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 2014  novembre 06 Giovedì calendario

IL PIANISTA MAURIZIO POLLINI, 72 ANNI (DI MUSICA) PORTATI SPLENDIDAMENTE: «CON BEETHOVEN SUONO COME UN RAGAZZINO. CON L’ANDARE DEL TEMPO SAI QUELLO CHE DEVI CHIEDERE ALLE MANI». IN UN DISCO LA FINE DELL’IMPRESA INIZIATA NEGLI ANNI ’70: L’INTEGRALE DELLE 32 SONATE PER PIANOFORTE

[Intervista] –
Visto che è schivo almeno quant’è autorevole, mai si sarebbe pensato che Maurizio Pollini celebrasse con un certo fasto un proprio disco. Ma l’occasione è speciale. Con l’incisione delle opere 31 e 49, arriva infatti a compimento la sua registrazione integrale delle 32 sonate per pianoforte di Beethoven, ora rimesse in vendita in un cofanetto di otto dischi. Un’impresa iniziata negli Anni Settanta, «a cominciare proprio dalle ultime, le più impervie, che adesso mi piacerebbe incidere di nuovo», e conclusasi con due sonatine spesso eseguite dai principianti. Accade così che, davanti a un risotto giallo («per piacere senza cipolla»), il pianista che ha insegnato il rigore a un paio di generazioni di interpreti ci metta a parte di un suo bilancio. Tra un giudizio sui 25 anni dalla caduta del Muro («peccato per il fallimento di Gorbaciov: l’attuale dittatura in Russia non mi piace affatto») e un’osservazione sui pianisti cinesi («l’importante è che ci si confronti: Occidente e Oriente devono parlarsi»), va da sé che si cominci con Beethoven.
Quarant’anni scanditi da queste sonate. Il tempo per un musicista passa come per tutti gli altri?
«Sì. Ma anche no. Nel senso che deve sempre suonare come un ragazzo: se non ci riesce, tanto vale che rinunci».
Anche dal punto di vista delle difficoltà tecniche?
«Diciamo che con l’andare degli anni capisci meglio quel che devi chiedere alle mani».
Che cosa prova quando riascolta la 111 o la 106 del Pollini trentenne?
«Le guardo dall’esterno, come se le eseguisse un’altra persona. Di sicuro in quest’operazione ha contato una voglia di compiutezza, il desiderio che l’incisione assumesse un senso definitivo. Il lavoro in studio, così complesso e concentrato, si attaglia particolarmente a questa idea di responsabilità: nel totale degli otto dischi, infatti, le sonate eseguite in concerto sono soltanto due, l’opera 26 e la 53, registrate al Musikverein di Vienna. Ma il rapporto con il pubblico, insomma il senso di suonare per qualcuno, resta irrinunciabile. E le esecuzioni dal vivo particolarmente naturali».
Quali pianisti ascolta con più interesse in questo repertorio?
«Wilhelm Backhaus che è ineguagliato dal punto di vista tecnico. E soprattutto Artur Schnabel per il coraggio della lettura. I suoi tempi sono lenti, lentissimi: non teneva al rispetto della tradizione, ma alla volontà di Beethoven».
Il ministro Dario Franceschini ha dichiarato che 14 fondazioni liriche sono troppe. È d’accordo?
«No. Le fondazioni vanno mantenute e va loro assegnata una funzione più viva e attuale nei confronti della società. Però devono assicurare più recite: certe situazioni sono del tutto fuori dal tempo».
E come commenta le recenti vicende dell’Opera di Roma?
«Trovo deprecabile che Riccardo Muti abbia lasciato l’Italia e che il teatro non riesca a trovare una via onorevole di riscatto».
A lei che ha sempre insistito sull’impegno civile, vien voglia di chiedere che cosa pensi dell’Italia e del momento che stiamo attraversando.
«Da che parte vuole che cominci? Mi faccia un’altra domanda».
Vogliamo prendere come una risposta implicita il fatto che in Italia lei, nonostante tutto, continui a vivere?
«Senz’altro. Ma è anche vero che, più che italiano, io mi sento profondamente europeo».
Come e quanto le manca Claudio Abbado?
«Sempre e moltissimo. Ricordo l’ultima estate a Lucerna, ricordo quanto già stesse male e come gli organizzatori del Festival non l’avessero capito. Poi l’ultima operazione: era debole ma perfettamente lucido. Abbiamo sperato fino all’ultimo di tenere insieme due concerti, a Vienna e a Bologna. Non ci siamo riusciti».
Il suo prossimo impegno?
«Il 14 novembre in Spagna, a La Coruña, con il quinto Concerto di Beethoven e mio figlio sul podio».
Chi comanderà?
«Lo vedremo, per noi è la prima volta. Ma finora, quando parliamo di musica, io e Daniele andiamo perfettamente d’accordo».
Egle Santolini, La Stampa 6/11/2014