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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - I REPUBBLICANI VINCONO LE ELEZIONIDI MIDTERM. OBAMA TRAVOLTO


REPUBBLICA.IT
NEW YORK – Il momento della verità è arrivato alle 23.24 della East Coast (le 5.24 del mattino in Italia). A quell’ora i repubblicani hanno vinto il seggio di senatore nell’Iowa, portando a quota 6 il loro guadagno al Senato: oltre la soglia della maggioranza assoluta. Due minuti dopo passava alla destra anche il seggio della North Carolina portando a 7 senatori il guadagno dei repubblicani e consolidando la loro maggioranza assoluta.
Non c’è stata la sorpresa. Niente rimonta democratica dell’ultima ora. Le elezioni di midterm sono andate secondo il copione. E’ un’avanzata della destra: i repubblicani consolidano la loro maggioranza alla Camera (che conquistarono già quattro anni fa), e vi aggiungono anche il Senato. Tutto il Congresso è nelle loro mani. Per la precisione, lo sarà dal gennaio 2015, quando s’insedieranno a Capitol Hill i parlamentari eletti in questo 4 novembre.
Se Barack Obama aveva avuto la vita dura con una Camera che gli boicottava ogni riforma da quattro anni, ora sarà peggio. Il Senato ha un potere aggiuntivo rispetto alla Camera, quello di confermare o bocciare le più importanti nomine del presidente: membri dell’esecutivo e giudici. La guerra dei repubblicani si estenderà anche alle nomine, quindi, privando il presidente di uno degli strumenti per cambiare gli equilibri di potere.
Mitch McConnell, rieletto trionfalmente nel suo seggio di senatore del Kentucky, diventerà il leader della maggioranza al Senato. Insieme col suo collega John Boehner, lo Speaker of the House che da quattro anni guida la maggioranza repubblicana alla Camera, questi due devono decidere cosa fare dell’enorme potere che hanno a disposizione. Il sistema politico americano è “meno presidenziale” di quanto appaia al resto del mondo. Le leggi più importanti, nuove tasse o nuove spese, non possono passare senza il sì del Congresso.
La politica economica, con l’eccezione della leva monetaria controllata dalla Federal Reserve, non può essere decisa alla Casa Bianca da sola. Ora gli ottimisti sperano in un miracolo: che i repubblicani forti della loro vittoria diventino improvvisamente più pragmatici, più moderati, e comincino a cercare dei terreni d’intesa col presidente. I temi ci sarebbero. La riforma della normativa fiscale, per semplificare le tasse, ridurre le agevolazioni e i privilegi ingiustificati, chiudere gli spazi per l’elusione delle multinazionali e al tempo stesso ridurre la pressione fiscale complessiva: sugli obiettivi generali democratici e repubblicani potrebbero trovare dei punti di contatto.
Un altro possibile accordo interessa da vicino gli europei, riguarda il nuovo trattato di libero scambio transatlantico. Obama lo vuole, convinto che farà bene alla crescita e all’occupazione. I repubblicani sono tradizionalmente liberoscambisti, potrebbero trovare qui un’occasione di cooperazione con la Casa Bianca. Ma vorranno farlo? Da una parte gli eletti della destra sentono il “richiamo della foresta”, cioè la base più faziosa. Non bisogna dimenticare che molti di questi senatori e deputati repubblicani sono stati eletti al termine di una selezione particolare: prima hanno dovuto vincere le primarie di partito spesso dominate dal Tea Party e altre componenti della destra fondamentalista. C’è anche da pagare il debito con i grandi finanziatori, le lobby del petrolio o di Wall Street o del capitalismo sanitario privato. Per alcuni di questi parlamentari, accettare il dialogo con Obama è come parlare col diavolo in persona. Rischiano la propria sopravvivenza politica, in un partito alla deriva verso destra. Ma d’altra parte, seguire la tentazione del muro contro muro può comportare una disfatta nel 2016 quando si tornerà a votare: per il prossimo presidente e un’altra tornata legislativa. L’elettorato si pentirebbe rapidamente di aver dato la maggioranza ai repubblicani, se questi dovessero usarla solo per peggiorare lo stato di paralisi che attanaglia il sistema politico di Washington. Da oggi, questo dilemma del partito repubblicano s’intreccia con la ricerca di un valido candidato presidenziale. Le primarie sono ancora lontane, certo, ma il problema della destra è l’assenza di un leader autorevole della statura di Hillary Clinton.
In quanto a Obama, al momento la sua presidenza si avvia a un crepuscolo mesto. I sondaggi misurano da molti mesi un tracollo di popolarità. Lo stesso presidente appare quasi demotivato, disilluso, consapevole di non essere riuscito a sfondare nella sua missione più ardua: riformare il sistema politico stesso. Il blocco delle istituzioni peggiora, così come si aggrava la commistione tra denaro e politica: sono state le elezioni midterm più costose della storia. Ma il presidente resterà pur sempre il dominus della politica estera nella superpotenza mondiale. Guerra e diplomazia restano essenzialmente delle prerogative della Casa Bianca, in quel campo l’influenza del Congresso è più modesta. Le grandi crisi del momento, dalla Siria all’Ucraina, continueranno ad assorbire molte energie e molta attenzione di Obama.
Infine il presidente potrebbe accentuare una scelta già fatta negli ultimi mesi: usare di più i poteri esecutivi anche sul terreno dell’ambiente. Di fronte a una destra negazionista, che rifiuta perfino l’evidenza scientifica sul cambiamento climatico, non c’è intesa possibile sulla carbon tax o altri limiti alle emissioni di CO2. Perciò Obama ha già sperimentato un’opzione alternativa: intervenire aggirando il Congresso, con l’uso estensivo dei poteri regolamentari della Environmental Protection Agency. Se riuscisse a lasciare un’eredità positiva sull’ambiente, insieme con i matrimoni gay e la riforma sanitaria, Obama potrà sperare che il giudizio della storia verso di lui sia meno severo di quello dei suoi contemporanei. E magari alla fine qualcuno ricorderà che sotto di lui l’America è uscita dalla più grave crisi dopo la Grande Depressione degli anni Trenta.

