesi di un voto anticipato, ma non disposto a far saltare i patti con il premier almeno fino a quando non si arriverà alla stretta finale sul nuovo capo dello Stato, sul quale «mi aspetto una naturale convergenza» su una figura che, confida ai suoi, «dovrà essere un politico, di lungo corso, esperto e non di provenienza comunista». Ne ha parlato anche ieri sera l’ex premier, alla cena con i deputati — in un ristorante dalle antiche frequentazioni democristiane, Checco allo Scapicollo —, ribadendo che Forza Italia «voterà le riforme pur restando all’opposizione» rispettando un patto del Nazareno «che ci è pesato molto» ma che è propedeutico all’elezione di un presidente condiviso, se «eviteremo di dividerci». Ma non ha preso posizioni troppo nette per evitare che le divisioni nel suo partito portino all’implosione e all’impossibilità di gestione dei gruppi azzurri.
Da una parte infatti si agitano i tanti nemici del patto del Nazareno, che credono — come Renato Brunetta — che l’abbraccio con Renzi faccia solo danno al partito, o che come Raffaele Fitto ne fanno un terreno di sfida in vista dei prossimi assetti interni di FI. Dall’altra parte si muove Denis Verdini, l’uomo della trattativa, che è o almeno si sente assediato e attaccato dal «cerchio magico» berlusconiano, a partire dalla potente Maria Rosaria Rossi che ieri, dopo aver detto che FI «è pronta a votare in qualsiasi momento», ha assicurato come non ci siano problemi con il collega: «Ma se ci lavoro tutti i giorni fianco a fianco!».
L’ex coordinatore continua a tessere la tela del rapporto con Renzi sia su riforme e legge elettorale che sul Quirinale, tanto che ieri — dicono — ha incontrato il plenipotenziario del premier Renzi Luca Lotti per tenere viva una trattativa che sembra poter saltare da un momento all’altro. E considera pazzi o incapaci tutti quelli che gli si mettono di traverso perché «io Silvio lavoro per te, non per me. Se ti va bene, se condividi quello che faccio, bene. Ma se devo subire la guerriglia continua dei tuoi, allora me ne vado», gli ha detto — e scritto in una lettera — venerdì scorso per l’ennesima volta. Uno sfogo che fa seguito a tanti simili e che ha fatto pensare a dimissioni immediate, allo stato escluse anche dopo un colloquio chiarificatore con Berlusconi. Perché il Cavaliere non può rinunciare a Verdini, e perché — dice chi parla con entrambi — «Silvio sa che molto si è già portato a casa, dal rinvio del conflitto di interessi alla modifica della prescrizione non in senso retroattivo, e molto ancora si può portare...». In attesa di tempi migliori, nei quali Berlusconi sembra credere: «Quando torno in campo — ha brindato con i suoi — torneranno anche gli elettori».

CINQUESTELLE
MILANO Le carte sul tavolo: quaranta come il peso potenziale dei voti dei dissidenti e dei fuoriusciti dal Movimento nella corsa al Quirinale. Tanti sono, o meglio potrebbero essere, i parlamentari pronti a compiere scelte alternative alla linea dei Cinque Stelle. La conta, tra espulsioni e addii, segna quota 23 (ex che hanno, però, tra loro posizioni frammentate). Ma nel novero rientrano anche gli incerti, ossia quei dissidenti che ancora fanno parte dei gruppi pentastellati ma che potrebbero lasciare il Movimento: 18-20 deputati e 5-6 senatori. Insomma, circa 25 parlamentari. Una mini truppa che, sommata ai voti degli ex in grado di coagularsi tra loro, potrebbe toccare, appunto, quota quaranta. E smuovere diversi equilibri, creando un possibile asse alternativo alle minoranze di Pd e Forza Italia. O dando vita a scenari imprevedibili: una buona parte di loro, a quanto sembra, sarebbe disposta anche ad appoggiare Romano Prodi.
Il quadro è complesso — il gruppo potrebbe anche dare un supporto per le riforme — e i contatti non mancano. Ma le sorprese nella scelta del successore di Giorgio Napolitano potrebbero non riguardare solo i dissidenti. Anche i fedelissimi sono della partita. «Prima di tutto sceglieremo i nostri nomi per il Colle», commentano esponenti pentastellati. E poi aprono spiragli: «Non è escluso che si possa ripetere quello che è successo per la Consulta: se propongono un nome degno, potremmo appoggiarlo. Ovviamente dopo una consultazione con la base».
