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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

ARTICOLI SULLA CONDANNA DI ALBERTO STASI DAI GIORNALI DEL 18/12/2014


SILVIA TRUZZI, IL FATTO QUOTIDIANO 18/12/2014 –
C’è qualcosa di disumano nell’aspettare la sentenza sull’omicidio di tua figlia. Non solo per quella frase che si sente ripetere e che spiega come niente - nessuna decisione, nessun giudice - te la restituirà. Soprattutto perché non esiste una conclusione che sia davvero augurabile. Non è augurabile sperare che tutto - e per tutto bisogna pensare all’amputazione, di qualcosa che è molto più di un arto - si risolva in niente, in un “il colpevole non è stato trovato”. E il risarcimento - oltre un milione di euro - lo è soltanto di nome. Ma nemmeno è augurabile sperare che alla fine ti dicano sì, a fracassarle il cranio è stato quel ragazzo biondo che avrebbe dovuto volerle bene e proteggerla. E che adesso, dopo l’assoluzione in primo grado e la condanna di ieri, può solo dire di essere “sconvolto”.
Eppure in questa foto la mamma di Chiara sorride. Subito dopo la lettura della sentenza ha detto: “Siamo soddisfatti, non abbiamo mai mollato, volevamo giustizia e dopo sette anni è arrivata”. E poi: “Ora guarderò Chiara e le dirò ’ce l’hai fatta”. E’ una dichiarazione struggente, tenerissima: perdere qualcuno che si ama non significa affatto smettere di parlargli, il problema al massimo è non ricordare bene la sua voce. “Non abbiamo mai mollato” vuol dire che c’era una battaglia da combattere, forse l’unico modo per dare un senso alla più inaccettabile verità. Giuseppe Poggi ha ringraziato gli avvocati: “Chiara ormai è diventata una figlia anche per i nostri legali, che ringrazio. Non dico di più altrimenti mi commuovo”. Sono passati sette anni, che per la famiglia Poggi devono essere trascorsi al ralenti, nell’ossessiva ricerca di un perché che non esiste, di un colpevole che per adesso, in attesa della Cassazione, è stato trovato. Il loro sollievo è probabilmente il respiro trattenuto in un’apnea durata troppo a lungo. Per questo non c’è spazio per nessun giudizio sulla compostezza, sui sorrisi, sulla soddisfazione. Si può solo guardare da lontano, senza curiosità, senza sentimenti. Sapere che vivere una non vita senza Chiara è stata la prima prova di resistenza. Adesso li aspetta una battaglia ancora più difficile, che non ha luoghi, nemici, vittorie: accettare che anche tra 16 anni (sempre che la sentenza di secondo grado sia confermata) dovranno continuare a stare senza Chiara.

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VITTORIO FELTRI, IL GIORNALE -
Alberto Stasi come Annamaria Franzoni: colpevole, ma solo un po’. Dopo due sentenze assolutorie, in primo e secondo grado, il giovane commercialista di Garlasco è stato condannato a 16 anni di reclusione per avere ucciso la fidanzata Chiara Poggi, nel 2007. Siamo allibiti. La Corte d’appello di Milano ha ribaltato i giudizi precedenti pur basandosi sugli stessi indizi che altri tribunali avevano considerato insufficienti a infliggere una pena per omicidio. Sette anni durante i quali gli investigatori hanno indagato, ordinato e vagliato perizie più o meno contraddittorie; sette anni e quattro processi per emettere una sentenza che, se sono buoni gli elementi usati dall’accusa, doveva essere pronunciata almeno cinque anni orsono. Elementi, peraltro, smontati sistematicamente dalla difesa.
C’è qualcosa di molto strano nel verdetto. Abbiamo citato la mamma di Cogne alla quale i giudici, per avere massacrato il figlioletto, rifilarono 15 anni, relativamente pochi se si tiene conto della gravità del delitto. Lo stesso discorso vale per Stasi. Sedici anni anche a lui per avere fatto fuori una ragazza nel modo noto, a sprangate. Entrambi i casi si sono chiusi senza prove e con indizi sulla cui consistenza non abbiamo dubbi solamente noi, ma anche (per Stasi) i giudici dei primi due procedimenti. Significa che la colpevolezza del giovanotto era assai difficile da accertare.
Da quando un genio modificò il codice di procedura penale, abolendo l’insufficienza di prove, il compito delle toghe è diventato arduo. A ogni costo devono pronunciarsi a favore o a sfavore dell’imputato. Tertium non datur. La formula dubitativa, cioè l’insufficienza di prove, permetteva invece una soluzione più equa, in determinate circostanze. Si dice che le sentenze si rispettano e non si discutono. Storie. Alberto Stasi è obbligato a beccarsi la condanna. Noi invece siamo liberi di discuterla e perfino di contestarla. Ci sembra assurdo quello che è successo. Possibile che i medesimi indizi siano stati valutati allo stesso modo da due tribunali e diversamente dal terzo? Non vorremmo che l’ultimo e, forse, definitivo giudizio (se la Cassazione non avrà nulla da obiettare) si fondasse su impressioni e suggestioni piuttosto che su un autentico convincimento. Una specie di compromesso giustificato dall’esigenza di sciogliere un giallo che ha turbato l’opinione pubblica, e attorno al quale sono state organizzate decine di trasmissioni televisive, con la partecipazione di guru, criminologi, giornalisti, esperti di vario genere e talora fasulli.
La nostra è solo un’ipotesi, ma suffragata dall’osservazione della realtà. Una realtà peggiore del delitto in questione, pur salvando la pietà per Chiara, stroncata poco più che ventenne. Nell’elenco di chi patisce sofferenze indicibili va aggiunto il nome di Alberto Stasi, strattonato per lungo tempo come un cencio e alla fine candidato al carcere. Sedici anni: perché?

