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 2014  ottobre 31 Venerdì calendario

Eduardo il grande, Eduardo il cattivo, Eduardo il dittatore, Eduardo il maestro, Eduardo l’invidioso, Eduardo il generoso, Eduardo gelo e cuore

Eduardo il grande, Eduardo il cattivo, Eduardo il dittatore, Eduardo il maestro, Eduardo l’invidioso, Eduardo il generoso, Eduardo gelo e cuore. A trent’anni dalla morte (31 ottobre 1984) Eduardo De Filippo è rimasto quel che era, una gigantesca figura della cultura italiana del Novecento. Inaugurò il secolo (nato a Napoli nel 1900, era de maggio) nel solco di una tradizione familiare di commedie e farse e vite da scavalcamontagne, che superò con la sua drammaturgia, diventata immediatamente classica, e la sua arte di attore dal gesto concentrato e ieratico. Un monumento. Avendo odiato lui per primo la retorica, non è il caso nel ricordarlo di usarne. Eduardo è Eduardo. CASA SCARPETTA Eduardo, come Peppino e Titina, era figlio illegittimo di Eduardo Scarpetta, autentica star della scrittura teatrale italiana di fine Ottocento, che fu prolifico di opere e di figliolanza, non sempre concepita nel matrimonio. Come appunto i tre, che presero il cognome della madre Luisa, nipote della moglie di Scarpetta, Rosa De Filippo, e che chiamavano il genitore "zio", secondo quanto egli stesso dispose. Scarpetta si prese cura di tutti, il che valse anche per i figli non suoi, come Domenico, nato dalla relazione della moglie nientemeno che con Vittorio Emanuele II re d’Italia. Da uomo di teatro e di mondo, Scarpetta al Teatro Sannazzaro a uno spettatore che gridò al suo indirizzo: "Scarpè tien’e ccorna!", rispose con tutta calma: "…Sì, ma ’e mmie so’ reali!" (notizie da www.eduardoscarpetta.it). Tra i ricordi di Eduardo della sua infanzia a Casa Scarpetta: «Molti pensano che io proponga un teatro in cui descrivo la povera gente, i marginali, le persone che vivono di stenti e di espedienti, perché io sono stato povero; in realtà, io non lo sono mai stato. Andavo a scuola in carrozza». TRE NOZZE E VOLONTE’ Eduardo ebbe una vita sentimentale piuttosto movimentata. «Gli amori. Frenetici e confusi, per le biografie. Seguiti con curiosità speciale e morbosa. Una storia con una giovane di nome Ninì, scambio di poesie, fughe di mezzanotte, dopo le recite. Il matrimonio nel 1928 con l’americana Dorothy Pennington, sciolto nel 1952 a San Marino e a Napoli nel 1955; il divorzio in Italia arriverà solo nel 1970. EDUARDO DE FILIPPO EDUARDO DE FILIPPO Il secondo matrimonio con Thea Prandi nel 1956, la nascita di due figli, Luisella e Luca, la separazione, quindi il divorzio. La morte di Luisella, a nove anni. Il terzo matrimonio con Isabella Quarantotti, ex moglie di Felice Ippolito (scienziato, pioniere dell’industria nucleare italiana e cofondatore del Partito radicale, ndr) nel 1977» (in "Eduardo De Filippo. Scavalcamontagne, cattivo, genio inconsapevole" di Italo Moscati, pubblicato da Ediesse). Coincidenza: in quel 1977 la figlia di Quarantotti e Ippolito, Angelica Ippolito, attrice della compagnia di De Filippo, conobbe Gian Maria Volontè, di cui rimase la compagna fino alla morte di questi. Volontè e Ippolito vissero a Velletri, nella bella casa di campagna appartenuta a Eduardo. Non è necessariamente da ricavare da questa parentela il fatto che Volontè divenne attore sempre più eduardiano, sempre più asciutto, sempre più statuario. Tra i più grandi eredi di Eduardo. MARITO, O MEGLIO: SCAPOLO «No, è inutile che lo aspetti, Thea… È inutile che lo aspetti, il regalino. Non te l’ho portato… E non te l’ho portato non perché me lo sia dimenticato, ma perché proprio non ho voluto portartelo: mi spiego?