Un’apertura che fa il paio con quanto scrive Manlio Di Stefano: «Un nome onesto e pulito lo voterebbe il Parlamento intero, un nome fuori dal sistema lo voteremmo volentieri tutti». E anche Barbara Lezzi conferma: «Siamo pronti a sederci al tavolo con il Pd come abbiamo fatto per l’elezione del Csm. Noi abbiamo le nostre quirinarie, poi se il Pd ha già un nome noi lo proporremo ai nostri iscritti». Dopo le quirinarie, quindi, potrebbe anche esserci una svolta.
Intanto Beppe Grillo è sbarcato a Roma dove oggi terrà una conferenza stampa sul referendum sull’euro e su argomenti di attualità, in primis l’inchiesta Mafia Capitale (già ieri il capo politico del M5S ha lanciato una stoccata a Matteo Renzi sul tema). Il leader ha dribblato i cronisti e non ha commentato l’ultima fuoriuscita, quella di Tommaso Currò. Sul blog, però, il leader posta un commento — con tanto di foto del deputato siciliano — dal titolo «La sceneggiata». A corredo, le parole di Federico D’Incà. «Ringrazio Currò per avere fatto sapere a Renzi in anticipo della sua bella sceneggiata alla Camera, ormai sembra più facile parlare con il premier che in assemblea — scrive —. Se vi sono altri che intendono seguirlo nello stesso modo è meglio che lo dicano prima, non accetterò più altri teatrini ignobili come quello visto ieri». Insomma, la tensione resta alta. Lello Ciampolillo commenta: «Se qualcuno si innamora dei palazzi vada pure con Renzi». Per il senatore pugliese questo è «un momento di svolta» per il Movimento, anche se prevede che «non ci sarà alcuna scissione». Grillo — raccontano i pentastellati — sembra però non curarsi molto dello strappo di Currò. Il leader ha incontrato a Roma alcuni membri del direttorio — tra cui Carla Ruocco e Roberto Fico — e altri parlamentari.
Emanuele Buzzi

MASSIMO FRANCO
I veti stucchevoli tra il Pd e FI sulla riforma elettorale dissimulano la diffidenza reciproca sul voto anticipato. E la tentazione di Matteo Renzi di andare comunque in aula entro lunedì dimostra la volontà di procedere con o senza l’assenso di Silvio Berlusconi; o comunque di trattare l’accordo da una posizione di vantaggio. Le migliaia di emendamenti delle opposizioni possono essere presentate dal premier come un larvato ostruzionismo che ritarda i cambiamenti chiesti dall’opinione pubblica. Ma non significa automaticamente rottura. Palazzo Chigi non esclude una mediazione in extremis proprio di Berlusconi nel suo partito.
Renzi pensa ad una sorta di forzatura a fin di bene per interrompere la «melina» di FI che pure rimane il suo interlocutore istituzionale. Sa che gli avversari vedono dietro ogni sua mossa la sagoma delle urne; e non ha intenzione di farla sparire. Ritiene quella minaccia l’arma migliore per piegare le resistenze e raggiungere gli obiettivi che si è prefisso: la famosa «pistola carica» sul tavolo della trattativa. Per questo FI non vuole accettare l’ Italicum prima che si insedi il prossimo presidente della Repubblica; e cioè non prima di febbraio.
Chiede l’entrata in vigore del nuovo sistema nell’autunno del 2016. Nella sua ottica, significherebbe scongiurare il voto fino al 2017. I berlusconiani sono insospettiti dall’insistenza di Renzi per il gennaio del 2016. «Perché tanta fretta se si vota nel 2018?», osservano. Temono che continui ad accarezzare l’idea del voto appena approvata la legge: anche se il capo del governo tenta in prima battuta di evitare una riforma subordinata a quella costituzionale, col rischio di allungare i tempi all’infinito. Ma il minuetto di ieri nella commissione Affari costituzionali del Senato conferma quanto radicate siano le tensioni.
La presidente Anna Finocchiaro è riuscita ad evitare che la discussione degenerasse. Se però l’accordo salta, il tempo che rimane da qui alla probabile uscita di Giorgio Napolitano dal Quirinale diventerebbe un percorso di guerra di tutti contro tutti. Il piano berlusconiano azzarda una sorta di scambio tra presidenza della Repubblica e sistema elettorale.
