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 2014  novembre 01 Sabato calendario

IL VERBALE DI NAPOLITANO “LE BOMBE DEL ’93 PER DESTABILIZZARE LO STATO NESSUN CEDIMENTO SUL 41 BIS”

In un verbale di 86 pagine, depositato dalla Corte d’assise, l’audizione del presidente Giorgio Napolitano al processo sulla trattativa Stato-mafia.
Martedì, al Quirinale, il capo dello Stato ha risposto alle domande sulla lettera inviatagli dal consigliere D’Ambrosio, e sulla stagione delle bombe. «A parte il principio di riservatezza ribadito dalla Consulta - ha detto - faccio il massimo sforzo per dare il massimo di trasparenza al mio operato e il massimo di contributo all’amministrazione della giustizia. Certe volte sono su una linea sottile». Napolitano, rispondendo ai pm sulle minacce ricevute nel 1993, dice che «servire il Paese significa anche mettere a rischio la propria vita». E loda i magistrati: «Voi lo sapete meglio di chiunque altro».
La prima parte dell’audizione di Giorgio Napolitano riguarda la lettera che il consigliere giuridico Loris D’Ambrosio gli scrisse due anni fa, prima di morire. In quella lettera D’Ambrosio esprimeva i suoi dubbi sulla stagione 1989-1993. Parlava di «indicibili accordi». I pm di Palermo chiedono al capo dello Stato se abbia mai ricevuto confidenze al proposito dal suo consigliere.
Pm Teresi: «Il rapporto istituzionale con D’Ambrosio sfociò in qualcosa di più personale?» Napolitano: «Il rapporto di affetto e di stima sì, rapporto di carattere personale in senso più ampio o più specifico, no. Francamente io ho seguito una mia regola, che è quella di avere un rapporto schietto ma sempre inteso in termini di rapporto di lavoro da tenere su un binario di lealtà e anche severità. Insomma, non avevo né con il dottor D’Ambrosio, né con altri, conversazioni a ruota libera o ricostruzioni delle nostre esperienze passate. Eravamo una squadra di lavoro (...) Stavamo ogni giorno sulla palla (...)».
«Il consigliere le preannunciò la lettera di dimissioni?».
«Assolutamente no, mi aveva solo trasmesso un senso di grande ansietà e anche un po’ di insofferenza per quello che era accaduto con la pubblicazione delle intercettazioni di telefonate tra lui stesso e il senatore Mancino (...) Era diciamo preso da questa vicenda, era anche un po’ assillato da queste telefonate punto e basta. Poi la lettera per me fu un fulmine a ciel sereno (...)».
«D’Ambrosio le parlò del contributo alla redazione del libro della professoressa Falcone?».
«Mi disse: appena avrò steso il testo glielo farò avere in anteprima, e così fece (...) Conteneva fatti che io ignoravo completamente (...)».
«Dalla lettura del testo non emerge alcun riferimento a timori del dottor D’Ambrosio sul 1989-1993. Eppure, nella lettera a lei inviata, richiamava proprio quel testo. Lei notò la differenza di contenuti tra i due scritti?».
«Di analogo sostanzialmente c’era soltanto lo scrupolo, lo spirito di verità che animava il dottor D’Ambrosio, perché lui in effetti usa in quella lettera un linguaggio forte quando dice: io sono convinto che qualcuno sapeva. Aveva saputo che quel viaggio a Palermo (di Falcone- ndr) sarebbe stato tra gli ultimi. (...) E poi, con eguale quasi drammaticità, egli parla della possibilità, che ad un dato momento sembrò reale, in contrasto con prese di posizione precedenti, di veder nominato a procuratore antimafia il dottor Falcone. (...) Era un uomo che nel suo scrupolo si interrogava molto anche su quello che aveva vissuto. (...) Quindi emergono elementi inquietanti sotto forma di auto interrogativi e di dubbi. E di ciò parlai, mi scrive nella lettera di dimissioni, di ciò ho parlato nella lettera due mesi prima, però in questa lettera accenni agli indicibili accordi non ci sono (...) La differenza è sostanziale rispetto all’articolo scritto, perché in quella lettera c’era un dato di vera e propria esasperazione, era un uomo profondamente scosso, amareggiato perché vedeva mettere in dubbio la sua lealtà di servitore dello Stato. Era una lettera di uomo sconvolto, scritta d’impulso, con l’obiettivo di dimettersi e però sapendo che oramai era dentro un certo tipo di movimento di opinione, chiamiamolo così, o comunque di campagna giornalistica che lo stava ferendo a morte (...). Questa è una lettera che poteva concludersi con le dimissioni se le avessi accettate e poteva concludersi forse anche drammaticamente, dato il grado di enorme tensione, e quindi ad un dato momento con questa lettera lui si libera, si libera senza raccontare quello che probabilmente aveva da raccontare, ma mette l’accento fortemente sul suo tormento, sul suo travaglio (...)».
