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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

LA SOPRAVVIVENZA DEL PIU’ COLTO

«La vita non è più un mistero. È Dna, una molecola capace di replicare se stessa». A 92 anni, Luigi Luca Cavalli-Sforza è l’ultimo di una generazione di scienziati italiani che hanno cambiato il mondo. Non è possibile parlare di genetica delle popolazioni senza che il suo lunghissimo nome domini ben presto il discorso. È grazie a lui se oggi possiamo affermare, dati alla mano, che l’unica cosa pura nel concetto di razza è la sua totale idiozia.
Questa mente iperuranica e radicatissima nel mondo, pionieristica e antesignana, vive in un corpo dalla biografia tanto complessa quanto interessante. Cos’altro può desiderare un uomo che ha condiviso gli studi e le scoperte con i grandi maestri della scienza contemporanea, che ha viaggiato il mondo in lungo in largo e rischiato di perdersi nel deserto del Sahara, che si raccontava i sogni con Rita Levi-Montalcini e ha ereditato il cognome dai capitani di ventura e duchi di Milano?
Molto prima che le sofisticate tecniche odierne fossero disponibili, i suoi studi hanno avvicinato la genetica ai risultati comparati di archeologia, linguistica, storia e antropologia, fino a ricostruire gli antichi movimenti migratori dell’umanità. Una mappatura da cui risulta che l’origine geografica di Homo sapiens sapiens è un’unica, piccola regione dell’Africa orientale. Colore della pelle e degli occhi non sarebbero che semplici varianti funzionali, spesso legate a necessità climatiche. «Le differenze veramente importanti vigono tra gli individui», ci insegna, «non tra i gruppi».
Negli anni Novanta, dovevi saper citare Geni, Popoli e Lingue e Storia e geografia dei geni umani per non sentirti retrogrado, e gli italiani si battevano il petto pieni d’orgoglio. Strano destino, dal momento che Cavalli- Sforza aveva lasciato il paese più di vent’anni prima, per insegnare all’Università di Stanford, in California, libera dalla burocrazia e dal baronaggio di madre patria. Un successo tardo, il suo, ma cesellato nel rigore accademico e impresso a fuoco nella storia del Novecento. In un’e-mail, Francesco Cavalli-Sforza mi fa sapere che il padre è tornato per trascorrere qualche mese nella residenza estiva di famiglia. Mi rassicura sulla sua ottima presenza di spirito e competenza ma, mi avverte, a causa dell’età alcuni ricordi di persone e fatti potrebbero sfuggirgli. Francesco, coautore di numerosi libri divulgativi, si offre come "memoria esterna" per completare le lacune.
Se l’idea di conoscere un uomo in odore di Nobel e con quasi un secolo di storie da raccontare mi affascinava – con punte di terrore – ora sono commosso e onorato.
Arrivo al borgo di San Pellegrino, poco fuori dalla città di Belluno, nel primo pomeriggio. Villa Buzzati appare come un sogno maestoso circondato dal verde. Devo avere interrotto il pranzo perché, dopo un’educata accoglienza, mi viene detto che Luca non è ancora pronto. In una giornata che si preannuncia ricca di riferimenti storici, genealogie e nomi illustri, non mi sorprende scoprire che tra queste mura è nato Dino Buzzati. Invitato ad aspettare in giardino, Francesco mi spiega come gli studi del padre si siano allacciati fin da subito alla sua vita privata. Ad Adriano Buzzati Traverso, «uno dei creatori della scienza italiana» e fratello di Dino, Luca fu debitore di due amori: quello per la genetica, grazie a un libro lasciatogli prima della guerra, e quello per la nipote del maestro, sua futura moglie. «Si sposarono il 7 settembre 1943», dice sorridendo il figlio, «un giorno prima dell’armistizio».
Francesco, accaldato in un’ampia camicia esotica, mi sta raccontando la storia della villa – l’architettura romantica, le origini pagane della chiesa di S. Pellegrino, i soggetti mitologici e gli inserti gotici degli affreschi, convincendomi che un filo invisibile leghi davvero ogni atomo dell’universo – quando s’interrompe: «Ecco mio padre». Luigi Luca Cavalli-Sforza ci viene incontro attraverso il giardino. È un uomo piccolo, magro, ma agile nonostante l’età. A colpirmi è il suo sorriso sincero e ospitale. In abiti informali, dei tre è senza dubbio il più elegante.