… Stasera nun è cosa, Thea, nun è cosa… Non mi va… Se dovessimo metterci a sedere tutti insieme, io, stasera, mi metterei a sedere prima di te, perché non mi va di aspettare che ti sei accomodata… Sono uno scostumato? E va bene: sono uno scostumato… Sono un cattivo marito? E va bene: sono un cattivo marito… Anzi, non mi sento nemmeno un marito… Mi sento e mi considero scapolo… E quindi tu devi sentirti e considerarti nubile, hai capito?… Tu, Indro, te la puoi pure sposare…» (da un articolo di Indro Montanelli sul "Corriere della Sera" dell’11 giugno 1959). COPIE E PADRI, VECCHI E NUOVI «Dopo aver imparato dal padre Eduardo Scarpetta il mestiere, ha cercato in ogni modo di dimenticarlo, inventando una drammaturgia in cui i padri erano simbolici, e ha guardato sia a un passato prescarpettiano sia a un presente autorevole e autoritario, rappresentato da Pirandello. Lo ha detto lo stesso Eduardo: "Ricordo che mio padre, Eduardo Scarpetta, mi regalò una scrivania per invogliarmi a ricopiare i testi teatrali, a dieci pagine al giorno. Fu così che copiando commedie, farse e tragedie, a poco a poco finii per capire il taglio di una scena, il ritmo dei dialoghi, la durata giusta per un atto unico, per due, per tre atti". Copiare: qui Eduardo afferma la liceità del furto, in teatro. Carlo Ludovico Bragaglia non perse l’occasione di ricordare un episodio spinoso e controverso a proposito della commedia "Filumena Marturano" e del relativo film che lo stesso Carlo Ludovico avrebbe dovuto dirigere. Il film, secondo la sua versione dei fatti, rimase in forse fino all’ultimo perché un autore argentino rivendicò la paternità della commedia; e Eduardo, che poi sostituì Bragaglia e firmò il film, dovette attendere che la produzione pagasse tutti i diritti d’autore prima del ciak. Dopo l’arte delle copie e delle toppe, Eduardo ha affrontato però l’incontro con un altro padre. L’incontro con lo scrittore siciliano lo convince ad abbandonare l’arte della copia e del furto e gli insegna quella dell’invenzione. "Ma no, figlio, scrivi come le senti le battute, non tradurre", gli diceva Pirandello. Peppino De Filippo, a proposito del "Berretto a sonagli" di Pirandello, ricorda il monologo di Ciampa recitato da Eduardo, che dura "una ventina di minuti e sono argomenti duri, taglienti, dissertazioni che puntualizzano una situazione teatrale altamente umana e sconcertante, seria, con un sottofondo di concetti tragici addirittura". Intanto Peppino, nella parte del commissario Spanò, ascolta e tace; ma è una presenza forte, terribilmente comica, e il pubblico quando lo guarda ride, il che indispettisce Eduardo concentrato nel suo monologo. "Io non respiravo nemmeno", ricorda Peppino, "ma poteva accadere che il pubblico, ostinatamente fisso sulla mia presenza fisica, finisse per interessarsi più al mio più impercettibile movimento traendone divertimento e ciò avrebbe disturbato la recitazione di Eduardo che egli mandava avanti nervosamente tra lunghe e brevi pause. Dovetti decidere, infine, di fare la statua e con le spalle voltate al pubblico attendere la fine del lungo monologo"» (Franca Angelini e Italo Moscati in "Eduardo De Filippo"). DUCE, DUCE, DUCE «Il divorzio definitivo tra i fratelli avviene nell’autunno del ’44 a Napoli, quando Eduardo, Peppino e Titina, che avevano passato la guerra a Roma, tornano a Napoli. Eduardo arriva con una camionetta, facendo