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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

CIAO HILLARY, C’È UNA NUOVA ZARINA NELLA POLITICA ESTERA AMERICANA: È SUSAN RICE. NERA, GIOVANE E CAZZUTA, HA PORTATO IL NEMICO RUSSO SULL’ORLO DEL BARATRO

Gli ultimi due anni di Obama si sono aperti con una bruciante sconfitta in casa (il Senato in mano ai repubblicani) e una netta vittoria all’estero: il rapido collasso dell’economia russa sotto il peso delle sanzioni e del crollo del prezzo del petrolio. Ora bisognerà capire se non si tratti di una vittoria di Pirro, in cui i danni inferti al rivale Putin si ritorcono contro gli Stati Uniti.
La nuova fase è iniziata con l’uscita di Hillary Clinton: nel febbraio 2013 lascia il posto di Segretario di Stato a John Kerry per potersi dedicare a tempo pieno alle sue aspirazioni presidenziali. Ma non è Kerry il personaggio chiave del nuovo corso americano. È Susan Rice, la diplomatica cazzuta che nel luglio 2013 lascia le Nazioni Unite e diventa Consigliere per la Sicurezza Nazionale.
Nel giro di un anno, la Rice prende in mano le redini della schizofrenica politica estera di Obama, che non ha rispettato la sua promessa di agire contro Assad e ha assistito impotente mentre Putin annetteva la Crimea, mandando le sue truppe in Ucraina e raggiungendo l’80% di consensi in patria. È qui che Rice spinge il presidente a imporre sanzioni alla Russia, e obbliga i partner europei ad andare contro i loro interessi economici, allineandosi al diktat americano.
Lo strapotere di Rice nelle decisioni del presidente culmina con l’abbandono di Chuck Hagel, segretario alla Difesa e nemico della cinquantenne nera che ama dire «fuck» ogni tre parole.
Nel frattempo, il boom dello shale (gas e petrolio), ha reso gli Stati Uniti il primo produttore mondiale. Obama promette di vendere il suo gas agli stati europei che dipendono dai fornitori sovietici (Germania e Italia in testa), così centrando due obiettivi: togliere ossigeno a Putin – la cui economia si basa per il 50% sui combustibili fossili –, e trovare un nuovo mercato per il gas americano in eccesso.
Il greggio cala, le sanzioni mordono, e lo stesso Putin che a novembre annunciava un 2015 in crescita, è costretto ad annunciare ai suoi connazionali una recessione che potrebbe portare il Pil a un pauroso -5%.
Il disegno sembra andare in maniera perfetta, considerando anche che gli scambi commerciali tra Stati Uniti e Russia valgono 14 miliardi di dollari l’anno (per l’Europa sono dieci volte di più), ovvero pochi spiccioli. C’è però un piccolo problema: l’Opec, l’organizzazione che riunisce i produttori petroliferi (ma non Russia e Usa). Obama e Rice avevano messo in conto un calo del greggio. Nessuno aveva però previsto che dai 103 dollari al barile di luglio si passasse ai 55 di oggi. La maggior parte degli analisti stimava una cifra intorno agli 80 dollari.
L’evento che ha fatto precipitare le quotazioni è stata la riunione Opec del 27 novembre scorso. I paesi membri, guidati dall’Arabia Saudita, hanno deciso di lasciare la produzione inalterata, nonostante il calo della domanda e l’aumento dell’offerta (soprattutto americana). Obama ha provato a convincere gli sceicchi a tagliare i barili, per stabilizzare i prezzi, ma arabi, africani e sudamericani hanno deciso di fare un gioco di lungo periodo: soffrire ora, rinunciando a importanti ricavi petroliferi, per strozzare i concorrenti, ovvero le aziende americane che estraggono lo shale oil.
Si tratta di compagnie di piccole e medie dimensioni, che si sono indebitate fino al collo e hanno affrontato investimenti importanti. Col barile sotto gli 80 dollari, estrarre petrolio non gli conviene, e molte rischiano la chiusura. Per il momento riescono a galleggiare, ma se i prezzi rimangono a questi livelli, sarà un’ecatombe.
La scommessa di Rice-Obama ha quindi funzionato così bene che ora rischia di rivoltarglisi contro e azzoppare il boom petrolifero americano. Per questo, due giorni fa la Casa Bianca ha annunciato nuove e più dure sanzioni contro la Russia. Così da puntare più sulle rappresaglie economiche e meno sul greggio, sceso a livelli troppo bassi.
Jason Furman, consigliere economico di Obama, ha tenuto a precisare che la Russia è alle prese con una crisi che si è prodotta da sola. «La combinazione delle nostre sanzioni, l’incertezza che hanno creato con le loro azioni internazionali e la caduta del prezzo del petrolio, ha portato l’economia russa sull’orlo del precipizio».
Il conflitto Obama-Hillary non ha portato solo a un significativo cambio di strategia internazionale: Hillary e Bill in questi mesi hanno preso ancor più le distanze da Obama, convinti che un appoggio del presidente “anatra zoppa” fosse veleno per la corsa presidenziale. E il fronte liberal che portò Barack alla Casa Bianca nel frattempo non si è innamorato della Clinton, né del suo ingombrante marito. Tanto che ha cominciato a spingere per la candidatura di Elizabeth Warren, senatrice del Massachussetts ed economista idolo della sinistra.
Non aiuta la candidatura “esplorativa” di Jeb Bush. Uno scontro tra dinastie al potere da trent’anni è una pessima immagine per entrambe le campagne.