michael moore
"Follia: la maggioranza degli americani è per i diritti degli omosessuali, per i diritti delle donne, per i diritti civili, vuole le leggi contro il cambiamento climatico, vuole aumentare il salario minimo, e poi consente alla minoranza di eleggere un Senato repubblicano", ha scritto il regista americano Moore

DETTAGLI SUL VOTO:
CAMERA Sono in palio tutti i 435 seggi, di cui 199 detenuti dai Democratici, 233 dai Repubblicani e 3 sono vacanti. Occorrono almeno 218 seggi per garantire la maggioranza. RISULTATO: Repubblicani (rossi) 248, Democratici (blu) 187

SENATO Si rinnovano 36 seggi su 100, di cui 21 detenuti dai democratici e 15 dai repubblicani. Gli altri 64 sono 32 democratici, 30 repubblicani e 2 indipendenti. Si parte da questa base per determinare la nuova maggioranza del Senato: occorre aggiudicarsi 51 seggi. RISULTATO: Repubblicani 53 (+8), Democratici 45, Altri 2.

La democratica Alma Adams ha ottenuto in North Carolina la vittoria nell’elezione speciale per il dodicesimo distretto. Trattandosi di un’elezione speciale, occuperà il suo seggio nei prossimi giorni e non dovrà aspettare il giuramento di gennaio: sarà la centesima donna su 535 membri del congresso (81 democratiche, 19 repubblicane). E’ la prima volta che viene raggiunta questa cifra. Nel 2011 e nel 2009 le donne erano 90, nel 2003 74, nel 1991 soltanto trentadue.

Un altro George Bush eletto in Texas. Si tratta del figlio dell’ex governatore della Florida Jeb Bush e nipote dell’ex presidente americano George H. W. Bush. George Bush è stato eletto a un ruolo poco conosciuto ma molto importante in Texas, ovvero il ’land commisisoner’, il commissario delle terre pubbliche e dei diritti sulle miniere dello stato. George Bush è il primo della dinastia Bush a centrare una vittoria elettorale alla sua prima competizione

Ha 30 anni la donna più giovane eletta al Congresso americano. E’ la repubblicana Elise Stefanik ed è stata eletta per rappresentare lo stato di New York. Stefanik, che ha lavorato alla casa Bianca quando c’era l’ex presidente George W. Bush, batte il precedente record detenuto da Elizabeth Holtzman, eletta alla Camera a 31 anni.

