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 2014  novembre 05 Mercoledì calendario

I MERCATI TEMONO GLI SCONTI ARABAI IN USA

Lo shale oil è diventato un’ossessione per i mercati petroliferi, che ormai sembrano concentrarsi solo su quanto accade negli Stati Uniti. È questa l’unica spiegazione possibile per la forte accelerazione al ribasso con cui le quotazioni del barile hanno accolto le ultime mosse dell’Arabia Saudita: in due sedute il petrolio ha perso oltre il 5% toccando ieri un nuovo minimo da quattro anni nel caso del Brent (82,08 $) e da tre anni nel caso del Wti (75,84 $). Ha fatto inoltre la sua ricomparsa il contango, situazione in cui il petrolio per consegna a pronti costa meno di quello a futuri e che di solito è spia di un eccesso di offerta sul mercato.
Dopo aver scontato per mesi il suo greggio, rinfocolando l’ipotesi di una guerra dei prezzi all’interno dell’Opec, Riyadh ha rincarato i listini per dicembre per i clienti asiatici ed europei: i più importanti, perché acquistano circa l’80% delle forniture saudite. Solo negli Stati Uniti, mercato in fin dei conti marginale per Saudi Aramco, la politica di sconti andrà avanti anche il prossimo mese. Ma è su questo mercato – ed esclusivamente su questo – che gli investitori sembrano aver puntato l’attenzione. Per rendersene conto basta leggere i commenti di giornali e analisti d’oltre Oceano, tutti concentrati sul «nuovo taglio dei prezzi» da parte dei sauditi. La reazione sui mercati è venuta di conseguenza. Anche perché i fondi speculativi, un tempo rialzisti ad ogni costo, adesso hanno cambiato partito: l’idea che sembra ormai essersi radicata nella comunità finanziaria è che i prezzi siano condannati a scendere, perché l’offerta ora corre più veloce della domanda. Un bel salto logico, dopo decenni passati ad agitare lo spauracchio del «peak oil», il picco produttivo del petrolio.
Un fondo di verità c’era ieri e c’è oggi: i fondamentali del petrolio, fino a pochi anni fa squilibrati a favore della domanda, adesso pendono dal lato dell’offerta. E la causa principale è davvero lo shale oil, che ha permesso agli Usa di spingere la produzione a 8,7 milioni di barili al giorno, il massimo da trent’anni, attenuando in misura crescente la dipendenza dall’estero. È q questo l’aspetto che (forse) fa paura ai sauditi e che potrebbe spiegare da un lato la volontà di sopportare prezzi bassi, per espellere dal mercato le costose estrazioni da shale, e dall’altro la persistenza degli sconti di listino solo negli Usa: Washington ha in effetti ridotto di un terzo le importazioni di greggio saudita in agosto, ai minimi dal 1988 (di converso i consumi asiatici sono risaliti, per cui c’è meno bisogno di prezzi promozionali).
A insidiare il greggio saudita oltre Atlantico però non è tanto lo shale oil, che non può sostituirlo se non in minima parte, perché molto più leggero: i barili concorrenti vengono semmai da Canada, Venezuela e Messico. E proprio questi due Paesi latinoamericani sono in questi giorni la meta di un viaggio del ministro del Petrolio saudita Ali al Naimi, primo impegno ufficiale dopo due mesi di misteriosa assenza dalle scene. Una coincidenza? Chissà. Venezuela e Messico oggi sono potenze petrolifere al tramonto (e Caracas soffre una crisi gravissima, che l’ha portata sull’orlo del default). Ma è comunque difficile non andare con la mente al 1998, quando con questi due Paesi i sauditi si coordinarono in segreto per rilanciare il prezzo del greggio, dopo che la crisi asiatica l’aveva affondato a 10 $/barile.