Ci sediamo in studio. Due laptop su una scrivania contrastano con l’arredamento antico. È la stanza in cui scriveva Dino, il quaderno posato sulle gambe, grato a questo luogo che fin da bambino rappresentò per lui un «fondamento poetico». Cavalli-Sforza, nonostante sia di casa da oltre settant’anni, mi confessa invece di sentirsi ancora oggi «un abusivo».Il professore denota una gentilezza d’altri tempi, mai del tutto accomodante, sotto cui scalpita un’intelligenza corrosiva. La lunga abitudine al dubbio scientifico e all’indagine, anziché sfinirlo, ne hanno fatto un esempio di decisione. I vuoti di memoria sono rari. Di poche parole, sempre misurate, si esprime senza mezzi termini. Ha 92 anni e non ama perdere tempo.
«Ci sono idee che hanno una loro forza che non è sempre apprezzata da tutti», mi dice. Gli ho chiesto come si riconosce un’idea importante, e da dove venga la convinzione per seguirla contro lo scetticismo e l’incomprensione generale. «Quando uno ci entra dentro bene è difficilissimo lasciarla, perché si capisce di aver messo le mani su un piccolo tesoro». «È un istinto?». «Sì, senza dubbio». «È giusto abbandonare una buona idea, se rischia di diventare pericolosa?». «Se diventa pericolosa non è più una buona idea».
La curiosità di Cavalli-Sforza, tanto potente da diventare avidità intellettuale, è risaputa. A Stanford gira voce che sia «il primo in un campo, poi arrivano gli altri a porre le stesse domande». Di quella curiosità, ha detto in un’intervista recente, non gliene è rimasta molta. Eppure continua a pubblicare libri con il figlio e, quando parliamo di qualcosa che non conosce, rarità in effetti, i suoi occhi brillano.
La prima idea-tesoro gli venne negli anni Cinquanta. Ai tempi lavorava con J. Lederberg, futuro premio Nobel, con il quale studiava la sessualità dei batteri, concetto scandaloso per l’epoca. Lo scetticismo contemporaneo si era espresso nei termini più eleganti: «Come si può credere a queste fantasie, quando a proporle sono un italiano e un ebreo?». Ma l’idea più importante fu quella sulla deriva genetica-la componente dell’evoluzione dovuta a fattori casuali anziché ereditari, per esempio la variazione di un cromosoma. «Nessuno pensava che fosse un fenomeno rilevante», mi spiega Francesco. «Quando Luca cominciò a raccogliere dati sulle popolazioni nella val di Parma, erano in pochi a dargli credito». Grazie alla sua ricerca, però, oggi sappiamo che la deriva genetica ha inciso fin quasi al 90 percento sulla specie umana. «Cosa che fa irritare chi, per qualche ragione, ha problemi con il caso».
Giurerei che «chi ha problemi con il caso» siano i creazionisti, e tutta la compagine, religiosa o meno, che da sempre oppone al folle progresso scientifico una ragionevolissima credenza nell’anima e nello spirito. Cavalli-Sforza, il cui ateismo è forse pari alla sua ampiezza intellettuale, favorevole all’eutanasia e per cui la Bibbia, sulle nostre origini, «non dice un accidente di niente», ascolta in silenzio.
Gli inizi sui batteri, «a cui non si interessava nessuno», permettevano ricerche economiche e molto rapide. «In poche settimane hai migliaia di generazioni», racconta. «Si vede l’evoluzione all’opera». Cosa non possibile con le popolazioni umane, «altro campo a cui nessuno credeva. Oltretutto non si può sperimentare sugli uomini, se non sei uno scienziato nazista». C’è una cosa, però, che nell’uomo offre un vantaggio sulle altre specie: la Storia. Solo nella val di Parma era possibile ricostruire dagli archivi un’anagrafica pressoché completa e retroattiva di secoli. Inoltre, fin dalla prima guerra mondiale gli stati avevano catalogato i gruppi sanguigni di tutti i coscritti. I dati sulle proteine del sangue abbondavano.
