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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

«VORREI CHE FACESSE IL MAGISTRATO». INTERVISTA A GIOVANNI TIZIAN


C’è un portone, a Roma, piantonato da guardie del corpo confuse tra i passanti. Sul campanello, un biglietto attaccato con lo scotch e, scritto a biro, un cognome finto. Qui abita Giovanni Tizian, giornalista sotto scorta che lavora all’Espresso ed è autore del romanzo Il clan degli Invisibili (Mondadori), in libreria dal 4 novembre. Minacciato di morte per le inchieste sulle mafie, Tizian ci accoglie con in braccio il suo bambino di quattro mesi: dorme aggrappato alla sua spalla, testolina contro testolona. La moglie Laura, giornalista d’inchiesta anche lei, fa lo slalom tra la rivoluzione di giocattoli, biberon e libri. La colonna sonora è della lavatrice che gira a ciclo continuo. È in questi pochi metri quadrati che si espande una normalità felice. «È qui che siamo liberi».
Fuori è un’insidia: Tizian vive sotto protezione armata dopo gli articoli scritti come freelance per la Gazzetta di Modena sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Era il 2011 quando nell’operazione Black Monkey, le Fiamme Gialle intercettano Nicola Femia, ritenuto boss della ’ndrangheta, allora non ancora condannato in via definitiva a quasi 23 anni per narcotraffico: è irritato per le inchieste di quel giornalista della Gazzetta, calabrese come lui, e non gradisce essere citato fra i «padroni» di un giro di gioco d’azzardo illegale. La soluzione è nella frase del suo interlocutore: «O la smette o gli sparo in bocca».