Solo se il Pd eleggerà il nuovo capo dello Stato concordandolo con FI, quest’ultima darà il suo «placet» all’ Italicum . Dunque, vuole spostare i tempi al 2015. Il problema è che Renzi si sente abbastanza forte da far valere la sua centralità numerica e politica. E dunque non mostra una particolare inclinazione ad accettare una simile logica. Il risultato è lo stallo al quale si è assistito ieri. Potrebbe sbloccarsi di colpo, con una conferma del patto del Nazareno tra il premier e Berlusconi. Ma FI non è più del tutto nelle sue mani.

CORRIERE DI IERI
MARTIRANO
ROMA Se qualcuno per caso si aspettava un pur minimo cenno alla fine anticipata del suo secondo mandato al Quirinale dovrà attendere ancora o aggrapparsi, se lo ritiene un esercizio già ora necessario, alla data del 13 gennaio, quando terminerà per l’Italia il semestre europeo. In ogni caso, dovrà cambiare strada chi, con «discussioni ipotetiche», rischia di provocare un «danno grave» per il Paese puntando l’attenzione su «elezioni anticipate» e su «venti di scissione su questa o quella formazione politica» che poi evocano all’esterno «lo spettro dell’instabilità».
Dunque, tutte le forze politiche (e anche i sindacati) dovranno essere capaci di rimboccarsi le maniche, subito: per «passare ai fatti», per «procedere con coerenza e senza battute d’arresto sulla strada delle riforme». Perché «i nostri amici in Europa e nel mondo si attendono precisamente questo. Non deludiamoli».
Così Giorgio Napolitano, nel tradizionale discorso per gli auguri di fine anno ai rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile, ha parlato di un Paese che deve essere serio nel programma che si è dato. Il capo dello Stato ha citato il «tasso di volontà riformatrice» del governo Renzi senza poi tralasciare (più di una citazione) «il gran lavoro istruttorio» fatto dall’esecutivo presieduto da Enrico Letta.
La riforma del lavoro è da considerare un «risultato molto importante», ha detto il presidente della Repubblica. Ma «il 2014 non si chiude bene dal punto di vista dell’andamento generale dell’economia... e il quadro potrà dare segni di inversione di tendenza solo nel 2015 e 2016 solo se non verrà dall’Italia nessun affievolimento della linea su cui governo e Parlamento hanno mostrato di voler convergere».
Ecco, dunque, che le parole chiave utilizzate da Napolitano,a partire da un’iniezione di «fiducia» di cui ha bisogno il Paese per superare un «clima sociale segnato da sofferenza autentica», puntano in una direzione: fare presto sulla strada del «cambiamento divenuto indispensabile e non più eludibile o rinviabile». A partire dal «superamento del bicameralismo paritario che non è un tic da irrefrenabili rottamatori o da vecchi cultori di controversie costituzionali». Stessa considerazione per la legge elettorale: discutere ma non stravolgere le riforme perché portarle a termine «è un dovere di onestà politica e di serietà istituzionale». Attenzione allora alle «spregiudicate tattiche emendative» delle minoranze e «alle improprie e dannose commistioni» nel rapporto tra governo, Parlamento e sindacati.
Per questo, ha insistito Napolitano, «non possiamo essere ancora il Paese attraversato da discussioni che chiamerei ipotetiche: se, quando e come si possa o si voglia puntare su elezioni anticipate, da parte di chi e con quali intenti; o se soffino venti di scissione in questa o quella formazione politica, magari nello stesso partito di maggioranza relativa». Questo esercizio al chiacchiericcio, è la conclusione del capo dello Stato, «è solo tempo e inchiostro che si sottrae all’esame dei problemi reali, anche politici, che sono sul tappeto; è solo un confuso nervoso agitarsi che torna ad evocare, in quanti seguono le vicende dell’Italia, lo spettro dell’instabilità. E il danno può esser grave».