«Restava una difficoltà. È uno studio che richiede molto uso della matematica. La statistica offriva teoremi magnifici, ma richiedevano eserciti di ricercatori per fare i calcoli». Cavalli- Sforza dimostra ancora una volta un tempismo perfetto. Grazie allo sviluppo dell’informatica, ottiene dal ministero «uno dei primi computer a schede perforate, era il 1963, grande come una stanza e infinitamente più lento di un moderno calcolatore». Un lavoro lungo e complesso, ma il cui risultato era una genealogia valida ancora oggi.
Infine, nel 1991, venne lo Human Genome Diversity Project, il più vasto progetto mai concepito di mappatura genetica dell’umanità, un’esplorazione nello spazio e nel tempo senza precedenti, tanto ambizioso quanto contrastato. «Se per il genoma italiano erano bastati tre anni per le autorizzazioni, per Hgdp ne sono occorsi dieci solo per redigere un protocollo etico che garantisse le popolazioni studiate e l’uso strettamente scientifico dei risultati." Nonostante questo, Cavalli-Sforza venne accusato di neocolonialismo e biopirateria. I verdi tedeschi bollarono HGDP come il "progetto vampiro».
«Stupisce che ci sia della gente che si è preoccupata», mi risponde secco quando ne parlo. «La realtà è che non aveva nessun motivo di farlo». In effetti, a eccezione dei Nadenè del Canada, le popolazioni videro nel progetto un’occasione per tenere un registro della loro eredità genetica. In particolare quelle che stavano scomparendo.
Osservo che le ricerche, soprattutto se di grande visibilità, possono venire contrastate per ragioni ideologiche o di potere. «Purtroppo forse fu il caso canadese» conferma Francesco. «Ai tempi il progetto fu combattuto da un’associazione, di bianchi per altro, nata per difendere i diritti degli indiani. Ma gli indiani si difendevano da soli e l’associazione andava male. Con la campagna di protesta riuscirono a ottenere nuovi finanziamenti». I risultati di Hgdp sono diventati un caposaldo di fine millennio, ma quel vuoto nel Canada non è mai stato riempito.
«È impossibile costruire un’idea di razza a partire dalla genetica. È anzi vero il contrario», continua Francesco. «La diversità all’interno di ogni gruppo è sempre molto maggiore di quella tra i diversi gruppi. Si usa dire “diversi ma uguali”». O nello stile sintetico di Cavalli-Sforza: «La purezza della razza è inesistente, impossibile e totalmente indesiderabile».
Il Dna degli italiani, per esempio, è il più ricco e variegato d’Europa. «C’è più diversità tra due paesi contigui del Veneto, o tra due comunità sarde, di quanta ce ne sia tra popolazioni europee molto più distanti. Siamo un meticciato di dozzine di popolazioni. Ancora prima di Greci, Romani ed Etruschi, almeno 50 diversi gruppi abitavano la penisola».
Eppure il mondo è pieno di persone convinte della superiorità di un pigmento. «Il discorso della razza era universale fino a metà del secolo scorso. Quando negli Stati Uniti fecero la leva generale per la Grande Guerra, gli italiani non venivano arruolati perché nei test risultavano a Q.I. zero. Il fatto è che non sapevano leggerli, quei test. Tutti i mediterranei erano mal visti, così come i neri e gli ebrei», racconta Francesco. E ancora oggi, ironizza il padre, «hanno cambiato la parola, ma etnia o razza vogliono dire quasi la stessa cosa».
Uno dei grandi percorsi che ha aperto Cavalli-Sforza è l’evoluzione della cultura. Quando chiese al famoso antropologo Claude Lévi-Strauss perché non la si studiasse, gli rispose: «È troppo complicato». Ma lui la sapeva più lunga, ed entro pochi anni riuscì addirittura a dimostrare come il popolamento dell’Europa sia andato di pari passo con la scoperta dell’agricoltura. «Per la precisione, un chilometro all’anno». “Cultura”, come “Razza”, è una parola pericolosa. È noto che Goebbels, e con lui Hitler, impugnava la pistola al solo sentirne parlare. Anche oggi, così come per le questioni di razza, c’è chi vi oppone “sangue e tradizione”.