Giovanni, lei è vivo grazie alle intercettazioni.
«Era il 22 dicembre 2011, stavo per pranzare con Laura quando mi hanno chiamato sul cellulare per dirmi che da quel momento ero sotto scorta. Non sapevo di essere in pericolo di vita. Il primo sforzo che abbiamo fatto, io e Laura, è stato quello di andare avanti, per non diventare vittime di noi stessi. Da allora sono passati tre anni, 1.095 giorni».
Avanti siete andati: vi siete sposati e avete un bambino.
«Ci vuole incoscienza e coraggio. Certo, non siamo più solo io e lei a dover rendere conto a noi stessi. Adesso sentiamo un peso, sai che certe cose possono ricadere su tuo figlio. Ma non permetterò più a nessuno di incrinare il nostro nuovo equilibrio».
Nel suo romanzo, il protagonista è un giornalista antimafia come lei e ammette che «è troppo rischioso mettere al mondo un bambino».
«La paura c’è, ma non deve paralizzare. O smetti di vivere o cambi mestiere».
Per fortuna c’è la scorta.
«Averla significa che sei più sicuro, ma non sei più solo: la privacy finisce. E non è vero che ci si abitua alla protezione armata, è uno stress per chi sa di avere tutta la vita davanti. Naturalmente, è nata una sintonia con queste persone, sono lavoratori che rischiano, fanno parte della tua vita. Almeno, cerchiamo di non eccedere per non abusare del loro impegno: pochi spostamenti, cene fra amici fidati, a letto presto».
Lo scrittore Roberto Saviano, anche lui sotto scorta, lamenta di non avere privacy: è solo dopo aver pubblicato Gomorra e denunciato i clan.
«Sono scelte che si fanno se diventi personaggio pubblico, la vita si complica».
Voi dimostrate che si può fare un’esistenza quasi normale.
«Un basso profilo ti permette più tranquillità privata».
Lei, Tizian, una vita tranquilla non l’ha mai avuta, neanche quando era piccolo, a Bovalino, nella Locride, regno di ’ndrangheta.
«Nel 1988 un incendio doloso ha bruciato la fabbrica di mobili di mio nonno Ciccio. Un anno dopo, era il 23 ottobre di 25 anni fa, mentre la nostra famiglia cercava di risollevarsi, mio padre Peppe è stato ammazzato con un fucile a canne mozze e la matricola abrasa, una modalità mafiosa. Papà era un funzionario di banca, il Monte dei Paschi di Siena. Ancora non è stato stabilito se i due episodi fossero collegati. Secondo me, sì. Ma hanno portato nel 1992 al fallimento del mobilificio e la mia famiglia si è dovuta trasferire al Nord, a Modena, mentre la nostra fabbrica ha fatto una brutta fine: dopo qualche anno, con indagini mie personali, ho scoperto che su quei terreni la ’ndrangheta aveva avviato un’attività».
I suoi pensieri sono stati segnati dalle mafie.
«Da piccolo percepivo solo molta confusione. A 20 anni ho cominciato a capire quello che mi avevano strappato. Il dolore per papà, il distacco forzato dalla tua terra, dolori su dolori, malinconia e tristezza, questa frattura che ti porti dentro fa male perché ti hanno levato un pezzo della tua vita. E il dolore aumenta con la consapevolezza».
Non l’ha mitigato la nascita di un figlio?
«Può darsi. Ancora mi chiedo cosa avrebbe fatto mio padre, cosa avrebbe pensato del mio lavoro, di suo nipote. Mi manca da anni la figura paterna che ti spiega alcune cose che una mamma, anche se straordinaria come la mia, non ti può dire. Certo, adesso guardo mia moglie e mio figlio e penso che il peggio è passato».
Lei è saldamente legato al passato.
«Nella mia vita c’è un filo rosso, ma quando poi fai le scelte, le fai e basta».
Come la specializzazione in Criminologia.
«Mi è servita per capire il Diritto, la Procedura penale: importanti per chi fa il giudiziario. Mi è stato utile per diventare giornalista fin da quando scrivevo un pezzo per quattro euro».
Ha continuato la ricerca della verità su suo padre?
«Sto cercando e cercherò. Oggi, rispetto al passato, ci sono magistrati più sensibili».
Ha scritto libri come Gotica sulle infiltrazioni della mafia al Nord. Adesso ne ha fatto un romanzo. Non è un po’ sminuire il suo lavoro d’inchiesta?
«Tra i lettori c’è molta indifferenza al tema. Con la formula del romanzo vorrei catturare l’attenzione dei più giovani, fare comprendere i meccanismi senza perderli nel linguaggio tecnico del saggio. Racconto fatti avvenuti realmente, mischio indagini e processi di almeno 20 clan, le loro complicità con la politica, gli affari. È un esperimento che spero continui in una serie».
Scrive di un boss spietato, ’U Signurinu: veste firmato e parla con i picciotti via Skype, che non si può intercettare. Ricorda Matteo Messina Denaro, considerato l’ultimo padrino di Cosa Nostra.
«Non è lui, il mio personaggio è una somma di boss, di quelli che sanno muoversi nei piani alti della società, soprattutto calabresi».
Nel libro è omosessuale.
«Parlo di omosessualità perché nel codice d’onore mafioso non è accettata: vieni allontanato o ammazzato. L’altra strada è reprimere la propria natura e dimostrare di essere un uomo vero con l’eccesso di violenza. Anche l’aspetto è importante: i capelli vanno rasati, quelli lunghi li portano solo le femmine».
Mai conosciuto, a Bovalino, un picciotto dai capelli lunghi?
«C’era ’U Spice, perché adorava le Spice Girls: si permetteva i capelli lunghi perché figlio di un padrino, tra i più potenti. Adesso è latitante».
Nel romanzo scrive della collusione di un ministro degli Interni del partito Nuova destra e di una mafia che fa capo al Fronte Padano: si riferisce a qualcuno in particolare?
«Il “mio” ministro dell’Interno sintetizza alcune figure politiche finite in varie inchieste. Ma per il collegamento tra ’ndrangheta e Lega Nord ho preso spunto dalle inchieste in corso a Reggio Calabria. E da una vecchia istruttoria poi archiviata, Sistemi criminali, dell’attuale Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, Roberto Scarpinato, che metteva in luce la nuova mafia, quella che non è più rappresentata da un incosciente come Riina, ma è collaborazione tra vari sistemi di potere deviato. Clan, servizi segreti, politica, movimenti autonomisti».
Proprio Scarpinato, nel libro Il ritorno del principe, punta il dito sull’attuale presidente del Senato Pietro Grasso. Racconta di quando era Procuratore nazionale antimafia e avrebbe diviso il pool di Palermo con una gestione troppo personale del pentito Antonino Giuffrè.
«Non posso essere io a giudicare i giudici dell’Antimafia. Ma quando ci sono scontri tra procure e magistrati non se ne esce più. So invece che oggi ci sono pentiti che aiutano e altri arruolati per depistare. Bisogna guardare ai fatti. Evito di inserirmi nelle polemiche tra giudici. Io faccio un altro mestiere, e cerco di arrivare prima degli inquirenti. Per chiarezza, stimo entrambi».
Oltre alla Magistratura, ci sono le associazioni antimafia.
«Sono fondamentali. Da Libera, che è fatta di persone, e voglio citare don Luigi Ciotti e l’avvocato Enza Rando, ai ragazzi di daSud e Stop’ndrangheta, compagni di viaggio che mi hanno accompagnato nel percorso di memoria su mio padre».
E questo governo aiuta?
«L’antimafia non è tra le priorità né di questo governo, né dei precedenti. C’è un limite in tutte le legislature, interpretano il contrasto alle mafie come pura questione di sicurezza, e non vedono la complessità di un fenomeno che è sociale, culturale, economico».
Che cosa dovrebbe fare, il governo, come prima cosa?
«Creare posti di lavoro stabili, perché i giovani non siano più precari e quindi ricattabili. Chiediamoci quanti laureati in mancanza di lavoro si prestano a servire le cosche che sono sempre in cerca di menti raffinate per riciclare».
Contro le mafie danno una mano anche libri e film. Quali?
«Libri come Gomorra, bellissimo, film come I cento passi dove il mafioso non rischia di essere scambiato per eroe, come succede in quasi tutti gli altri film sul tema. E poi La mafia uccide solo d’estate, di Pif: prendere in giro Riina che non sa azionare l’aria condizionata destabilizza i mafiosi».
Farà come il protagonista del film che, alla fine, porta il figlio sui luoghi degli attentati per fargli capire da che parte stare?
«Mio figlio deve sapere».
Che cosa vorrebbe diventasse, da grande?
«Un magistrato».
«Un odontoiatra», si affaccia Laura. «È meno pericoloso».