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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

L’ESPRESSO È UNO


[Luigi Vicinanza]

“L’Espresso è uno!”, dice Luigi Vicinanza dopo aver firmato in qualità di direttore responsabile il suo primo numero del magazine di largo Fochetti. Sul vasto tavolo di cristallo le bozze stampate e approvate se ne stanno impilate con sopra quella della copertina, che poi è un fotomontaggio spassoso e perfido dove un candido Matteo Renzi, con un’espressione da chierichetto, esibisce il saluto scout: indice, medio e anulare tesi e uniti, mignolo sotto il pollice ripiegato e palmo in avanti, tutto un simbolismo che indica il-forte-che-protegge-il-più-piccolo e San Giorgio che difende i suoi contro Diocleziano. Il titolone che campeggia è un leggero (ma non per questo meno penoso) calcio negli zebedei: ‘Promesse da Matteo’ che, chissà perché, fa subito pensare alle ‘promesse da marinaio’. All’interno il servizio circostanziato di Marco Damilano su “Un premier, mille impegni presi col Paese. Dalle scuole, all’Irap fino all’articolo 18. Ma solo alcuni sono stati mantenuti. Radiografia dell’azione di Renzi. E delle sue troppe parole”. Se è vero che il buongiorno lo si vede dal mattino, a Palazzo Chigi adesso sanno che, se capitano dalle parti di Largo Fochetti, è meglio che si portino l’ombrello.
Al neo direttore faccio notare che ha esordito nel suo ruolo facendo le bucce al capo del governo. Lui, con stretto sorriso, minimizza: “Perché ‘le bucce’? Questo si chiama fact-checking”. Come se l’utilizzo dell’inglese servisse a rendere meno doloroso l’elenco sulla lavagna dei ‘non fatto’ (sei), meno dubbiosi gli ‘in corso’ (sette) e meno risibili i ‘fatto’ (tre). Avendo capito che non me la bevo, aggiunge: “Credo che un giornale come tale non debba mai mostrare benevolenza a chi governa. Il ruolo di un giornale, e a maggior ragione quello dell’Espresso, è quello di rappresentare la coscienza critica del Paese, a prescindere da chi governa. Ci fosse stato Bersani l’atteggiamento sarebbe stato uguale, anche se probabilmente meno vivace. Sulla lavagna ci sarebbero state meno dichiarazioni e più metafore con giaguari da smacchiare. In ogni caso da parte nostra non c’è né pregiudizio né sudditanza”. Il messaggio, come dicevano una volta alla torre di controllo della Nasa, è arrivato forte e chiaro.
Alle soglie dei suoi sessant’anni (che compirà l’anno prossimo), L’Espresso si trova nel bel mezzo di un rebus che nessuno è stato ancora in grado di risolvere: crollo della pubblicità (il comparto dei newsmagazine in dieci anni -80%!), lettorato cannibalizzato da quotidiani e web e crisi del formato magazine non solo in Italia ma in tutto l’Occidente (si pensi alla catastrofe di Time e Newsweek, due pilastri dei media americani in lenta ma inarrestabile dissoluzione). Con un gesto rapido quanto imprevisto, l’editore Carlo De Benedetti, tramite il suo braccio armato Monica Mondardini, ha chiamato Luigi Vicinanza al letto del malato con un compito ovvio ma nient’affatto semplice: ridare vita a quella che nel suo editoriale inaugurale Vicinanza ha voluto definire “l’icona più immaginifica del giornalismo italiano”, oltre che portatore di una “identità inimitabile”.
Dell’Espresso sappiamo tutto o quasi tutto, visto che ce lo giriamo tra le mani da quando eravamo imberbi e golosi di voci che ci raccontavano cosa c’era dietro quell’Italia palazzinara e ladra, con i servizi segreti che ordivano trame; per non dire delle battaglie sacrosante sui diritti civili come l’interruzione di gravidanza e il divorzio. Di Vicinanza, invece, non sapevamo niente. O poco e niente, salvo il suo successo professionale lento ma inarrestabile. Saliamo dunque fino al decimo piano del palazzone di largo Fochetti scortati da una guardia di sicurezza con tanto di pistolone che gli pende con grazia maliziosa dal cinturone. Pochi minuti d’attesa ed ecco che si presenta Luigi Vicinanza, uno sguardo fondo e una stretta di mano sicura. Vicinanza non ha mai amato parlare di sé, ma ora si sottopone al piccolo supplizio di un’intervista con garbo. Il suo accento campano è impercettibile e la dizione perfetta perde il controllo solo quando deve pronunciare parole come ‘meglio’ (e infatti dice ‘mejo’) ed è travolta quando saluta al telefono un amico: “Uè, c’ammo a vede”.
