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 2014  novembre 25 Martedì calendario

JOE DIMAGGIO. YANKEES E MARILYN, CENTO ANNI DA MITO

Joe è ancora qui, non è andato da nessuna parte. L’America continua a girarsi indietro e a cercarlo con occhi desolati, come nella canzone di Paul Simon. Nella speranza di ritrovarsi più giovane e pura anche solo guardando la sua eleganza. E magari l’Italia dovrebbe fare lo stesso. Perché in pochi, forse nessuno, hanno fatto tanto come lui per migliorare - in certi anni persino per riscattare - la nostra immagine negli Stati Uniti. E se è difficile definire quanto Joe si sia mai veramente sentito italiano, è invece facilissimo capire quanto gli americani lo abbiano percepito come tale. Non solo all’inizio, quando i cronisti lamentavano che quel cognome - DiMaggio - fosse così difficile da pronunciare, ma persino durante e immediatamente dopo una carriera straordinaria. «Figlio di immigrati italiani», «Figlio di pescatori siciliani», gli incisi negli articoli che ne hanno costruito la leggenda non sono cambiati mai, se non forse alla fine, quando l’atleta «ha trasceso il baseball per diventare un simbolo», come è scritto nella risoluzione della Camera dei Rappresentanti del 16 marzo 1999, il giorno della sua morte. Per questo è bello e giusto raccontare Joe DiMaggio nel giorno in cui avrebbe compiuto 100 anni.
DiMaggio non era bello, era elegantissimo. Aveva un fisico eccezionale, questo sì. Il suo metro e ottantasette e le sua risata cavallina avrebbero potuto essere portati sugli schermi da Fernandel. Ma non era solo questione di portamento e di stile, ovviamente, c’era anche tanta sostanza. Yogi Berra, l’unico uomo ad aver vinto più World Series di lui (10 contro 9), riassunse: «Abbiamo giocato insieme per 6 anni, non gli ho mai visto fare nulla di sbagliato». Probabilmente non era così ai tempi della scuola, visto che a 15 anni Joe passava le giornate sui diamanti di San Francisco. Per la disperazione di papà Giuseppe, emigrato nel 1898 da Isola delle Femmine, Palermo. E di mamma Rosalia che lo ha raggiunto nel 1902, senza tuttavia mai imparare l’inglese. Avrebbero voluto che i figli dessero una mano in barca. Giuseppe e i maggiori, Tom e Michael, lavoravano a giornata. Solo che al Fisherman’s Wharf di San Francisco comandavano i genovesi, e solo se tutti i liguri erano a bordo usciva qualche posto per i siciliani. Meno male che prima di Joe era venuto Vince, uno dei fratelli maggiori, chiamato dai San Francisco Seals. Papà Giuseppe aveva rifiutato di firmare il contratto. Ma quando, nel 1932, Vince mise sul tavolo 1500 dollari in contanti, in casa il giudizio sul baseball mutò in un attimo. E per Joe fu tutto più facile. Così che nella stessa stagione 1932, a 17 anni, anche lui era ai Seals, nella Pacific Coast League.
Nel 1934, Joe aveva 19 anni, per poco non finì tutto prima ancora di cominciare per via di un infortunio a un ginocchio. Gli scout della MLB tirarono una riga sul suo nome. Tutti meno uno, Bill Essick degli Yankees: «Tu firmi, ma il contratto vale solo dal 1936 e se nel ‘35 avrai giocato decentemente ai Seals». Joe fece un ‘35 da fenomeno e nel ‘36 era uno Yankee. A metà stagione tutti parlavano di lui. Life si stupì: «Parla inglese senza accento». Gli Yankees vinsero le World Series, Joe era già una star, anche se gli avversari lo chiamavano «Macaroni», «Dago», «Wop».
Quello che resterà per sempre, DiMaggio lo ha scolpito tra il 15 maggio e il 17 luglio del 1941. Cinquantasei partite tutte con almeno una valida. Considerando che uno bravo batte valido una volta su 10 e in una partita si va alla battuta mediamente 4 volte, è un non senso. Man mano che i giorni e le partite passavano, e ogni volta DiMaggio sparava almeno una valida, la frenesia cresceva. I giornali titolavano: «Ce la farà oggi Joe?». Le radio interrompevano le trasmissioni: «La valida è arrivata anche stavolta». Il 1° luglio eguagliò il record precedente, di 45 partite, a Boston, con una battuta atterrata ai piedi di Dom Dimaggio, suo fratello. «Questo grande italiano del Fisherman’s Wharf di San Francisco – scrisse Time – ha cancellato Ty Cobb e Babe Ruth». Il tutto mentre il solo altro italiano sui giornali era Mussolini. Mancavano 5 mesi a Pearl Harbor. L’anno successivo a papà Giuseppe sarebbe stato vietato di andare al Dimaggio’s Grotto, il ristorante che Joe aveva comprato al Fisherman’s Wharf. In quanto cittadino italiano era «un nemico interno», e come tale soggetto a restrizioni della libertà.
Quando, nel dicembre del 1951, Joe disse «Se non posso farlo nel modo migliore, allora non voglio più giocare», veniva da 13 stagioni in MLB, sempre e solo ai New York Yankees. Con cui ha vinto 9 World Series. Con 325 di media battuta e 361 fuoricampo. Nel 1949 era diventato il primo a superare i 100.000 dollari all’anno, e il NY Times, al solito, aveva salmodiato: «Il figlio di pescatori italiani immigrati che da ragazzino vendeva giornali per strada per un dollaro e mezzo al giorno oggi è l’uomo più pagato nel baseball».
Poi è stato come se tutto il resto della vita di Joe fosse rimasto racchiuso in quei soli nove mesi del 1954. La durata del matrimonio con Marilyn. La fiaba che lo ha reso famoso anche dove non distinguono un ball da uno strike. Quando lei non c’era già più, forse per distrarlo, gli chiesero di allenare, lui rispose: «Ho già abbastanza problemi ad occuparmi di me stesso». Ha seppellito la sua Marilyn, alla quale secondo certe leggende avrebbe chiesto di risposarlo appena pochi giorni prima del suicidio. Prima di chiuderla nella bara le avrebbe sussurrato per tre volte «Ti amo». E poi per 37 anni, due volte a settimana, ha fatto recapitare sulla sua tomba una mezza dozzina di rose rosse (farebbero 23.400 rose, all’incirca). Nel frattempo ha interpretato se stesso: abiti di sartoria, scarpe lucide e pettinatura con la riga drittissima, in centinaia di manifestazioni ed eventi in cui ha illuso una certa America, e forse se stesso, che il tempo non fosse passato. Fino al 1999, quando si dice che abbia sussurrato «Finalmente rivedrò Marilyn». Con l’epitaffio della nipote Emily, figlia di Dom: «E’ morto mio zio, un eroe solitario».