l’autostop, con un ufficiale alleato. Si stabiliscono al Diana, stanno provando una commedia. Un giorno, Eduardo era molto nervoso: Peppino stava leggendo il giornale, era distratto durante la prova. Eduardo lo rimprovera. Peppino non tollera il rimprovero, sale su una sedia e comincia ad applaudire dicendo: "Duce, Duce, Duce". La ruggine tra i due era nata per diversi motivi. Eduardo aveva saputo - e non si sa se fosse vero - che Peppino stava per andare a fare la rivista. Intendeva lasciare la compagnia, e non l’aveva detto a suo fratello, al suo capocomico, al suo compagno di scena. C’era poi il desiderio di Eduardo di andare ancora più a Sud, recuperare altre piazze teatrali. Peppino invece per motivi anche sentimentali - aveva una nuova fiamma - voleva rimanere a Roma. Forse c’era addirittura una questione di donne. La donna che era amata da Peppino in quel momento forse piaceva anche ad Eduardo» (Maurizio Giammusso, in "Eduardo De Filippo"). «L’AMORE FRATERNO E’ DA ASILO INFANTILE» «Peppino fa un tentativo, cerca un riavvicinamento, un approccio: scrive, manda degli intermediari. Eduardo gli risponde così: "Caro Peppino, ti pare che dopo quanto è accaduto tra te e me, dopo anni di veleno amarissimo, che ebbero come conclusione la scenata del Vomero - cioè al Teatro Diana - un semplice colpo di spugna può cancellare dal mio animo l’offesa e il risentimento! Tu dici: siamo fratelli; certo, e chi più di me ha saputo affrontare e comprendere questo sentimento? Credi che da estraneo avresti potuto infliggermi le torture morali che sistematicamente, minuto per minuto, mi infliggevi? L’amore fraterno è un sentimento da asilo infantile. Credi a me: fratelli si diventa dopo aver guardato nell’animo di una persona come in uno specchio di acqua limpida e dopo averne scorto il fondo. Scusami, ma io, guardando il tuo animo, il fondo non lo scorgo"» (Maurizio Giammusso, in "Eduardo De Filippo"). L’EPURATORE Ricorda Regina Bianchi, grande interprete di "Filumena Marturano", parte scritta per Titina. «Non esisteva la democrazia e il regista era il capo indiscusso. D’altronde un conduttore di una compagnia privata dev’essere così, deve esistere un capo anche autoritario, altrimenti non funziona niente e gli attori vanno allo sbando. Ricordo che una volta, durante una recita, ritenendo che un attore anziano avesse pronunciato male una battuta gli disse a brutto muso di ripeterla, davanti al pubblico esterrefatto, perché non si doveva recitare così. Non si trattenne, nonostante l’attore avesse i capelli bianchi. Non si preoccupò di fargli fare una brutta figura di fronte agli spettatori. Ma non lo faceva per sadismo. Era il suo modo assoluto di intendere il teatro. Durante una recita mi disse qualcosa che mi ferì moltissimo, facendomi fare una brutta figura col pubblico. Preferisco non parlarne. La nostra "Filumena Marturano" ebbe un grandissimo successo, in Italia e all’estero. In Russia raggiungemmo l’apice della gloria, ma questo per il nostro rapporto fu più un male che un bene. Infatti, quando entravo in scena il pubblico applaudiva con molto calore, e ciò non piaceva a un dittatore come lui. Dopo la Russia non mi richiamò più. Mi epurò, come ha fatto poi con Pupella Maggio e altri interpreti. Mastroianni aveva organizzato per il lancio pubblicitario del film "Le voci di dentro" una festa a Castel Sant’Angelo alla quale aveva invitato tutto il mondo teatrale. Marcello aveva annunciato che avrebbe consegnato una targa a Eduardo, ospite d’onore della serata. Ma lui non venne, forse perché