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CLAUDIO GUASCO, IL MESSAGGERO –
Il montito della Cassazione era stato inequivocabile: occorre una valutazione «complessiva e unitaria degli elementi acquisiti», ovvero una «rilettura e rivisitazione» di tutti i dati a carico di Alberto Stasi. Per l’accusa il quadro non lasciava margini di dubbio, gli indizi nei confronti dell’ex bocconiano erano «gravi, precisi e concordanti», per la difesa si è trattato di un «processo lombrosiano e senza prove». Alla fine i giudici della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello hanno stabilito che quanto ha messo in fila il sostituto pg Laura Barbaini nel supplemento d’indagine incastrano Alberto: lui e soltanto lui, è la conclusione dei magistrati, la mattina del 13 agosto 2007 si è presentato alla porta di Chiara, l’ha uccisa con un oggetto simile a un martello, è tornato a casa, si è cambiato e si è seduto davanti al computer a scrivere la tesi.
LA CAMMINATA FATALE
Decisiva è stata la nuova perizia disposta sul percorso che il fidanzato ha detto di aver compiuto quado è entrato nella villetta dei Poggi e ha visto la giovane gettata in fondo alle scale della tarvernetta. La nuova «camminata sperimentale», estesa ai primi due gradini calpestati da Alberto prima di trovare la vittima, porta a escludere la possibilità di percorrere il pavimento sporco di sangue senza sporcarsi le suole. Ma quando Alberto ha consegnato ai carabinieri le Lacoste che ha affermato di avere ai piedi la mattina dell’omicidio, le scarpe erano immacolate.
Secondo gli esperti è da escludere che il sangue secco, una volta calpestato, si sia disperso e il numero di quella impronta a pallini lasciata dal killer è un numero 42, lo stesso del fidanzato. Non solo: un esperimento effettuato sui tappetini della Golf nera, a bordo della quale Stasi si precipitò alla caserma dei carabinieri, dimostra che qualche traccia di sangue doveva pur restare. Eppure niente. In compenso sul dispenser del sapone del bagno sono rimaste due impronte digitali del ragazzo mischiate al dna di Chiara: «l’assassino si è lavato le mani», sostiene l’accusa, ci sono i pedali invertiti su due biciclette di casa Stasi e una terza bici svanita nel nulla. Oltre alle incongruenze e ai pasi falsi di Stasi: lui che quando chiama il 118 chiedendo aiuto per la fidanzata morta in realtà è già favanti alla caserma - come proverebbe la voce in sotofondo di un carabiniere - e ancora lui che racconta del volto bianco di Chiara quando invece era una maschera di sangue. «È l’ultimo ricordo che ha di lei da viva, mentre la uccideva>, sostiene la procura.
IL DNA IGNOTO
Eppure, hanno contrattaccato i difensori, al castello di accuse contro Stasi mancano le fondamenta: non c’è ombra di movente, i due si amavano e lei aveva rinunciato alle vacanze in montagna con fratello e genitori per stare accanto al fidanzato che studiava. Quanto all’arma del delitto, non è stata mai trovata. Il resto, per i legali Giarda e Colli, sono solo suggestioni, dai graffi sulle braccia di Alberto che secondo un paramedico dell’ambulanza di Garlasco non c’erano quando gli ha misurato la pressione, al fatto che le scarpe sequestrate diciannove ore dopo il delitto possono esersi ripulite dal sangue semplicemente camminando. In compenso, sopra le unghie di Chiara sono state isolate otto tracce di dna maschile ignoto e in casa Poggi ben sessanta impronte digitali, oltre a quelle lasciate dagli investigatori. Un assassino, sostengono i difensori di Stasi, che non è stato mai cercato davvero. Perché dalla mattina del 13 agosto 2007 «l’unico sospettato della morte della ragazza è stato sempre e solo Alberto».