Ma da dove viene Luigi Vicinanza e come è arrivato al giornalismo? “Sono nato a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, città di Gava, comunisti e grandi navi. Io sono nato nell’anno che Ingrao definì ‘indimenticabile’, quel 1956 in cui si tenne il XX congresso del Pcus, scoppiò la crisi di Suez e l’Ungheria fu invasa dall’esercito sovietico”.
Prima – Veniva da una famiglia di intellettuali?
Luigi Vicinanza Macché! I miei erano piccolo borghesi di provincia.
Prima – Come è arrivato al giornalismo?
L. Vicinanza – Ci sono arrivato giovanissimo, ancora diciottenne. Presi a scrivere per un mensile locale. Ho iniziato lì, in un giornalino fatto da ragazzi. Con me c’erano Matteo Cosenza, Antonio Polito, e altri ancora. Poi passai a un quindicinale. La Voce della Campania, in cui ci aveva lavorato Ennio Simeone e che molti anni dopo fu diretto da Michele Santoro. Con Polito correggevamo le bozze.
Prima – La Voce della Campania era una delle testate foraggiate dal Partito comunista.
L. Vicinanza – A Castellammare o stavi con i Gava o, se volevi manifestare il tuo impegno, dovevi essere comunista. Non c’era una terza via.
Prima – Ma l’ingresso ufficiale nel giornalismo avviene con l’organo di partito, con quell’Unità che a pensarci oggi vien solo voglia di piangere.
L. Vicinanza – Iniziai come corrispondente da Castellammare per l’Unità che aveva all’epoca un’edizione napoletana. Alla fine del ’76, diedi una mano alla Festa nazionale dell’Unità che quell’anno e del tutto insolitamente si tenne a Napoli. Sul palco salirono Maurizio Valenzi, appena eletto sindaco della città, Enrico Berlinguer ed Eduardo De Filippo. Da quel momento cominciai a lavorare come ‘volontario’ (così si veniva chiamati) alla redazione napoletana del giornale.
Prima – Volontario, un modo maramaldesco per significare precario. Ma è arcinoto che la sinistra ha sempre predicato bene e razzolato male. Quando finisce di fare il ‘volontario’?
L. Vicinanza – Divento praticante nell’aprile del ’79 e professionista nell’81, quand’era direttore Alfredo Reichlin. Per molti anni lavoro a Napoli e in redazione mi ritrovo con Rocco Di Blasi, capocronista. Polito, Federico Geremicca, Marco Demarco, Franco Di Mare, Marcella Ciamelli, Maddalena Tulanti. Eravamo tutti ragazzini, più o meno coetanei.
Prima – I ragazzini di allora non erano propriamente ragazzini, avendo ricevuto una preparazione politica e culturale non proprio banale.
L. Vicinanza – È che ti dovevi confrontare con personalità come Carlo Fermariello, Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano e Giorgio Amendola.
Prima – Il che contribuiva a una crescita piuttosto intensa.
L. Vicinanza – E che consentiva a ragazzi di provincia come me. Polito o Marco Demarco di accedere alla professione per merito.
Prima – E non per discendenza.
L. Vicinanza – Né per relazioni.
Prima – Fino a quando rimase a Napoli?
L. Vicinanza – Sono restato una dozzina d’anni, fino all’88.
Prima – Di cosa si occupava?
L. Vicinanza – Politica, lavoro e sindacato, cronaca nera, cronaca giudiziaria. Ricordo ancora un pezzo in cui avevo ricostruito tutti gli errori giudiziari della Procura della Repubblica di Napoli di quegli anni, dalla vicenda Siani a quella di Enzo Tortora, al delitto di Anna Parlato Grimaldi. Tutti grandi casi che o non avevano trovato una soluzione o ne avevano trovate di controverse.