gli era stato fatto involontariamente qualche sgarbo, lasciando nello sconforto il povero Mastroianni"» (in "Eduardo De Filippo"). QUALCHE ALTRO ANEDDOTO DI CATTIVERIA «"Eduardo, vorrei farle un’intervista". Lui si girò piano, piano, mi guardò dall’alto - era più basso di me ma io ebbi questa impressione - con molta attenzione, fisso negli occhi e disse: "Grazie. Quando voglio parlare con i giornalisti li chiamo io". Si voltò e se ne andò». Pirandello nel corso di una lettura alla radio negli anni Trenta Dal PIacere alla Dolce Vita Mondadori Pirandello nel corso di una lettura alla radio negli anni Trenta Dal PIacere alla Dolce Vita Mondadori «Un attore bussa al camerino di Eduardo. Silenzio. Ribussa. Silenzio. Terza, quarta volta. Alla fine: "Chi è?". Dice il nome. "Ah!". "Posso entrare?". "No, sto pensando"». «La storia di quell’altro che si fa coraggio dopo tanti giorni, tanti mesi, tante recite. "Direttore...". "Sì?". "Sa direttore, io tengo famiglia...". "Ah, tenete famiglia? Bene...". "E... vorrei, insomma, una paga... sa, sono quattro stagioni che faccio con voi". "Quattro stagioni? Non vi avevo visto"». «E poi c’è, clamoroso, bellissimo, grandioso, l’aneddoto di quella recita interrotta da Eduardo, il quale si rivolge al pubblico e dice: "Signori spettatori, l’attore qui - non ricordo mai i nomi - l’attore ha sbagliato la battuta; adesso la ridice"». «Sono episodi reali che appartengono alla vita quotidiana, alla storia alla tradizione del teatro, tanto che alcune delle cattive azioni che vengono attribuite a Eduardo hanno un nome preciso nel lessico teatrale della tradizione italiana. Per esempio, quando Eduardo ferma l’attore durante lo spettacolo, immaginate voi come si poteva sentire quel poveretto che non solo ha sbagliato la battuta, ma viene ripreso in pubblico e costretto a ridirla. Bene, questa situazione ha un nome: si chiama "sbiancamento"» (Maurizio Giammusso in "Eduardo De Filippo"). «CON GLI ATTORI NON SI PARLA» La lezione a Giuseppe Patroni Griffi, concisa e tagliente: «Una volta fu lapidario: Peppino, ricordati, con gli attori non si parla. Eduardo era uno che comandava, non metteva mai a parte la compagnia dei suoi progetti artistici, manteneva le distanze ed era, a quanto mi risulta, anche tirato nelle paghe. E adesso invece lo vogliono far passare per un buon padre, pieno di premure. Pupella Maggio l’ha fatta piangere molte volte. E Lina Sastri, che va raccontando di essere una della scuola di Eduardo, in realtà fece soltanto una particina in "Natale in casa Cupiello". Ma quando mai Eduardo si è occupato della Sastri?» (Giuseppe Patroni Griffi, nel decimo anniversario della morte di Eduardo, 1994). CATTIVO, ANZI NO Spiega Vincenzo Salemme, a lungo attore in gioventù nella compagnia di Eduardo: «Vorrei sfatare una leggenda: Eduardo non era cattivo. A volte si arrabbiava, ma la cattiveria è un’altra cosa: è freddezza. Credo che questo falso mito sia stato creato da quegli attori che si sono sentiti un po’ trascurati. Spesso interpreti e addetti ai lavori riversano sull’autore e sul regista le proprie ambizioni e, quando si sentono poco considerati, ne parlano male. Queste leggende nascono anche da una realtà di fondo: quando De Filippo realizzò le sue prime commedie importanti gli attori erano per la maggior parte degli analfabeti. Per tenerli a freno doveva essere duro, anche perché questi erano chiamati a interpretare testi importantissimi e non potevano capire la portata dei capolavori che mettevano in scena. Una volta Eduardo cadde dietro le