Al termine del suo discorso, Napolitano si è rivolto alla presidente della Camera che gli sedeva accanto: «Sono stato troppo lungo?». «No, è stato incisivo...», lo ha rassicurato Laura Boldrini
Dino Martirano

MARZIO BREDA IERI
roma La strada imboccata da Matteo Renzi è quella giusta. Le riforme che ha messo in cantiere rispondono alle esigenze di modernizzazione delle quali abbiamo urgente bisogno, e non è una coincidenza che lo sforzo sia apprezzato pure all’estero. Certo, l’Italia è ancora percorsa da forti tensioni, da molta sofferenza sociale e persino da rabbia, ma c’è anche la volontà di reagire a un clima troppo impregnato di negatività. E se è vero che la crisi continua a mordere, e resta una dura e cruda realtà, gli sembra però governata in maniera adeguata. Con uno slancio tale da far sperare che si possa presto superare il peggio e che siano dunque scongiurati i rischi di ulteriori avvitamenti.
Ecco i motivi per i quali, nel giorno in cui archivia davanti alle alte cariche dello Stato il bilancio di fine anno, Giorgio Napolitano ricava una sensazione quasi liberatoria. Per lui il sistema è, nonostante tutto, in equilibrio. Su un binario protetto. E l’Italia può andare avanti confidando in una «continuità nel cambiamento», senza che il suo addio al Quirinale si traduca in una ferita per la stabilità istituzionale. Un congedo che proietta su un orizzonte vicino, dato che spiega di essersi «personalmente impegnato ancora una volta per tutto lo speciale periodo del semestre italiano di presidenza europea». Sottinteso: non molto oltre. Cioè, come suggeriscono parecchie indiscrezioni, entro la fine di gennaio. Forse, anche se è imprudente impiccarsi a una data, il 14.
È importante questo scudo che il presidente della Repubblica alza a tutela del premier. Perché con una blindatura così esplicita, oltre a tentar di dare speranza ai cittadini (e non a caso dedica un’intera pagina a quel fattore impalpabile ma cruciale per ogni ripartenza che è la «fiducia»), Napolitano lega le sorti dell’esecutivo alla sua stessa missione sul Colle. Infatti, se l’inquilino di Palazzo Chigi fosse uscito sconfitto al giro di boa del 2014, ne sarebbe in qualche modo uscito sconfitto pure lui, che gli ha dato credito e sostegno.
Chiaro che la sua non è una visione manieristicamente «in rosa». È semmai «un’idea» attraverso la quale spera di contagiare il Paese, per dirla con un’immagine abusata ma sempre efficace, con «l’ottimismo della volontà». Un’esortazione che, se pure rientra tra i suoi doveri d’ufficio, tiene comunque sullo sfondo tutti i dati problematici, le contraddizioni, le spregiudicate tendenziosità ostruzionistiche del gioco parlamentare, le polemiche spinte all’isteria compulsiva cui assistiamo in questi mesi. Un groviglio di nodi che il capo dello Stato elenca, spuntando diversi argomenti delle opposizioni e tenendo sempre al centro il tema delle riforme. Da fare a ogni costo perché «ineludibili», e quindi chiudendo, più per realismo che per carità di patria, certe battaglie di retroguardia. Un esempio: la rissa ingaggiata sul bicameralismo paritario, sul quale già i costituenti dimostrarono dubbi, considerando le due Camere «un ingombrante doppione». Vorrebbe che il loro cammino fosse «coerente e senza battute d’arresto», il presidente. Perciò chiede di non minacciare la continuità del nuovo corso. Traducendo: per lui l’eterno e infinito dibattito sul voto anticipato e su «ipotetiche» scissioni di partito (specie dentro il Pd, che deve sembrargli un troppo indisciplinato perno della maggioranza) è soltanto «uno spreco di tempo e d’inchiostro», un «confuso e nervoso agitarsi che torna a evocare lo spettro dell’instabilità». E il danno, avverte, «può essere grave». Anche perché, in parallelo a una questione morale riesplosa con un gravissimo scandalo di corruzione mafiosa nella capitale, sta soffiando con sempre maggiore impeto un vento di antipolitica che giudica pericoloso, perché può degenerare in «patologia destabilizzante ed eversiva».
Qui sta il punto politico della riflessione di Napolitano. Nella parola «responsabilità», cui oggi dovrebbero sentirsi vincolati tutti. Sindacati compresi, mobilitati in modo quasi permanente contro Renzi e ai quali domanda «rispetto delle prerogative delle decisioni del governo e del Parlamento e uno sforzo convergente di dialogo anche su questioni vitali di interesse generale». (Per inciso: se sul serio si volesse realizzare quel dialogo servirebbe, pure da Palazzo Chigi, almeno un residuo di quello spirito di concertazione archiviato da tempo).

