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 2014  ottobre 31 Venerdì calendario

GIGI RIVA, 70 ANNI DI SOLITUDINE

Inutile chiamare Gigi Riva in questi giorni che si avvicina il suo 70° compleanno. Anche gli amici di sempre, i compagni di battaglia del Cagliari dello scudetto, Ricky Albertosi, Cesare Poli, Giuseppe Tomasini, a turno hanno provato a far squillare il suo cellulare, «ma Gigi non risponde – dicono in coro –. Sappiamo che sta bene, però non vuole parlare». È uno di quei momenti ciclici di «isolamento, come bisogno di essere me stesso», ha spiegato a suo tempo l’hombre vertical. Il bomber silenzioso che qui a Cagliari, dai bambini delle elementari agli anziani seduti davanti al mare del Poetto, tutti conoscono e chiamano Gigirriva. Una leggenda vivente.

Ma la leggenda Gigirriva comincia molto lontano dall’Isola, tra le nebbie varesine di Leggiuno, il paese dove è nato e dove a nove anni perse il padre Ugo, fresatore in fonderia, ucciso da una scheggia impazzita volata via dalla pressa. Da quel momento per il piccolo Gigi cominciò un traumatico passaggio in ombra per i collegi lombardi. «Il collegio dei poveri non assomiglia e nessun’altra prigione del mondo», ha detto amaro ricordando la «violenza morale» provata in quelle camerate gelide in cui imparò l’arte della fuga che in campo diventerà quella del seminare gli avversari e del dribbling fulmineo a lasciare sul posto il «difensore che mena».

Ma è la vita e quel passato da orfano (la madre Edis morì nel 1964, l’anno che era passato al Cagliari) ad avergli lasciato le cicatrici più profonde: «Le botte dei difensori sono carezze al confronto con le bastonate dei lutti, della solitudine, delle privazioni». Come una canna al vento quel ragazzone partito dai dilettanti del Laveno Mombello ed esploso nel Legnano (serie C), a 19 anni sbarcò nel Cagliari e nell’Isola dei minatori. Allora dal continente non si andava laggiù a fare i “briatori” estivi in Costa Smeralda, «al massimo ci spedivano in punizione militari e carabinieri». Anche Riva, interista e lombardo fino al midollo, affrontò quel primo volo con scalo ad Elmas con l’angoscia dell’esule punito. E invece, quella che ai suoi occhi sembrava un’ingiusta deriva, si rivelò il più dolce degli approdi. «Dal ’64 i sardi nutrirono Riva e lo esaltarono come dettava il loro orgoglio», ha scritto il suo massimo aedo Gianni Brera che pose Luis Riva sul trono con il titolo di “Re Brenno”, per poi elevarlo nell’olimpo degli dei inarrivabili del folber come “Rombo di tuono”. Per i suoi compagni di squadra era la versione calcistica di Paul Newman in “Hud il selvaggio”, per gli esegeti la reincarnazione di Amsicora, l’eroe cartaginese delle rivolte antiromane a cui è intitolato lo stadio del mitico Cagliari dello scudetto, stagione 1969-’70. L’anno magico anche in azzurro per Riva, protagonista della “partita del secolo”, la semifinale mondiale Italia-Germania 4-3. Ma non bastò contro l’invincibile Brasile di Pelè: vicecampione del mondo a Mexico ’70 con Albertosi, Cera, Niccolai, Domenghini e Gori, i cinque fedeli scudieri del Cagliari.

«Dovevo esserci anch’io in Messico, Gigi mi avrebbe portato in spalla», dice Tomasini, il quale saltò per infortunio parte della cavalcata tricolore e il suo posto, anche in Nazionale, lo prese Cera. «È andata così, ma è di Gigi che dobbiamo parlare no?... E allora specie ai più giovani che non l’hanno visto in azione dico che Riva era della razza dei Pelè e dei Maradona. In allenamento come in partita, uno spettacolo di potenza e di classe superiore. Nelle partitelle tra noi erano scambi senza esclusione di colpi, lo preparavo ai duelli con Burgnich, lo portavo al punto giusto di “cattiveria” che puntualmente sfogava alla domenica. Non era mica un Balotelli... Gigi in campo è sempre stato uno che trascinava e ci metteva la faccia, per sé e per i compagni».