quinte. Aveva ottant’anni e noi corremmo tutti preoccupatissimi. Ricordo bene quel momento perché credemmo veramente che fosse successa una tragedia. Invece lui ci cacciò dicendo: "Lasciatemi, lasciatemi. Io sono un acrobata, so cadere!". Anche in quel frangente dimostrò tutta la sua fierezza» (in "Eduardo De Filippo"). Questa è invece la grande Valeria Moriconi: «Eduardo era un uomo fuori del normale ed esigeva cose fuori del normale. Lavorava moltissimo e aveva grande rispetto per il teatro. Pretendeva dagli altri lo stesso atteggiamento. Chiedeva a tutti il massimo. Voleva che lo si capisse al volo, odiava i leccapiedi, le persone inutili e, soprattutto, non sopportava le chiacchiere. Spesso si infuriava con attori o addetti ai lavori che a suo giudizio non si impegnavano abbastanza e quindi gli mancavano di rispetto. Era ’cattivo’, se così vogliamo dire, soprattutto con chi usava solo la tecnica. Voleva vedere la fatica, quasi la sofferenza. Quando si arrabbiava era capace di stenderti a terra, ma lo faceva sempre a ragione» (in "Eduardo De Filippo"). CORDIALMENTE ANTIPATICO Scrive La Capria in "Ferito a morte": «Qui siamo tutti troppo simpatici, è una città di simpaticoni la nostra. Io la gente simpatica non la posso sopportare». E cita Eduardo e Totò come napoletani che si compiacevano fuori di scena di essere «cordialmente antipatici». A proposito di Eduardo e Totò, non si può che rimandare alla celebre sistematizzazione compiuta da Beniamino Placido sui due gruppi antropologici viventi sotto il Vesuvio: i turchi napoletani e gli anglo napoletani. Se i primi hanno avuto immortale stilizzazione nel Totò del gran film di Mario Mattoli, da un testo di Scarpetta, cioè Eduardo padre, per gli altri c’è il modello di Eduardo figlio, il più britannico dei partenopei, non a caso amatissimo e rappresentatissimo nel mondo anglosassone ai massimi livelli. KEZICH E IL SENSO DI COLPA «Mai nella mia vita, neanche intervistando Pietro Germi, avevo ricavato da un colloquio un bottino così esiguo. Infatti quando nei giorni che seguirono si trattò di tirar fuori un articolo dai vaghi appunti dell’incontro, mi arresi e rinunciai. Quanto era durato l’incontro? Un quarto d’ora, forse venti minuti. Nel corridoio mi imbattei in un giovane attore della compagnia, che conoscevo, il quale sottovoce mi fece le sue confidenze: "Tutte le sere, quando arrivo in teatro non so come comportarmi. Il fatto è che a qualunque ora lui è già barricato là dentro. Scrive le sue commedie, due per volta, a giorni alterni. Anche se non dice niente, il fatto che è arrivato prima costituisce per noi scritturati un rimprovero permanente". Azzardai: una specie di muta morale? "Proprio così. Eduardo ti fa sempre sentire in colpa. Di solito quando mi affaccio, mi risponde quasi con un ringhio. Ma l’altro giorno, quando non mi sono fatto vivo per paura di interrompere qualche sua importante faccenda, mi ha fulminato con lo sguardo e apostrofato davanti alla compagnia intera: "Qui c’è qualcuno che non si scomoda, mettendo piede in teatro, a salutare il direttore". E allora, ti chiedo, come ci si deve comportare con un uomo così?". Aggiungerò che avviandomi sconfitto all’uscita anch’io non riuscivo a sottrarmi a un senso di colpa; e se ripenso a quell’intervista mancata continuo a sentirmi in colpa quarant’anni dopo» (Tullio Kezich, in "Eduardo De Filippo"). IL MALE DI BENE «Noi, io e Eduardo, fummo dal destino convocati al Palaeur di Roma per un recital di poesia sulla pace. Lì, davanti a 17 mila persone, avemmo un