«Dopo quella lettera ha avuto un’interlocuzione con il dottore D’Ambrosio su questo tema così dilaniante?».
«Non ebbi con lui discussioni sul passato. Era un po’ una regola non scritta, noi dovevamo guardare alle nostre responsabilità giorno per giorno con uno sguardo al futuro piuttosto che al passato (...)».
«Non si è mai pensato dalla pubblica accusa che il consigliere D’Ambrosio fosse minimamente coinvolto».
«Io comprendo benissimo, come dire, il concentrarsi su quelle poche righe e l’interrogarsi sul loro significato, data la drammaticità del tono e anche del contenuto, ed è verissimo perché quando lui scrive: “Lei sa che di ciò ho scritto anche di recente”. Ma come abbiamo detto tutti lì, in quello scritto non parla dell’utile scriba o nemmeno degli accordi indicibili. Solleva degli interrogativi che non sono da poco, (...) rimangono tre righe a cui è difficilissimo dare una interpretazione. Io poi, ripeto, credo che altre personalità che hanno avuto rapporti in quegli anni, come soggetti istituzionali, con D’Ambrosio, possono più facilmente di me essersi fatte delle idee in proposito (...)».
Su domanda dell’avvocato di parte civile del Comune di Palermo, Napolitano conclude poi sulla vicenda D’Ambrosio: «Era amareggiato (...) era un magistrato di tale sapienza e di tale lealtà istituzionale che se lui avesse avuto in mano degli elementi che non fossero solo ipotesi, lui sapeva benissimo qual era il suo dovere, andare all’autorità giudiziaria competente».
IL CARCERE DURO
La procura chiede al presidente Napolitano delle divisioni al vertice delle istituzioni sul carcere duro, dopo le stragi del 1992.
«Ricorda se nell’iter di conversione in legge del decreto che istituiva il 41 bis ci furono dubbi?» «Il clima però era molto, fortemente dominato dalle due tragedie e quindi debbo dire che in quel momento non vi furono, per quel che posso ricordare, distinzioni e contrapposizioni gravi sul da farsi (...). I gruppi parlamentari più forti non avevano dubbi sulla linea».
«Fu unanime la linea di durezza dello Stato?» «Certamente sì, ma poi d’altronde tutti sanno, tutti ricordano che fu talmente forte l’impatto emotivo della strage di Capaci che mentre si stavano prolungando le votazioni per l’elezione del presidente della repubblica, ne venne un forte stimolo direi anche morale a trovare l’intesa necessaria per eleggere senza ulteriori prolungamenti il nuovo presidente».
IL RUOLO DI SCALFARO
Napolitano difende l’ex presidente della repubblica, che secondo i pm avrebbe avuto un ruolo nell’allentamento del 41 bis. «Era stato molto intransigente su tutte le questioni del controllo di legalità e di lotta contro la criminalità, era stato l’autore di uno straordinario discorso in Parlamento dopo la strage di Capaci. L’orientamento generale era di una lotta senza quartiere (...)».
LA STRAGE BORSELLINO
Pm Di Matteo: «Influì in qualche modo l’eccidio del 19 luglio ’92 sull’andamento del dibattito parlamentare sulla conversione in legge del decreto sul 41 bis?» «(...)Sono convinto che la tragedia di via D’Amelio rappresentò un colpo di acceleratore decisivo (...) Ci fu la convinzione che si dovesse assolutamente dare questo segno all’avversario, al nemico mafioso (...)».