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CATERINA MALAVENDA, IL SOLE 24 ORE -
Al quarto passaggio processuale, l’accusa mette a segno il colpo che inseguiva da anni e ottiene la condanna di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, anche se la Corte d’assise d’appello di Milano ha dimezzato la pena, richiesta dal Procuratore generale: 30 anni di reclusione, che diventano 16, grazie all’esclusione dell’aggravante contestata, avere agito con crudeltà, e alla riduzione di un terzo della pena base – 24 anni per omicidio “semplice” - che deriva dalla scelta del giudizio abbreviato, chiesto e ottenuto nel febbraio 2009.
Alberto Stasi, fermato il 24 settembre 2007 e scarcerato quattro giorni dopo, era stato assolto dal Gup nel dicembre 2009, dopo un lungo iter processuale, caratterizzato da ben quattro consulenze: un processo indiziario, senza la prova regina a favore o a carico, quella che avrebbe potuto mettere la parola fine già da allora.
E invece no, la Procura aveva fatto appello e il Procuratore generale, lo stesso che ieri ha ascoltato in aula la sentenza, aveva insistito già allora per la condanna, chiedendo sempre 30 anni di reclusione, il massimo della pena possibile per omicidio quando l’imputato abbia chiesto il giudizio abbreviato. Il processo d’appello confermava l’assoluzione, ma la Corte di cassazione annullava la sentenza, ordinando al giudice del rinvio un nuovo processo.
Per i Supremi giudici la sentenza d’appello presentava infatti «un approccio non coerente ai principi della prova indiziaria» e seguiva un «non corretto percorso metodologico»; un processo da rifare dunque, rileggendo e rivisitando tutti gli indizi a carico dell’imputato, a partire dalla mappatura delle tracce di sangue nella cantina, dove Stasi aveva rinvenuto il corpo senza vita della fidanzata.
Davanti alla nuova Corte d’assise d’appello, su impulso dell’accusa, sono stati disposti ulteriori accertamenti e, alla fine, la nuova perizia ha definito quasi impossibile che l’imputato fosse giunto in prossimità della vittima, senza sporcarsi le scarpe di sangue.
Nonostante gli altri approfondimenti non abbiano avuto alcun esito decisivo, qualcosa deve essere cambiato (forse l’esito della perizia) se i giudici – due togati e sei popolari - evidentemente convinti, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza di Alberto Stasi, lo hanno condannato, infliggendogli anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e liquidando il danno a favore dei familiari di Chiara Poggi.
Alberto Stasi quasi certamente non andrà in carcere, perché non si tratta ancora della sentenza definitiva e vale, ancora oggi, per lui, la presunzione di non colpevolezza, anche alla luce dell’altalenante andamento del processo.
Infatti non è ancora finita, perché i difensori del giovane hanno già annunciato un nuovo ricorso i Cassazione per ottenere l’annullamento della sentenza di condanna; in ipotesi, poi, potrebbe fare ricorso anche l’accusa, ove ritenesse la pena troppo generosa.
Non può sfuggire, tuttavia, la difficoltà per la difesa di trovare nuovi argomenti, dopo quattro processi e decine di udienze. E sarà ancor più difficile visto che la Suprema corte aveva già espresso - sia pure a composizione diversa da quella che si occuperà del probabile ultimo grado di giudizio - le sue perplessità sull’uso degli indizi a suo tempo raccolti e oggi integrati dai nuovi elementi acquisiti, nessuno dei quali favorevole per l’imputato.
Certo, i difensori potranno chiedere che a quest’ultimo vengano concesse le attenuanti generiche, che la Corte d’assise d’appello che l’ha condannato non gli ha riconosciuto; il che comporterebbe la riduzione della pena. Oppure potranno insistere ancora sulla contraddittorietà o sulla insufficienza delle prove raccolte, che già due volte aveva indotto i giudici ad assolvere il loro assistito.
Un’attesa che per tutte le parti processuali, a partire dall’imputato, sembra un incubo senza fine.