Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

SACCHI, UN MARZIANO SUL PIANETA MILAN

Nell’estate del 1987 un marziano sbarcò nel campionato di Serie A. Era un uomo tutto nervi, basso di statura, con gli occhi furbi e guizzanti, pochi capelli e tanta energia. Si chiamava Arrigo Sacchi. Il presidente Silvio Berlusconi lo aveva prelevato dal Parma e sistemato sulla panchina del Milan. Gli affidò il compito di cambiare il calcio di casa nostra: nuove idee, nuovi schemi, nuovi metodi. Voleva stupire, il Cavaliere. Arrigo accettò e si mise all’opera. Aveva un sogno, che condivideva con Berlusconi: diventare campione del mondo. Ci riuscì. E per raggiungere quella meta fu davvero necessaria una rivoluzione. Tattica, ma non solo. Perché il marziano lavorava sui piedi e sui muscoli dei giocatori, ma soprattutto sulle loro teste. Era un martello, insistente, tutto pressing e ripartenze. La sua missione era grandiosa nel progetto e nell’obiettivo: non si accontentava mai, voleva sempre di più, sospinto da umana ambizione e seguito da un popolo di adepti. Sacchi, di quella gente, era il profeta. E come tutti i profeti il suo destino fu quello di dividere: da una parte chi credeva nel verbo, dall’altra chi lo criticava.

Non è semplice dire quali furono le idee tattiche portate da Sacchi. C’è chi prova a elencarle: la zona, il pressing, il fuorigioco, la mentalità. Andiamo con ordine: la zona, in Italia, c’era già; il pressing molte squadre lo conoscevano e lo praticavano; il fuorigioco, in effetti, non era molto in uso, però qualche allenatore lo insegnava; l’atteggiamento offensivo e propositivo, quindi la mentalità, era in effetti nuovo se misurato con i vecchi criteri del calcio italiano, tutto difesa e contropiede. Ma la novità di Sacchi sta nell’aver unito queste caratteristiche e nell’averle fatte coesistere in una sola squadra, il Milan appunto. Figlio del calcio totale dell’Olanda dei primi anni Settanta, accanito e tenace studioso dei metodi di allenamento di Rinus Michels, Sacchi costruì il suo credo calcistico in provincia, Rimini, Parma, le giovanili del Cesena e della Fiorentina, per poi sbarcare sul palcoscenico dorato della Serie A e gridare a tutti che un nuovo rinascimento era possibile, che non se ne poteva più di andare all’estero a rimediare figuracce, che non eravamo soltanto gli «italianuzzi» furbi e sornioni. Si dirà, e l’obiezione ha le sue ragioni: lui è riuscito nell’impresa perché aveva uno squadrone alle sue dipendenze, una difesa magnifica con Tassotti, Filippo Galli (o Costacurta), Franco Baresi e Maldini, un centrocampo di architetti che conoscevano l’arte del sacrificio come Ancelotti, Donadoni, Rijkaard, Evani e Colombo, e là davanti c’erano Gullit e Van Basten, il meglio che la piazza potesse offrire. I detrattori di Arrigo tuonano: con il materiale che aveva ha vinto poco. Difficile stabilire dove stia la verità: restò al Milan per quattro stagioni, vinse uno scudetto, una Supercoppa italiana, due coppe dei Campioni, due Supercoppe europee, due coppe Intercontinentali e, infine, nella primavera del 1991, stremato lui e di riflesso anche i suoi giocatori, se ne andò.

Una cosa è certa, e su questa certezza non sono ammesse discussioni: quel Milan era bello da vedere, un autentico spettacolo, un’armoniosa orchestra che si muoveva sempre a tempo. Se fosse soltanto merito dei giocatori e delle loro qualità, o se ci fosse anche la mano di Sacchi, dipende dai punti di vista. Quel Milan fece scuola, il calcio di Sacchi venne copiato (con risultati non sempre brillanti), ma mai più si vide una tale meraviglia. Erano perfetti i movimenti sincronici dei centrocampisti che allargavano il gioco e dei terzini che s’inserivano creando così la sovrapposizione. Erano splendide perfino le chiusure difensive, quello scivolare verso il pallone in possesso degli avversari che poi si sarebbe chiamato «diagonale». E ossessivo, tambureggiante, a tratti esaltante era il pressing di quel Milan. I nemici non ci capivano nulla, erano assediati. Sacchi dedicava intere sedute di allenamento per migliorare il pressing, martellava i suoi ragazzi, li rintronava. E, se non era sicuro che avessero capito tutto, la sera, dopo cena, passava nelle camere e li interrogava: che cosa devi fare se ti capita questa situazione di gioco? I suoi giocatori, da Ancelotti a Maldini, da Donadoni a Baresi, ammettono che la sua vera rivoluzione fu nei metodi di allenamento: massima intensità, massimo impegno, mai un momento di pausa, prima una cosa simile non si era mai vista. Il maestro Arrigo era ossessivo nella ricerca della perfezione: non riusciva nemmeno a godersi i momenti di gloria. La sera della vittoria della seconda Intercontinentale, in un albergo di Tokio, invece di festeggiare, riunì il suo staff e volle osservare quali errori erano stati commessi durante la partita, com’erano stati applicati gli schemi. Alla lunga un simile atteggiamento diventò un incubo. Per lui e per chi gli stava attorno. Sacchi viaggiava a mille all’ora mentre gli altri avevano bisogno di alzare il piede dall’acceleratore, di «staccare» la spina.

Chiusa l’avventura al Milan, nel 1991 Arrigo arrivò sulla panchina della Nazionale. Provò a trasformare l’Italia in un club, tentò di essere più allenatore che commissario tecnico, ma l’impresa non gli riuscì completamente. Il secondo posto al Mondiale ‘94 (sconfitta in finale ai rigori contro il Brasile) è una medaglia da esporre con orgoglio, ma da allora più nulla. Fallimentare l’Europeo del 1996 e pure i tentativi con l’Atletico Madrid e il ritorno al Milan (un clamoroso flop). A conti fatti l’avventura del marziano Arrigo durò dal 1987 al 1991, salvo qualche altra fugace apparizione. Un periodo corto e intenso, proprio come a lui piaceva che fossero le sue squadre.