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 2014  novembre 04 Martedì calendario

LA VERA STORIA DI GAETANO AZZARITI, L’UOMO CHE ARRIVÒ, GRAZIE ALLA LAVANDERIA DI PALMIRO TOGLIATTI, ALLA PRESIDENZA DELLA SUPREMA CORTE SENZA CHE ALCUNO GLI RINFACCIASSE IL VENTENNIO PASSATO A CONFEZIONARE LEGGI SU MISURA PER IL DUCE E PER LA CACCIA ALL’EBREO. NEL SAGGIO DI MASSIMILIANO BONI «I DOCUMENTI CHE ATTESTANO LA SUA PIENA PARTECIPAZIONE AL PROCESSO DI EDIFICAZIONE DELLA LEGISLAZIONE FASCISTA, COMPRESA QUELLA RAZZIALE»


Cosa ci fa il busto del presidente del Tribunale della razza nel corridoio nobile della Corte costituzionale? È insopportabile, dopo aver letto finalmente un’inchiesta stringente, documentatissima e implacabile sulla vita di Gaetano Azzariti, sapere che un uomo così arrivò, grazie alla lavanderia di Palmiro Togliatti, alla presidenza della Suprema Corte senza che alcuno gli rinfacciasse il ventennio passato a confezionare leggi su misura per il Duce e per la caccia all’ebreo.
Ben 45 libri, saggi e discorsi vari ci sono, nel catalogo delle biblioteche italiane, con Azzariti nel titolo o tra gli autori. Non uno cita la sua devozione fascista e razzista. Così come non ne parlano mai, lo diciamo arrossendo, gli articoli nell’archivio del «Corriere». Mai. Dopo la morte, anzi, l’«Informazione» si spinse a scrivere che con la sua elezione alla Consulta era stata «coronata la carriera di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al trionfo della giustizia e della verità».
Non è così. E lo dimostra un saggio di Massimiliano Boni, consigliere della Corte costituzionale. S’intitola Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale pubblicato dalla rivista «Contemporanea» del Mulino. Un saggio che, documenti alla mano, ricostruisce la vita di Azzariti, dalla nascita a Napoli nel 1881 (nonno, padre e due fratelli magistrati) alla carriera di altissimo burocrate all’ufficio legislativo del ministero della Giustizia che comandò negli anni in cui il fascismo si impossessò dello Stato, dal 1927 al 25 luglio 1943, quando Mussolini fu rovesciato e lui si riciclò come guardasigilli «tecnico» per un mese e mezzo nel governo Badoglio, precipitandosi a concedere l’immediata scarcerazione dei detenuti politici.
C’è chi dirà: furono tanti i giudici che applicarono le leggi fasciste. Vero. E la Repubblica non poteva certo processarli tutti. Ma lui non si limitò ad applicarle: le fece. Come scrive Silvia Falconieri nel libro La legge della razza (Il Mulino, 2012), non bastò proclamare la superiorità della stirpe: la razza divenne «affare dei giuristi». E lì, spiega Boni, fu «necessario selezionare un ceto di chierici che da un lato traducesse in norme e provvedimenti quanto deciso a livello politico, dall’altro fornisse un fondamento teorico al nuovo corpus di norme».
Azzariti è in prima fila: «I documenti attestano la piena partecipazione di Azzariti al processo di edificazione della legislazione fascista, compresa quella razziale». Il Duce se ne fida al punto di promuoverlo nel 1939 alla testa del Tribunale della razza. Un ruolo svolto con zelo fino alla caduta del regime. Lo dimostra un discorso del 28 marzo 1942. Dove si compiace che «l’egualitarismo dominante (…) senza differenza di età di sesso di religione o di razza», non sia più «una specie di dogma indiscutibile»: col fascismo «ora è relegato in soffitta». E afferma che «la diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». Infame.