trionfo. Poi nel settembre dell’anno scorso, io sottoscrissi un impegno per le serate di poesia di Firenze e Pisa. E invece Eduardo non è venuto, sono rimasto solo. E mi sento tradito. Non gli voglio più bene. Ecco: dopo aver vissuto tutta una vita d’amore per una persona, all’improvviso scopro che la persona che io credevo la più grande, adesso è la più mediocre. Io ho fatto a pugni e ho preso del sangue in bocca per difenderlo. Ora basta. Per sempre» ("La Nazione" del 5 febbraio 1983). NESSUNA POLEMICA E UNA COMMEDIA ALL’ANNO «Io mi riallaccio a quello che ha detto un mio collega francese: "Il teatro si fa, non si discute". E così ho fatto. Tant’è vero che un critico di Firenze, tanti anni fa, scrisse sul mio conto: "Eduardo non entra in polemica con nessuno, sta zitto. Risponde con una commedia all’anno". Infatti questa era la mia abitudine, scrivere una commedia ogni anno». UNA SPECIE DI MONSIEUR VERDOUX «Prendete Monsieur Verdoux di Chaplin: per lui la famiglia è dedizione, immolazione, sacrificio; in casa è un diligentissimo, educato, tenero, privo di eros. Ma è nello stesso tempo un assassino dalla doppia vita, un libertino, un Don Giovanni che vibra di passione per le carni sfatte delle donne che corteggia e alla fine uccide per disgusto più che per denaro. A prima vista le caratteristiche di Verdoux e il contesto storico risultano lontani dai personaggi di Eduardo e dall’ambientazione in cui agiscono. Eppure i personaggi eduardiani (compresi quelli femminili) hanno qualcosa di Verdoux, qualcosa di nero e cupo nonostante le azioni e soprattutto i dialoghi facciano pensare il contrario. Sono personaggi altrettanto inesorabili anche se non uccidono; sono ugualmente disperati anche se sorridono e fanno sorridere; infine sono tragicamente soli anche se sono in compagnia. Quando parlano, misurano le parole che spesso però sono taglienti come coltelli, ripudiano gesti e comportamenti delle persone che hanno accanto, con le quali sono costretti a vivere in nome dell’affettività. Sono personaggi che mostrano un compatimento che sembra molto vicino al disprezzo, un disprezzo che potrebbe persino far pensare a un desiderio di eliminazione» (Italo Moscati, in "Eduardo De Filippo"). NON SEMBRA NEMMENO ITALIANO «Non sembra un attore italiano, fa venire in mente modelli di altri paesi. E infatti di lui si potrebbe dire, come di Louis Jouvet o di Laurence Olivier, che seppe essere ’cinematografico’ in teatro e ’teatrale’ sullo schermo. Cioè sempre schietto, naturale, diretto; senza rinunciare alle coloriture ardite o al bagaglio di trucchi, insomma pronto a utilizzare con spregiudicatezza e tempestività le risorse del mestiere» (Tullio Kezich per il Piccolo Teatro di Milano, aprile 1985). Kezich cita non a caso Olivier, che a teatro fu interprete e regista di testi eduardiani. Non fu il solo gigante della scena a misurarsi con le sue opere, a testimonianza del rilievo internazionale, dello statuto di "classico" planetario, della sua drammaturgia. Tra i grandi attori che hanno recitato Eduardo, basti citare Ralph Richardson, Ian McKellen, Eli Wallach, Judi Dench... UNO SFOLLATO «Là, sulla scena, nel teatro, so esattamente come muovermi, nella vita sono uno sfollato». PARIOLI, MASTINI E FRIGIDAIRE Riservatissimo, allergico alla mondanità, Eduardo conservava un grande amore per il proprio privato, accudito nelle sue case preziose ma discrete, a sua precisa immagine. Come l’appartamento romano di via Ximenes, ai Parioli: «L’atmosfera della casa di Eduardo De Filippo si potrebbe definire