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 2014  novembre 06 Giovedì calendario

GIORGIO BASSANI IL GIORNO DELL’ARMISTIZIO INSIEME A MONTALE. UN RACCONTO INEDITO SULL’8 SETTEMBRE 1943. «IO HO FATTO LA GUERRA INVECE DI IMBOSCARMI COME TANTI DI VOI», DISSE CON RABBIA L’AMICO POETA

Nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, appoggiati a una spalletta del Ponte Vecchio di Firenze, stavamo a guardare – l’amico L. ed io – il tramonto sull’Arno. «De l’eternel azur la sereine ironie», mormorava L. Senonché l’azzurro, d’una trasparenza e d’uno splendore eccezionali, cedeva, dalla parte dove il sole era scomparso, a campi digradanti, quasi simmetrici, d’altro colore; ed erano zone larghe di verde, palchi orizzontali d’un verde senza macchia, tanto puro da far pensare a una nota musicale. Il tutto era fuso in una materia liquida e preziosa, non più aria o non solo aria: e ne spirava la stessa ineffabile dolcezza verde e azzurra che si specchia, a volte, nell’iride mansueta di certe fanciulle.
L., che tra parentesi è poeta vero anche se la sua poesia trovi spesso un limite nell’eloquenza, disse, appunto questo: che una fanciulla, la fanciulla ideale, volgeva in quel momento dal cielo il suo sguardo su di noi... Ma c’era poi dell’altro. Da una zona più bassa dell’atmosfera, quasi a contatto con l’acqua del fiume, si innalzavano dei delicati pennacchi di roseo vapore sfumati verso la cima di grigio e di viola. Il vento che era caduto completamente ne aveva in precedenza arruffato e scompigliato le chiome che apparivano ora ferme, come stampate, in disegni pieni d’un estro arcano e grandioso. A questo proposito l’amico L. parlò ancora del vento e della sua fantasia, e di non so quali rampanti draghi giapponesi «ricamati con fili purpurei sulla seta della sera». Perché mai l’età nostra ha reso insopportabile qualsiasi forma di declamazione?
Poco più tardi, percorrendo gli stretti vicoli che conducono dal Ponte Vecchio a Piazza Vittorio Emanuele, ci avvenne di incontrare una grossa macchina militare tedesca che procedeva lentamente in senso contrario al nostro. La macchina era bassa e lunga, grigia se ben ricordo, con qualcosa nel contenuto insito del motore di balzante di cauto insieme. Tutti gli otto posti della vettura erano occupati da ufficiali in tenuta di guerra. Le facce rasate e dure sporgevano tra i brevi lampi delle visiere e dei monocoli sopra la rastrelliera dei fucili mitragliatori sistemati con le canne in alto dietro il sedile anteriore. Ci tirammo da parte, addossandoci al muro. L’automobile passò oltre, svoltando al primo angolo. La rivedemmo comparire di lì a un momento a un incrocio di strade, lenta e silenziosa come sempre, coi suoi rigidi ospiti incastrati nei sedili come manichini. E man mano che avanzavamo per l’intrico delle stradette ne sentivamo attorno – noi – di là da un muro, oltre un quartiere – il continuo andirivieni, avvolgente e indecifrabile come i passi del frate bigio faustiano. Ci era presente – anche quando alla luce incerta del crepuscolo non ne scorgevamo più il lungo cofano e i metalli luccicanti – nel fruscio del motore e delle ruote gommate, nel secco grido della tromba che coglieva alle spalle, facendoli sussultare i passanti frettolosi.
La radio aveva già diffuso la notizia dell’armistizio quando arrivammo in Piazza Vittorio Emanuele. Di lontano avevamo già sentito le grida di gioia, ci aveva già sorpassato molta gente che correva verso le radio più vicine, ora stipavano l’interno dei caffè – “Giubbe rosse”, “Pascowski”, ecc. – in ascolto attorno agli apparecchi. Seduto a un tavolino all’aperto tra le seggiole di vimini scompigliate, tutto assorto nell’infilare con precauzione una sigaretta al bocchino d’ambra, il poeta M. (Eugenio Montale, ndr) ci accolse con l’abituale gesto amichevole aDunque l’armistizio?». «Già: ecco una bella occasione per fondare una nuova rivista letteraria». Sedemmo in silenzio.