Non è l’«errore di gioventù» di tanti ragazzi allevati nel culto del Duce. Quando sputa sui diritti inalienabili con la tesi che «nel campo del diritto non esistono “immortali principi”, i quali, del resto, anche fuori del campo giuridico sono ormai morti o agonizzanti», Azzariti è un sessantunenne laureato da quaranta. È il più potente burocrate del ministero. È il capo di quel Tribunale della razza, spiegherà il grande accusatore Raffaele Gioffredi, istituito per «arianizzare», inventandosi una madre adulterina e un padre ariano, «gli israeliti cari al cuore del Duce» o «quelli che più fossero disposti a mollar danaro, ville, gioielli o altre utilità di gran pregio». È insomma in primissima fila tra quanti selezionano chi nel 1943 sarà salvato e chi verrà sommerso dall’Olocausto.
Questo fu, Gaetano Azzariti. Premiato, accusa Boni, anche da una pioggia di prebende: un documento dell’Alto commissario per l’epurazione «riassume l’elenco dei pagamenti a lui effettuati, tra il 1932 e il 1943, ulteriori a quelli percepiti come ordinarie competenze mensili di stipendio e indennità accessorie». Fedele al fascismo sì, ma non gratis…
Come fece, uno così, a uscire indenne dalla caduta del Duce? Per cominciare, spiega Boni, ebbe la «fortuna» che tutti gli atti dei processi del Tribunale della razza, prodigio prodigioso, sparirono. Tutti. A seguire, contando sull’omertà di una rete di rapporti intessuta per decenni, affrontò l’inchiesta truccando le carte. «Ha fatto parte di uffici o commissioni razziali?», chiede il questionario. E lui risponde: «No. Fece però parte di una commissione tecnico-giuridica, composta in prevalenza di magistrati (…) che consentiva di far dichiarare ariane le persone le quali dagli atti dello stato civile risultavano ebree. Parecchie famiglie israelite furono così sottratte ai rigori delle leggi razziali». In poche righe, commenta Boni, «tutto è rovesciato, il nero diventa bianco». «Ha fatto pubblicazioni o conferenze di carattere razziale?». «No». «È stato autore di libri, opuscoli e pubblicazioni in genere, avente anche indirettamente carattere politico?». «No».
«Un documento indirizzato al presidente della Commissione per l’epurazione, datato ottobre 1944», insiste Boni, «descrive Azzariti come componente di una “cricca” (sic) che orbita attorno ai ministri di Grazia e giustizia che si sono succeduti nel ventennio fascista», gli attribuisce «la competenza a “rivedere” e “compilare” tutte le leggi», ricorda la sua ammirazione per il fascismo e la sua presidenza alla «commissione di persecuzione degli ebrei».
Il «parere conclusivo» è duro: il magistrato va messo subito «a riposo». Ma lì, sulla minuta conservata negli archivi, una mano misteriosa scrive: «Non lo ritengo opportuno». Chi lo scrive? Non si saprà mai. La stessa firma in calce alla relazione è cancellata. Sono ignorate anche le denunce del giudice Gioffredi: «Bastava si accennasse qualche idea del provvedimento legislativo repugnante (sic) ai più elementari principi del diritto e della coscienza civile, perché egli la formulasse e riducesse in tanti articoli delle così dette norme giuridiche (…) accompagnandole con relazioni e commenti apologetici che la mano di ogni onesta persona si sarebbe rifiutata di sottoscrivere».
Tutto evapora nel nulla. Gli italiani sono occupati a tornare a vivere. Gli ebrei sopravvissuti devono ancora riprendersi dal trauma. Nei giornali son tanti ad aver la coda di paglia. Ma è Togliatti a dare l’ultima sbiancata alla fedina di Azzariti. Prendendoselo come collaboratore al ministero della Giustizia. Pochi anni e il presidente del Tribunale della razza salirà alla presidenza della Corte costituzionale. Dove ancora oggi c’è quel busto. Che ci ricorda come in Germania, lo racconta il film Vincitori e vinti, i giudici più compromessi col nazismo finirono a Norimberga e da noi al Palazzo della Consulta. E nessuno dice niente?