Prima – Finché sale a Roma.
L. Vicinanza – Fu l’allora direttore Gerardo Chiaromonte a chiedermi se volevo andare a fare il caporedattore di notte, un ruolo che tutti schifavano e che io invece non esitai ad accettare. Dopo pochi mesi divenni capo degli interni e rimasi al giornale fino a tutto l’89.
Prima – Altro anno di quelli...
L. Vicinanza – Terribile, con la caduta del muro di Berlino e la svolta della Bolognina. A novembre mi arrivò la proposta di Repubblica di andare a lavorare in cronaca nazionale come caposervizio. Ovviamente accettai. Alcuni colleghi mi guardarono storto. Demarco mi disse: “Ma come? Vai via proprio adesso che cambia tutto?”. Certo, me ne andavo quando cambiava tutto. E quel tutto lo volevo raccontare da un’altra parte.
Prima – Quindi approdò a Piazza Indipendenza?
L. Vicinanza – Ricordo bene la data: il 1° dicembre 1989. Dopo un paio di giorni scoppiò ‘la guerra di Segrate’ e Giampaolo Pansa, allora vice direttore, commentò: “E bravo Vicinanza, hai davvero uno straordinario tempismo! È come se ti fossi iscritto al Partito nazionale fascista il 24 luglio”.
Prima – Guerra di Segrate a parte, di cosa si occupava?
L. Vicinanza – Sono stato prima in cronaca nazionale e poi nell’ufficio centrale fino al ’93, con Eugenio Scalfari direttore. Alla fine del ’93 Scalfari mi chiese se volevo andare a Napoli a dirigerne la redazione che era partita tre anni prima. Io usai la frase idiota che si dice in questi casi: “Direttore, mi dai 24 ore per pensarci su?”. Gianni Rocca, che era presente alla conversazione, mi disse poi: “Non eri proprio credibile. La tua faccia diceva: io sono già lì da ieri”. E così sono tornato a Napoli all’inizio dell’esperienza bassoliniana, forse la stagione felice per la città. Dopo una parentesi di un paio d’anni come vice direttore del Mattino di Napoli con Paolo Graldi e Paolo Gambescia, esperienza peraltro molto interessante, nel 2000 sono tornato a dirigere la redazione napoletana di Repubblica. All’inizio del 2004, Carlo Caracciolo e l’allora direttore editoriale dei giornali locali, Maurizio De Luca, mi chiesero se volevo andare a dirigere La Città di Salerno, che poi era il giornale più piccolo del gruppo. Gli dissi subito di sì.
Prima – Senza prendersi le 24 ore per ‘pensarci su’.
L. Vicinanza Avevo capito che era una fesseria. Mia moglie stupita mi chiese: “Ma mi spieghi perché lasci il primo giornale italiano per un giornale infinitesimamente più piccolo e di provincia?”. Le risposi che avevo 47 anni e una gran voglia di vedere se fossi capace di essere direttore di un giornale, ancorché piccolo di una città piccola. Se non lo facevo allora, quando mai lo avrei più fatto?
Prima – E così mise su casa a Salerno.
L. Vicinanza – Dove sono rimasto fino alla fine del 2006 trascorrendo anni di grande interesse. Poi un giorno mi convocarono d’urgenza a Roma e mi offrirono di andare a dirigere Il Centro di Pescara. E anche lì dissi subito sì. Vi sono rimasto quattro anni, anni cruciali in cui fu arrestato Ottaviano Del Turco e in cui ci fu il terremoto dell’Aquila.
Prima – E anni fenomenali per il giornale che è diventato un punto di racconto non solo locale. Tanto che, se non ricordo male, le hanno dato pure un premio come migliore direttore dell’anno.
L. Vicinanza – In effetti nel 2009 mi hanno riconosciuto come ‘Direttore dell’Anno’ in un premio che organizza la Gazzetta di Parma. Poi nell’estate del 2010 l’editore mi propose l’incarico di direttore editoriale dei giornali locali.
Prima – Com’è il lavoro di direttore editoriale, che poi è l’interfaccia tra l’editore e i direttori in un sistema, come quello della Finegil, che si è andato costruendo su paradigmi condivisi?