partenopea per quella particolare simbiosi di stile e domesticità, pregio e rappresentanza. L’ambiente era caratterizzato dalla ricchezza e unicità di oggetti e mobili di pregio, collezionati dall’artista in occasione dei numerosi viaggi e tournée all’estero. La casa era abitata da Eduardo e dal figlio Luca. Inoltre nell’appartamento abitava una tata (degno di un personaggio del teatro di Eduardo) e i due amatissimi mastini napoletani: Guaglione e Azzocena. Colpiva il rapporto di Eduardo (di carattere timido e riservato) con i due cani, considerati veri e propri membri della famiglia. I cani erano liberi di circolare ovunque, tra preziosi vasellami, quadri antichi e antiquariato d’ogni genere, senza per questo danneggiare nulla» (Carolina Vaccaro in "Storie di case. Abitare l’Italia del boom", Donzelli editore). Ricorda Liliana Cavani: «Ricordo che andavo volentieri a casa sua. A via Ximenes, ai Parioli, mi ha fatto conoscere gli spaghetti alle vongole dei poveri, come li chiamava lui. Era un piatto delizioso che cucinava utilizzando cipolle e aglio tagliati fini fini che sembrano vongole. Una vera prelibatezza. Non mangiava quasi per niente. Aveva un grande rigore in cucina. Mangiava come un uccellino e teneva moltissimo alla tradizione. Nella sua isola di Isca, tra Capri e Positano, aveva una cucina incredibile, piena di pentole, fatta con mattonelle antiche. Non aveva il frigidaire e usava ancora i blocchi di ghiaccio in un mastello che rompeva con un punteruolo. Diceva sempre che amava le cose semplici di una volta» (in "Eduardo De Filippo"). Non male l’assenza del frigidaire in casa dell’autore delle celebre battuta elettrodomestica (anni sessanta, all’altro capo del filo una segretaria della Rai) tra telefono, tv e frigo: "Pronto? Qui è la televisione", "Un momento, che la metto in comunicazione con il frigidaire". FUITEVENNE, MA NON TROPPO «Se volete fare qualcosa di buono, fuitevenne ‘a Napoli», così disse Eduardo De Filippo. Più che un consiglio, una sferzata alla città, che lui peraltro non abbandonò mai completamente. Non solo perché rimase fonte inestinguibile della sua arte, ma anche perché vi investì materialmente molti dei suoi moltissimi guadagni, nel teatro San Ferdinando. Fece parecchi debiti, ma il debito più grande era quello di riconoscenza verso l’amata-odiata città. Fuitevenne, ma non troppo. LE ALI DELLA TRADIZIONE «La tradizione è la vita che continua, i milioni, i miliardi di punti di partenza che milioni, miliardi di esseri umani lasciano nel morire. Se si usa la vita che continua, la tradizione, nel modo giusto, essa ci può dare le ali». SENATORE SI’, MA CHIAMATEMI EDUARDO Eduardo era impegnato sul fronte delle carceri minorili e in difesa della gioventù emarginata, voleva creare villaggi-comunità dove «questi giovani possano togliersi dalla strada, dalle grinfie della camorra, e imparare un mestiere», e sperava che da senatore della Repubblica avrebbe potuto fare di più contro la burocrazia e le difficoltà che aveva incontrato. Ecco perché accettò la nomina «per altissimi meriti nel campo artistico e letterario» a senatore a vita, nel 1981, per scelta del presidente Pertini. Prese posto tra i banchi della Sinistra indipendente. Così, a chi lo chiamava «senatore», Eduardo rispondeva, spiegando il suo sì: «Ho accettato questa nomina ora, dopo che altre volte me l’avevano proposta, perché purtroppo ci sta gente che non capisce, che ha bisogno dei titoli... Ma per favore, ci ho messo una vita a diventare Eduardo, e voglio essere chiamato così».