I numeri ci sono: il Pd ha la forza per scegliere un nome e proporlo agli altri, strada indicata lunedì in tv da Maria Elena Boschi. È più forte rispetto all’aprile 2013: ha guadagnato delegati con i successi alle Regionali, ha attirato parlamentari tra le sue truppe (pure le vicine Autonomie sono ingrossate), mentre il Pdl si è diviso. Dal 4° scrutinio, quando servirà la maggioranza assoluta, al Pd basteranno altri 59 voti per eleggere il capo dello Stato. Al netto delle dichiarazioni sul massimo consenso, può trovarli in un solo forno: bussando alla porta degli alleati di maggioranza, di FI o del M5S. Certo, stando attento alle insidie interne: i dissidenti non mancano, nel Pd come in Forza Italia.

SORGI SULLA STAMPA DI STAMATTINA
L’inizio della corsa al Quirinale sottolinea l’eclissi politica di Berlusconi e del centrodestra. E pensare che solo un anno e mezzo fa l’ex Cavaliere, di fronte all’impasse generata nel Pd dai franchi tiratori, fu capace di trasformarsi nel grande elettore del secondo mandato di Napolitano, ricavandone subito dopo piena legittimazione del governo di larghe intese
La Stampa, giovedì 18 dicembre 2014
L’inizio della corsa al Quirinale sottolinea l’eclissi politica di Berlusconi e del centrodestra. Qualche difficoltà, non fosse perché è la prima volta che si cimenta in un genere di competizione così pieno di insidie, ce l’ha anche Salvini, e perfino Renzi, di solito più risoluto a gettarsi nella mischia, stavolta mostra insieme prudenza e consapevolezza che la strada del Colle potrebbe nascondergli qualche trappola.
Ma per Berlusconi, non bastano le limitazioni imposte dalla condanna ai servizi sociali, a cui continuamente si richiama per giustificarsi, a spiegare l’assoluta mancanza di iniziativa. Se solo si riflette che un anno e mezzo fa l’ex Cavaliere, di fronte all’impasse generata nel Pd dai franchi tiratori, fu capace di trasformarsi nel grande elettore del secondo mandato di Napolitano, ricavandone subito dopo piena legittimazione del governo di larghe intese, in cui l’allora Pdl entrò con propri ministri, colpisce ancor di più la dissipazione che il leader di Forza Italia ha fatto del patrimonio politico che era riuscito a ricostituire.
Sarà che la condanna, con la decadenza da senatore, ha condizionato Berlusconi anche sotto il profilo psicologico, un lato molto importante anche della sua personalità politica. Eppure, l’elenco delle decisioni sbagliate prese in pochi mesi rimane impressionante.
L’uscita dal governo Letta dopo l’impossibile tentativo di barattare il suo appoggio con la grazia che Napolitano non gli avrebbe mai concesso in questo modo. La rottura con Alfano, spinto verso l’uscita insieme agli altri dell’Ncd, per un errore di calcolo sul numero dei parlamentari disposti a «tradire». La rottura annunciata e ormai quasi irrimediabile con Fitto, che è diventato il capo di un partito nel partito con una cinquantina di parlamentari che gli rispondono direttamente. E infine il braccio di ferro con Renzi per ottenere, prima l’intesa su un candidato concordato per il Quirinale, e solo dopo garantire i voti di FI per l’approvazione della nuova legge elettorale, bruciando nel frattempo, per inciso, il nome di Giuliano Amato, proposto estemporaneamente e senza grande convinzione.
In questa maniera Berlusconi ha di fatto vanificato il patto del Nazareno, l’unico risultato ottenuto nella stagione nera della sua progressiva emarginazione, ha portato alle dimissioni Denis Verdini, l’uomo che di quel patto era il perno, e alla fine rischia di restare fuori anche dalla grande partita per il Colle: Renzi, infatti, i sessanta voti che gli servono, se il Pd resterà unito, potrebbe andare a cercarseli in Parlamento senza chiederli a Forza Italia.