ZUCCONI E COMMENTI


La prevista sconfitta del partito (nominalmente) del Presidente Barack Obama in queste elezioni legislative di metà mandato ha una spiegazione semplice dentro una situazione molto complessa, sulla quale anche la politica italiana farebbe bene a studiare: chi di leaderismo ferisce, di leaderismo perisce.

Da decenni ormai, da quando l’esplosione della tv nel 1960 ha fatto dei candidati alla Casa Bianca “prodotti” da vendere all’elettore consumatore, l’importanza di quello che su Repubblica Eugenio Scalfari ha chiamato “l’uomo solo al comando” è andata crescendo fino a coprire con la propria ombra i partiti, o quello che di loro rimane. Non è una novità, in un sistema presidenziale, ma i mass media, dalla radio alla tv fino alla Rete hanno aggiunto un elemento fortissimo di artificialità commerciale e nevrotivo al naturale leaderismo di un sistema elettorale costruito per produrre comunque un vincitore. Ne hanno amplificato a dismisura l’importanza.

Repubblicani e Democratici negli Stati Uniti non sono mai stati nulla di paragonabile ai classici partiti di massa europei del XX Secolo, organismi permanenti, strutturati, gerarchici e ben radicati nella nazione. Qui, i partito si formano e si organizzano soltanto in funzione dei momenti elettorali, riproducendo nei singoli Stati e collegi il fenomeno nazionale del leaderismo. Se un candidato è forte, in Indiana o in California, tenderà a vincere indipendentemente dalla propria, labilissima, etichetta nazionale.

Per questo le elezioni negli anni “fuori”, quelli che cadono a metà dei mandati presidenziali, divengon più grandi, e insieme parziali sondaggioni su quanto il “capo cordata”, la persona di riferimento, sia poplare e amata.

Obama non lo è. E’ apparso, a dispetto di risultati economici che in Europa sarebbero acclamati come miracoli e celebrati con Te Deum nelle cattedrali come dopo le pestilenze, una figura sbiadita, nonostante il colore della sua carnagione, evanescente, quasi abulica. La sua aria a volte infastidita, irritata, da intellettuale offeso dalla ottusità demagogica dell’opposizione e dall’ostracismo suicida di quel partito del Tè che era addirittura pronto a condurre la nazione al default sul debito, hanno creato l’apertura nella quale hanno fatto irruzione ieri i Repubblicani. Vincitori senza altro progetto politico che non fosse quello di dare una lezione a Obama e strappare almeno il Congresso, la Camera e il Senato, alle grinfie di colui che l’elettorato bianco e maturo di anni ha sempre guardato come un usurpatore.

Da traino, il leader diviene così inesorabilmente zavorra. Da magnete che attira consensi e li ridistribuisce a pioggia sul partito, diventa bersaglio da colpire, anche se soltanto indirettamente.

Non cambierà molto nell’Amministrazione della nazione americana, se non cementare quello stallo legislativo, fra proposte fatte soltanto per essere respinte, veti presidenziali, interminabile giochi di tiro alla fune sulla finanziaria, il bilancio, le spese, il debito, che ha profondamente screditato il prestigio della politica, anche qui.

Sarà invece la conferma delle forza e dei limiti di partiti troppo condizionati dalla figura di chi li rappresenta e che determina i successi elettorali in funzione della propria popolarità. Come la squadra che si affida a un solo grande campione, così i partiti personali vincono o perdono secondo l’andamento della sue condizioni di forma, addirittura oltre i dati concreti del successo o del fallimento delle sue politiche, fino alla soggettività superficiale ed epidermica, da Social Network, del “mi piace” o “non mi piace”.

Barack Hussein Obama non piace più ad abbastanza elettori per coprire con la propria ombra il partito al quale appartiene. E da oggi i Democratici – come i Repubblicani – dovranno pensare a un nuovo leader per aggrapparsi all’orlo dei suoi calzoni, o del suo tailleur, verso il 2016. Un uomo, o una donna, con la quale riaffiorare o affondare, sempre più prigionieri dell’effimento e volubile culto della personalità.