Eppure il progresso culturale è la caratteristica primaria di sapiens, ne ha guidato l’evoluzione recente molto più di quanto non abbiano fatto i geni. «Nell’uomo, è senz’altro il fattore dominante», mi dice Luca. Quindi niente più sopravvivenza del più forte? «Essere più colto è più importante della forza. E uno può anche pensare alla sopravvivenza del più furbo, o del più fortunato». Quest’ultima possibilità lo diverte molto.
Siamo lontani da uno studio rigoroso. «In genetica è stato possibile fare progressi quando si è capito cos’era un gene. Per un analogo culturale, dobbiamo mettere a fuoco cos’è il nucleo essenziale della cultura. Questo nucleo sono le idee. Ma cosa sia un’idea non lo sa nessuno. E rispetto al Dna, il sistema nervoso è enormemente più complesso».
«L’importante è saper apprezzare una buona idea. È quella che aiuta a favorire lo sviluppo generale. Anche se le idee che servono per fare soldi possono essere molto interessanti». Un pensiero, quello dell’ex-direttore del dipartimento di Genetica a Stanford, in armonia con il "Do No Evil" di Google e il mito high-tech della vicina Silicon Valley. Ma il professore ha una postilla: «Chi la applica a danno degli altri va preso a pedate nel sedere. O nella pancia».
A questo punto la stanza è attraversata da un vento freddo, seguito da un lampo potentissimo. Le finestre sbattono all’unisono. Nessuno si è accorto delle nuvole che, lentamente, hanno assediato la villa. «Vive ancora a Stanford?» gli chiedo. Qui lui ha l’unico lapsus che ricordi: «Non ci torno dalla fine della guerra». Francesco lo corregge: «È dal 2008, Luca». «Ah sì?». Non sembra dare molta importanza alla distrazione. Scoppia il temporale e Francesco esce dallo studio chiudendo una fila apparentemente infinita di finestre. Restiamo soli, in silenzio.
Sulle librerie abbondano enciclopedie e saggi, oltre a un insolito Guida completa alla tecnologia del Cd. Chiedo se legge romanzi, e risponde, «Difficile mi interessino. Non mi espongo al rischio di perdere tempo. Faccio fare agli altri gli esperimenti». «Da chi si fa consigliare?». «Di solito, da mia moglie». Cerco di scoprire qualcosa sul misterioso ritratto di bambino aristocratico, simile a un famoso Goya, alle nostre spalle. Mi risponde di chiedere a sua moglie. Dimentico che lui è un abusivo. «I soli discorsi che val la pena di affrontare», ha detto in occasione del suo novantesimo compleanno, «sono quelli scientifici. Gli altri sono privi di consistenza». Se gli uomini fossero esprimibili in un concetto, anziché in geni, Cavalli-Sforza sarebbe il pragmatismo.
Quando Francesco torna, pongo una domanda a entrambi: è possibile che, come i geni, alcuni saperi si estinguano? «È possibile», risponde Francesco, «la storia ce lo insegna. Guerre, incendi, la biblioteca di Alessandria, i monasteri medievali...». Parliamo del processo della Chiesa a Galileo, e di Giordano Bruno arso vivo perché sosteneva la possibilità di altri mondi oltre al nostro.
«Tramandare le idee può essere molto difficile. Però, a differenza dei geni, un elemento culturale può essere trasmesso a milioni di persone, e in pochissimo tempo. La diversità delle convinzioni, come la varietà genetica, è indice di buona salute di una popolazione». Francesco fa l’esempio dell’imperatore Federico II, detto stupor mundi, che alla sua corte ospitava saggi arabi e filologi europei, commerciava con gli ebrei come con i cristiani, e «non gli importava un accidente della religione». Alla sua corte, conclude, è nata la lingua italiana.
Mi volto per sapere cosa ne pensa Cavalli-Sforza, ma lui non si cura delle nostre filosofie. Scopro che non solo quel che non riguarda la scienza non lo interessa, ma lo annoia: il professore ha chiuso gli occhi e dorme. È anni luce da noi. La qual cosa mi fa sentire del tutto fuori rotta, e tristemente normale. Nella speranza di non perdere anche il figlio, accenno al fatto che la mappatura genetica ha indicato una strada per trattare malattie come cancro e diabete.