Marcello Sorgi

FOLLI
Ecco perché Renzi vuole che l’Italicum veda la luce a Palazzo Madama prima che si cominci a votare per il capo dello Stato, cioè probabilmente alla fine di gennaio
la Repubblica, giovedì 18 dicembre 2014
Si avvicina l’ora della verità per il grande risiko di Matteo Renzi. I vari tasselli devono andare al loro posto entro 5-6 settimane, pena la necessità di ricominciare tutto da capo: dalle alleanze ai progetti di riassetto istituzionale. Cinque o sei settimane in cui bisogna centrare gli obiettivi uno dietro l’altro, senza mancarne nemmeno uno. A cominciare dalla riforma elettorale.
Il presidente del Consiglio è noto come uomo franco che non parla il «politichese». Semmai tace qualcosa che non desidera rendere pubblico, ma quando ha voglia di farsi capire non ricorre a giri di parole. Ieri, parlando ai senatori del Pd, è stato esplicito come non mai: il cosiddetto Italicum deve vedere la luce a Palazzo Madama prima che si cominci a votare per il capo dello Stato, cioè probabilmente alla fine di gennaio. Si dirà: niente di nuovo. La pressione del governo per far passare la riforma è costante e certo ha tratto nuova legittimità dalle parole di Giorgio Napolitano.
Del resto, sono ormai evidenti i motivi per cui Renzi considera essenziale, dal punto di vista politico, il voto sulla riforma prima che le Camere si dedichino in esclusiva a scegliere il nuovo presidente. La ragione è che un Parlamento frammentato e quindi assai poco governabile potrebbe forse essere ricondotto alla ragione se il premier riuscisse a cogliere un successo – appunto, il primo «sì» alla riforma – in grado di dimostrare a tutti chi ha davvero in mano il bandolo della matassa. E chi, all’occorrenza, potrebbe avviare il motore delle elezioni anticipate.
Sono temi più volte dibattuti sulla stampa. La novità è che adesso Renzi ha l’opportunità ma anche il dovere, dal suo punto di vista, di segnare un punto decisivo. Il famoso Italicum va approvato al Senato prima del 20 gennaio o giù di lì, considerando che Napolitano sta per lasciare il Quirinale. Se il premier ottiene quello che vuole, significa che la maggioranza di governo è abbastanza compatta e che Berlusconi ha accettato anche stavolta di assecondare il suo giovane semi-alleato. Sulla carta c’è anche il «piano B», ossia l’ipotesi di votare la riforma con la sola maggioranza (Pd, centristi, ex Sel) se il leader di Forza Italia non riuscisse a superare la resistenza del suo partito sempre più inquieto e frastagliato. Fin qui gli scenari disegnati a tavolino. Sono abbastanza asettici e danno l’impressione che non sia in fondo così difficile votare questa famosa riforma e poi dedicarsi al presidente della Repubblica. La realtà invece è più complicata e Renzi sta mettendo in gioco parecchia della sua reputazione di perenne vincitore delle partite politiche, abilissimo nelle manovre parlamentari.
La prima difficoltà è ovviamente Berlusconi. Davvero vorrà dire «no» all’uomo che rappresenta il suo unico, vero interlocutore? Pochi lo credono e infatti immaginano che alla fine Forza Italia voterà la riforma come la vuole il premier. L’inciampo è che la monarchia assoluta berlusconiana è finita e che tanti parlamentari del centrodestra non vogliono correre il sia pur minimo rischio di dover andare alle elezioni anticipate entro pochi mesi.
La seconda difficoltà riguarda la scarsa credibilità della minaccia di approvare la legge con la sola maggioranza. Esistono molti dubbi sull’opportunità che una maggioranza ristretta, in cui il Pd è egemone, si voti da sola una legge elettorale in cui il partito vincitore, sempre il Pd nelle intenzioni, ottiene il 55 per cento dei seggi: sembra uno dei casi in cui s’impongono le larghe intese (d’altra parte non si può nemmeno concedere a qualcuno un diritto di veto permanente). Terzo punto. Nell’ora delle dimissioni di Napolitano, e forse anche qualche giorno prima, l’Italia entra in uno stato di vacanza istituzionale. Si pensa da varie parti che non sia il momento migliore per varare una riforma elettorale di tale portata. Ecco perché Renzi sente che la terra gli sta scappando sotto i piedi. Ed ecco perché, come è suo costume, raddoppierà gli sforzi finché gli sarà possibile.
Stefano Folli