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78 commenti
verbeag 5 novembre 2014 alle 19:24

Il direttore oggi è in lutto, il voto di ieri ha rifilato un sonoro ceffone al suo amato e osannato Obama, e come sempre in questi casi, tenta di svilire il risultato infililando la frase “elettorato bianco e maturo negli anni” a sottintendere che contro Obama hanno votato solo vecchi rincoglioniti e pure razzisti, non certo gli americani giovani, colti, moderni e illumunati che piacciono a lui, in realtà Obama è semplicemente un presidente che ha disatteso le aspettative, mediaticamente fortissimo, adorato dalle intellighenzie di mezzo mondo, omaggiato di un nobel per la pace senza aver fatto nulla per meritarlo, ha semplicemente esaurito il suo momento d’oro, roboanti promesse e poca sostanza…pensandoci bene mi ricorda un politico italiano attualmente molto in voga…
giampy69 5 novembre 2014 alle 18:47

Piu o meno d’accordo su tutto, attenzione su un punto pero’: la ripresa economica e’ stata sterile nel senso che eccettuato i piu bravi e fortunati, i salari sono fermi da quel di’, e i dati positivi sulla disoccupazione in parte sono dovuti al fatto che molti hanno smesso di cercare lavoro.

Insomma sono passati 6 anni dallo “yes we can” e dalle promesse, e molti sono frustrati e disillusi perche’ sebbene qualche risultato ci sia, si vede molto poco.

E’ stata questa la vera apertura per i Repubblicani, molto piu che l’aria infastidita e irritata di Obama di fronte al tea party.

Poi siamo d’accordo che di conseguenza, in una nazione ossessionata dalla leadership, si punisce il leader prima di tutto il resto.

Giampy
gabritremila 5 novembre 2014 alle 18:39

Kenneth Roth scrive (lo riporta l’HP):” Obama ha deluso su libertà e diritti”, come se fosse facile operare in questo campo nella patria del Tea Party. E allora? Delusi, non sono andati a votare? (Perché spero di poter escludere che abbiano votato per i repubblicani). Ma così hanno rafforzato i nemici dei diritti e ridotto Obama-che sui diritti è il meglio della piazza-a un’anatra zoppa. Cari democratici americani delusi da Obama, ora il raggiungimento dei diritti si è allontanato ancor più. Vi piace questo risultato? Saggezza popolare: chi troppo vuole….per i miracoli ci vuole un po’ di tempo. :-)
dalfuturo 5 novembre 2014 alle 18:14

Frenz, che vuoi che in oltre di 200 anni la mancanza di partiti strutturati ha prodotto il disastroso risultato di fare degli USA il paese più ricco e più potente del mondo? Poveri loro, beati noi che invece abbiamo avuto i nostri strutturatissimi partiti; per fortuna, altrimenti correvamo il rischio di diventare più simili a loro!
frenz27 5 novembre 2014 alle 17:41

Ma che poi rileggendo l’articolo di Zucconi, uno si dice: ma è da quando è nata la Costituzione americana che negli USA funziona così…
spdr386 5 novembre 2014 alle 17:13

Mi dispiace Direttore, ma non ci siamo. Troppo facile dare colpa all’elettorato per la vittoria dei Repubblicani. Il semplice fatto e` che se hanno votato contro il suo partito e quello che rappresenta, vuol dire che le cose non vanno a gonfie vele. Legga pure articoli di NY Times or Wash Post della strategia repubblicana: legare ogni candidato con Obama.
L’economia si va meglio, ma e` piu` occupazione di precari e con aziende che hanno profitti record grazie anche ad una fed molto accomodante.
In politica estera, c’e` un mondo a ferro e fuoco con poca leadership da parte di questo presidente. Prima pensavo che fare niente e` meglio che fare una scelta sbagliato…dopo Obama non ne sono piu` convinto. Quasi invidiare Bush…
E` il semplice fatto che questo presidente era molto piu` bravo a ‘correre’ che governare e adesso dovra` soffrirne le conseguenze.