L. Vicinanza – In un’Italia che per anni ha parlato a sproposito di federalismo, gli unici ad averlo realizzato siamo stati noi. Quello della Finegil è un sistema federale, dove ogni direttore responsabile è il dominus in casa sua e il direttore editoriale è una figura – e qui non si metta a ridere, ma uso il paragone solo per farmi capire – da presidente della Repubblica, svolgendo cioè una funzione non esecutiva, ma costituendo un elemento di unità.
Prima – Epperò non mi venga a raccontare che il ruolo è solo decorativo.
L. Vicinanza – Certo che no. Pensi che in un anno e mezzo abbiamo cambiato la grafica in tutti i diciotto giornali, introdotto un nuovo sistema editoriale e potenziato il lavoro sul web i cui siti concluderanno il loro rinnovamento ai primi di dicembre. Quel che volevo dirle è che il lavoro di direttore editoriale è quello dell’unità di intenti e dei progetti, dello sviluppo, del coordinamento e dell’esecuzione dei progetti comuni con una serie di iniziative centralizzate per mettere a sistema tutte le nostre forze.
Prima – E (ora è arrivato a dirigere L’Espresso. So di fare una domanda poco educata, ma lei davvero pensa che i magazine abbiano ancora senso?
L. Vicinanza –Secondo me sì.
Prima – Allora provi a convincermi.
L. Vicinanza – Il ragionamento è legato al web. Tutti sappiamo che la rivoluzione digitale sta cambiando le abitudini immergendoci in un flusso continuo. Questa massa di informazioni pone dei problemi seri di ripensamento del prodotto quotidiano non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente. Io sono persuaso che il settimanale in questo momento possa essere la bussola per chi da un lato è sommerso dal flusso e dall’altro ha poco tempo per occuparsi dell’eccessivo rumore di fondo dell’informazione. Se riesci a essere il punto di riferimento del meglio di ciò che è successo in un determinato periodo, allora svolgi un grande, vero, sicuro servizio. Nel mio discorso di insediamento ho usato una formula che suona male, ma che mi pare giusta: da un lato la mensilizzazione del settimanale, con inchieste profonde, pensate come se fossero da mensile, e al contempo e non sembri una contraddizione di quotidianizzazione del settimanale, il momento in cui il lettore trova l’essenziale. Prima – L’Espresso ha una tradizione imponente.
L. Vicinanza – L’anno prossimo festeggia i suoi primi 60 anni.
Prima – Questa grande eredità non rischia di essere un peso?
L. Vicinanza – L’Espresso è L’Espresso. E deve sempre
essere e rimanere quello. È una testata con un tasso di fidelizzazione molto alto, e viene acquistato perché ha un dna molto preciso.
Prima – Però è innegabile che i magazine si stanno misurando con problemi enormi, cannibalizzati dai quotidiani e dal web. La domanda è: lungo quali direttrici lei porta avanti la sua scommessa?
L. Vicinanza – Sarei un pazzo se pensassi che è tutto semplice. Tutto ciò che riguarda il mondo dell’informazione è oggetto di grandi discussioni e chi pensa di avere modelli di business e soluzioni operative è un bugiardo. Tutti sappiamo che il livello di sperimentazione è altissimo. E anche il tasso di mortalità è molto elevato. Su questa premessa chiara a tutti, io credo che il settimanale debba essere un prodotto più snello e più essenziale anche nella foliazione e che deve concentrare la sua attenzione sulle questioni che sono oggi vitali per il nostro Paese: le questioni di politica interna, economica e internazionale, tutt’e tre intrecciate.
Prima – Ricordo che un tempo leggevamo L’Espresso non solo per i contenuti, per le battaglie civili che difendeva, per le inchieste di denuncia che non si leggevano da nessun’altra parte, ma anche per la straordinaria capacità di scrittura dei suoi giornalisti. Lei pensa che la buona scrittura sia ancora un elemento che marca la differenza?
L. Vicinanza – Altroché se fa la differenza! E non solo per L’Espresso. Anche un tweet va scritto bene. La cifra di ognuno di noi è data dal messaggio che comunichi.
Prima – La scrittura ti obbliga anche a una sorta di autodisciplina.