IL CASO VIOLANTE
«Fu informato dall’allora presidente della commissione antimafia Violante che Vito Ciancimino aveva chiesto di essere sentito dinanzi alla commissione?» «Sì, ricordo vagamente di sì (...)». Su questo capitolo, al termine dell’udienza, il presidente della corte chiede a Napolitano se Violante lo informò dei contatti fra Ciancimino e Mori. Il capo dello Stato risponde: «No».
LA LETTERA DEI BOSS
«Fu informato della lettera dal contenuto minaccioso inviata da sedicenti parenti di mafiosi al presidente della repubblica?
«Se ne parlò molto sulla stampa, non ricordo di avere avuto mai copia».
«A noi non risulta che la stampa la pubblicò».
LE STRAGI DEL 1993
Pm: «Quali furono ai più alti livelli istituzionali le valutazioni più accreditate sulla matrice delle stragi che avevano scosso il paese?» «(...) La valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di governo in particolare, fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della mafia, si parlava allora in modo particolare dei corleonesi, e in realtà quegli attentati (...) si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante, per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut-aut, perché questi aut-aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico- istituzionale del paese (...). Comunque non ci fu assolutamente sottovalutazione, noi siamo arrivati con la sua domanda ad un periodo che vede Carlo Azeglio Ciampi presidente della Repubblica e Ciampi è tornato molte volte, in più pubblicazioni, su quello che di inquietante presentò quel momento e non soltanto per gli attentati che furono compiuti a Firenze, a Milano, a Roma in modo quasi concomitante. Addirittura citò come particolarmente inquietante l’episodio di un black out al Viminale. Quindi c’era molta vigilanza, molta sensibilità e molta consapevolezza della gravità di questi fatti».
«Lei ha detto che si ipotizzò subito la matrice unitaria e la riconducibilità ad una sorta di aut-aut, di ricatto della mafia, ho capito bene?»
«Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema (...). Probabilmente presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle autorità dello Stato, delle forze dello Stato».
«Lei ricorda se nelle ore successive agli attentati del 28 luglio il presidente del Consiglio Ciampi, anche in esito al momentaneo black out delle linee telefoniche di Palazzo Chigi affermò pubblicamente di avere temuto in quelle ore il verificarsi di un colpo di stato?» «Lo ricordo benissimo. Poteva considerarsi un classico ingrediente di colpo di stato anche del tipo verificatosi in altri paesi lontani dal nostro, questo tentativo di isolare diciamo il cervello operante delle forze dello stato, blocchiamo il governo (...)questo certamente è ciò che aveva in modo particolare impressionato Ciampi e che lo aveva indotto a parlare di qualcosa che poteva essere assimilato a un tentativo o un vago progetto di colpo di stato».
«Il susseguirsi di questi attentati provocò fibrillazione istituzionale molto rilevante?» «Certamente, quando il capo del governo dice che abbiamo rischiato un colpo di stato, se non c’è allora fibrillazione vuol dire che il corpo non risponde a nessuno stimolo».
«Il 10 agosto la Dia inviò un rapporto al ministro Mancino, a firma De Gennaro, con cui legava la probabile causale delle stragi al regime del 41 bis. La misero a conoscenza di questa nota? ».
«Non ricordo... mi pare che ci stiamo allontanando i molti chilometri dal luogo della originaria sollecitazione di una mia testimonianza. E poi davvero un po’ supponendo che io abbia una memoria che farebbe impallidire Pico della Mirandola ricordare ogni elemento, se mi fu data quella nota, francamente non credo di poter rispondere».
L’ALLARME DEL SISMI
«I servizi segreti la informarono di un progetto di attentato nei confronti suoi e del presidente Spadolini?»
«Fui informato, senza vedere carte (...) Il capo della polizia mi informò che c’era questa notizia che i servizi consideravano una notizia da prendere naturalmente con molta cautela, ma non palesemente incredibile (...). Evidentemente era il prolungamento di una strategia di attacco frontale allo Stato (...). C’era un certa unicità di contesto».
Salvo Palazzolo, la Repubblica 1/11/2014