Tornavano frattanto gli altri, la solita corte di amici – letterati, pittori e artisti in genere – che l’annuncio aveva disperso qua e là per la piazza a caccia di notizie. Dopo la prima eccitazione suscitata in loro dall’avvenimento sensazionale, eccitazione che li aveva fatti tutti più o meno partecipi del delirio generale, se ne tornavano adesso alla spicciola sgregarsi come vergognosi, al tavolino da cui il poeta M. che abitualmente vi pontifica non s’era lasciato distrarre un momento solo. Del resto, tra il refluire nella piazza della folla impazzita di gioia, la conversazione non poteva ormai che languire. In ognuno di noi, compreso forse lo stesso M. cresceva un senso di tristezza. Ricordo che ci separammo quasi subito, trovando nel coprifuoco imminente un facile pretesto per sottrarsi a un silenzio diventato poco meno che penoso.
Accadde comunque che l’indomani, verso sera, ci ritrovassimo pressoché gli stessi intorno a un tavolino del medesimo caffè. Per tutto il giorno aveva fatto un caldo afoso, opprimente. C’era il poeta M., e c’era il romanziere G. Durante la giornata avevamo assistito al primo ditissimo. dell’esercito. La minaccia dell’invasione tedesca pesava sulla città come un incubo altrove. G. non nascondeva la sua preoccupazione. Poco prima, in una strada del centro, gli era capitato di veder malmenare due soldati tedeschi isolati da parte di un gruppo di cittadini inferociti. Ogni resistenza della popolazione armatasi nient’altro che di fucili da caccia, sassi e coltelli da cucina, gli pareva una inutile pazzia. «Andremmo incontro, diceva, e senza nessun costrutto, a delle nuove Pasque Veronesi». Il poeta M. ascoltava sorridendo, ribattendo con argomenti volutamente paradossali. A un certo punto G., persa la pazienza, proruppe: «Ma questa non è che letteratura, e tu lo sai». Vedemmo allora M. diventar pallido come un morto. Levandosi a mezzo dalla seggiola rispose con imprevedibile vivacità e, conviene ammetterlo, con una buona dose di incoerenza, che lui aveva fatto la guerra, al fronte, e non già, come tanti imboscati di sua conoscenza, nelle retrovie a distillare pezzi di colore per il Corriere della Sera o per la Nazione; che era pronto a rifarla; che quello, secondo lui, era il momento di riprendere il fucile; e che considerava vigliacchi quelli che non la pensassero così.
Allibito, G. si preparava a ribattere con pari violenza, e la scena assolutamente inconsueta minacciava di scivolare nel ridicolo, quand’ecco, come a un richiamo, ci volgemmo tutti a guardare verso la piazza. Vi entrava giusto in quel punto, varando l’arco commemorativo che la separa da Via degli Strozzi, una comune carrozza da nolo, scoperta, e procedeva il cavallo – una rozza magra e macilenta – a un passo svogliato e lenta, Distesa sui cuscini rattoppati della carrozza, tra un cumulo di valige di cuoio cosparse di vistose etichette internazionali, una donna. Il vestito estivo, svolazzante, ne lasciava intravedere le forme piene, un poco appassite. Il viso triangolare, largo e bianco di cipria, volgeva verso il nostro tavolo. E man mano che la carrozza percorreva in giro tutta la piazza, assopendo come per incanto il brusìo della folla, la donna, piegando il collo, accennava a noi col capo, sorridendo. Il sorriso le scopriva i denti forti e regolari, un po’ radi, nella grande bocca dipinta. E intanto dagli occhi obliqui, mostruosamente verdi e celesti, occhi di fanciulla e di vergine, ma distanti l’uno dall’altro e in qualche modo bovini, lasciava filtrare un lungo sguardo insieme triste e ironico. Indovinammo il suo profumo di lontano, ricco e volgare, da prostituta.
Dopo aver vagato così, a lungo, apparentemente senza una mèta, ma in realtà come avvolgendo un punto preciso, noto a lei sola, la carrozza si allontanò senza fretta, scomparve giù verso Porta San Piero. Prima però che dileguasse completamente, un braccio tondo e bianco con in cima una piccola mano paffuta si agitò con malinconia di sopra al mantice polveroso; e mentre un cupo fragore di ferraglia rotolante sui lontani selciati della periferia faceva già tremare tutti attorno i vetri delle finestre, vedemmo balenare nel buio, come fuochi fatui, i grossi anelli delle dita.
©Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
©2014, The Estate of Giorgio Bassani
Giorgio Bassani, la Repubblica 6/11/2014