«La questione medica è un sentiero impervio», dice Francesco che ora parla sottovoce. Avrei detto per non disturbare il padre, ma ho come l’impressione che non voglia farsi sentire. Non è più una memoria esterna, la sua visione è, probabilmente, meno dura. Mi parla di medicina alternativa, non esclude l’esempio di Hamer tra le pratiche antitumorali. Qualunque sia la sua intenzione, ne approfitto per una breve fuga dalle responsabilità. Cavalli-Sforza si sveglia e chiede conferma di quel che ha appena sentito: «Una terapia di soli due clisteri al giorno?». Questa volta lo scettico è lui.
Non mi lascio sfuggire l’occasione e proseguo il parallelo tra geni e idee, chiedendo se non esista anche una deriva culturale, o idee cancerogene che si espandono e divorano l’organismo sano del sapere. «Nel primo Novecento abbiamo una rassegna di pessime idee. Il razzismo stesso è un equivoco in malafede». «Se ci mescolassimo liberamente», aggiunge Francesco, «nel giro di 100 anni saremmo tutti dello stesso colore». In questo caso, però, la traccia storica delle migrazioni si diluirebbe fino a perdersi. «Le barriere della lingua, del costume e della religione sono ancora forti. Tutto dipende dal sistema educativo». Francesco critica la scelta francese di proibire il velo islamico a scuola, ma Cavalli-Sforza è di tutt’altro parere.
Padre: «Forzarli è un aiuto che gli danno». Figlio: «Non so se un’imposizione sia d’aiuto». Padre: «Pagare una tassa è un’imposizione». Figlio: «Sì, ma in cambio ottieni dei servizi». Padre: «Poter mandare i bambini a scuola non è un servizio?». Mi godo il dibattito, civile ma serrato. Oso dire: «È possibile che aumenti il contrasto» ma Cavalli-Sforza è perentorio: «Non lo aumenta, lo mantiene». Difficile tenergli testa.
Al paragone con il crocifisso nelle aule scolastiche, gli torna il sorriso: «Non sono diventato un millimetro più cattolico per questo». Sempre pronto a dire come la pensa, sicuro che la massima forma di rispetto sia il dialogo-quasi sempre con la certezza di spuntarla, si direbbe. Sceso tanto in profondità nelle categorie della ragione da averne tratto una massima lapidaria: «Tre cose riassumono la storia dell’umanità: la nascita, il matrimonio e la morte».
Ci alziamo. Chiedo di visitare la biblioteca di famiglia, al piano di sopra. Qui alcuni romanzi li trovo, ma soprattutto ecco il busto di Dino Buzzati e, accanto, il calco della sua mano. Un feticcio che neanche Francesco sembra comprendere. Lungo il corridoio vedo due bei quadri, la madre e la moglie di Cavalli-Sforza, oltre a diverse locandine incorniciate, Il deserto dei tartari, Il Colombre, L’invasione degli orsi in Sicilia...
Scendo le scale. Mi chiedo cosa significhi essere Luigi Luca Cavalli-Sforza. Non solo ha vissuto in grembo alla migliore cultura italiana, ma quella cultura l’ha creata e ne è stato portavoce nel mondo. Mi chiedo cosa significhi essere Francesco Cavalli-Sforza, che da bambino giocava con i fratelli a riconoscere i propri geni recessivi a partire dal sapore dell’anice. Mi accorgo che il mistero, quello che mi fa sentire un estraneo, un vero estraneo, non è la loro fitta rete di storie e genealogie e araldica, né la villa con i suoi affreschi, né le maschere africane, le tele australiane e i paesaggi bucolici. È la distanza siderale tra "loro" e "me", nato e vissuto in una periferia geografica e culturale, indietro anni luce anche quando mi sento spericolato a bordo del mio cervello. Sono vittima del mio stesso razzismo? Cavalli-Sforza disapproverebbe. Mi consola, però, sapere che anche lui si sente un abusivo in casa sua.
Vengo invitato in sala da pranzo per assaggiare un prosecco delle vigne vicine, fatto apposta per la villa. Cavalli-Sforza partecipa, brinda, sorride. Si gode la famiglia e, con l’età, un sollievo dai tanti pesi del mondo. La mia ammirazione è senza fine.