L. Vicinanza – Anche per questo, in questi anni in cui ho ricoperto il ruolo di direttore editoriale, ho tenuto a scrivere almeno un pezzo alla settimana per i giornali Finegil.
Prima – Come sarà il ‘suo’ Espresso?
L. Vicinanza – Ci sarà una selezione più attenta di ciò che può interessare il lettore con due, tre argomenti al massimo. L’altro tentativo su cui sto ragionando è di mescolare le sezioni, le ripartizioni classiche che pur sono state una grande invenzione.
Prima – Ha già in mente un restyling del giornale?
L. Vicinanza – Direi una bugia se le dicessi di sì.
Prima – Parlo in prospettiva.
L. Vicinanza – In prospettiva sì.
Prima – Come si articola L’Espresso on line con L’Espresso cartaceo?
L. Vicinanza – Sia chiaro: L’Espresso è unico, non ce ne sono due. L’Espresso è unico e va articolato secondo tutte le piattaforme a disposizione. Oggi sono queste, ma magari fra due anni ce ne saranno altre. Pensi all’iPad. Solo cinque anni fa non esisteva e oggi è diventato uno strumento, almeno per me, imprescindibile. L’Espresso è uno e noi dobbiamo usare tutte le piattaforme per raggiungere i lettori lì dove sono. L’edicola innanzitutto, pur consapevoli che le abitudini cambiano e che c’è molta gente che si informa e legge in movimento.
Prima – Come tutti, anche voi perdete pubblicità e copie. E i conti economici sono preoccupanti.
L. Vicinanza – Ne ho parlato nel mio discorso di insediamento giovedì 9 ottobre.
Prima – A proposito, come è andato il voto di gradimento?
L. Vicinanza – Ventisei a favore e sei contrari. Che è un ottimo risultato perché l’unanimismo è ipocrita e nasconde problemi.
Prima – Torniamo alla nota dolente dei conti. Cosa ha raccontato ai suoi giornalisti?
L. Vicinanza – Nel capitolo ‘Conti puliti, giornalisti liberi’ ho detto: “Siete convinti con me che un giornale è totalmente libero quando il suo conto economico è sano. Spetta a noi giornalisti occuparci dell’andamento economico? No, ma come avrebbe detto l’indimenticabile Luciano Lama, noi non rappresentiamo una variabile indipendente del processo economico. In tutto il mondo occidentale i giornalisti sono alle prese con il tema vitale della sostenibilità economica dell’azienda per cui lavorano. Abbiamo letto tutti cosa sta accadendo in questi giorni al New York Times: questo non è ovviamente il nostro caso ma non possiamo ignorare lo scenario internazionale. Dunque l’equilibrio dei conti sostiene e giustifica la straordinaria e irripetibile indipendenza dell’Espresso ed è il presupposto della qualità editoriale. Non esiste né indipendenza né qualità in un giornale privo di equilibrio economico”. Poi ho utilizzato un altro concetto: “identità, appartenenza e utilità”, che sono le tre parole chiave per fidelizzare i lettori. La parola ‘identità’ è quella dell’Espresso di cui parlavo prima, l’appartenenza è invece il sentimento che lega i lettori alla testata perché ne condivide le battaglie civili, eccetera, l’utilità è il nostro impegno a realizzare un prodotto giornalistico che sia percepito dai lettori ad alto valore aggiunto.
Prima – Prima di togliere il disturbo una domanda che mi ronza nella testa: cosa le è rimasto del suo passato comunista?
L. Vicinanza – Una storia tragica e gloriosa. Tragica per tutti gli aspetti della vicenda internazionale, gloriosa per quanto riguarda la grande tenuta che il Partito comunista ha assicurato alla democrazia in questo Paese. Se oggi al Quirinale siede un erede di quella tradizione dimostrando di essere uno dei politici che meglio ha retto in una situazione di grave crisi, beh, un motivo ci sarà. In ogni caso, perché le sia chiaro, io non sono più iscritto ad alcun partito da quel lontano 1989.
Prima – Con la Bolognina chiuse con il comunismo e con quel che ne era rimasto.
L. Vicinanza – E sa perché? Perché già con il Pds erano scoppiate le correnti e a me non sapevano a quale iscrivermi. Capii che era giunto il momento giusto per chiudere con quella storia.
Intervista di Daniele Scalise