Eppure nel mezzo secolo trascorso in Nazionale, Riva ha sempre preso sotto la sua ala protettiva i ragazzi più “difficili”, a partire da Cassano fino a Balotelli. Sperava di portarli sulla retta via, memore dei suoi trascorsi da genio ribelle, al quale il “filosofo”, Manlio Scopigno un giorno disse: «Gigi ricordati, io prima che il tuo allenatore sono un tuo amico». L’allenatore paterno che tollerava la sigaretta di troppo nelle stanze del ritiro, intervenendo con uno spiazzante «quando avete finito di fumare, aprite la finestra». Riva ha corso tanto in campo, ma anche al volante, alla guida della Dino Ferrari o dell’Alfa 1600 da cui Boninsegna quando scese, per il pericolo scampato, andò subito a sottoscrivere un’assicurazione sulla vita. Il “Bonimba” che al traguardo dei 70 c’è arrivato l’anno scorso. il 13 novembre. «Io e Gigi eravamo inseparabili, ma a dividerci ci ha pensato l’Inter. Quell’estate del ’69 mi dissero: “Dobbiamo vendere te o Riva”.

Toccò a me sacrificarmi e non vinsi lo scudetto... Per carità poi mi è andata bene lo stesso, ma a Cagliari sarei rimasto a vita come ha fatto Gigi. Ho sempre ammirato la sua scelta di fedeltà a quella maglia e a quella terra ». Anche la “smisurata preghiera” dei tifosi lo convinse a restare. Così Riva continuò a «viaggiare in direzione ostinata e contraria», proprio come l’amato Fabrizio De Andrè (altro “esule” nell’Isola), del quale ha collezionato tutti i dischi. Via Boninsegna, l’Inter spedì in cambio un terzetto, Poli, Domenghini e Bobo Gori (figlio di ristoratori sardi a Milano) che trascinato dal “Rombo di tuono” si ritrovò incredibilmente scudettato. Angelo Moratti, che da dietro le quinte foraggiava quel Cagliari del presidente Aricca, stravedeva per Riva e ogni Natale gli mandava in dono una sterlina d’oro. La Juve in pressing feroce per averlo, gli faceva trovare un emissario in ogni stadio che gli si presentava dicendo: «Riva, la facciamo una telefonatina a Boniperti?». Ma Riva neppure di fronte ai due miliardi offerti dall’Avvocato si mosse da Cagliari. Non si scompose e disse «no grazie» anche ai 400 milioni di vecchie lire che Zeffirelli gli dava per interpretare San Francesco in “Fratello sole sorella luna”. Idolo delle donne, riamava solo quelle non da copertina. Perciò sorrise e si accese un’altra sigaretta davanti alla tv quando Raffaella Carrà gli cantava con occhi languidi: «Riva classico dio greco in short». «Gigi era così, timido, schivo, rifiutava gli autografi e non lo faceva per cattiveria, ma per via di quel caratteraccio da orso buono. Ma con gli anni è diventato più malleabile», spiega Ricky Albertosi che deve all’intuizione di Riva il lancio esclusivo della maglia colorata. «La prima volta che indossai quella rossa in allenamento Gigi mi disse: “Quando mi esci sui piedi rimango abbagliato, mi confondi, non vedo più la porta”. Di solito, invece, la porta la vedeva eccome. Una volta all’Acqua Acetosa mi stava sparando le solite bordate e dietro la mia porta c’era un raccattapalle. Gli dissi di togliersi che era pericoloso, quello rise: oh un attimo dopo gli arrivò la legnata mancina di Gigi... Lo portarono al pronto soccorso, braccio fratturato in due punti ». Sorride il “vecchio” Ricky che compie 75 anni il 2 novembre e lucida il baffo e gli occhi quando ripensa al passato con il suo «grande amico “sardo”» ai «successi condivisi e a quell’ennesimo e fatale infortunio «subito proprio contro il mio Milan» che mise Riva fuori gioco per sempre. Era il 1° febbraio del ’76 e un affranto Brera vergava dolente: «Ho riudito i lamenti di Garcia Lorca (“que no me dejas veerlo”) per il suo amico Ignacio riverso nell’arena». Meglio tornare a sorridere, per le notti insonni che quelli del Cagliari passavano tra una sigaretta e una mano di poker. Partite tiratissime in cui «Riva era il solito vincente», assicura Tomasini, spettatore della classica smazzata tra Gigi, Ricky, Bobo Gori e Poli. «Metà di quel Cagliari dello scudetto ha seguito l’esempio di Gigi, siamo rimasti a vivere qui nell’Isola – dice Poli –. Così ho avuto la fortuna di conoscere anche fuori dal campo un uomo generoso che ama profondamente la Sardegna e rimarrà per sempre legato al suo popolo». Nel silenzio e la solitudine volontaria di adesso, Riva sicuramente confermerà la sua dichiarazione d’amore fatta a Cagliari: «Ero senza famiglia e ne ho trovate tante. La gente mi è vicina come se andassi ancora in campo. E questa per me è la cosa più bella».