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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

ALLE ELEZIONI DI MIDTERM DEL 4 NOVEMBRE GLI INDIANI SONO DECISIVI PER LA MAGGIORANZA DI OBAMA AL SENATO. I DEMOCRATICI A CACCIA DELLA RIMONTA NELLE TERRE DEGLI ULTIMI SIOUX

Invece della Cavalleria, i democratici hanno chiamato i Sioux, per cercare di evitare il massacro elettorale in South Dakota. Di tutti i posti possibili proprio qui, nella riserva indiana costruita intorno a Wounded Knee, dove i pellerossa furono vittime dell’ultima carneficina nell’inutile guerra contro le giubbe blu. Eppure adesso i Sioux sono l’ultima speranza per il partito del presidente Obama di difendere questa frontiera dimenticata del West, e con essa la traballante maggioranza al Senato.
Le elezioni Midterm del 4 novembre si giocano tutte sul controllo della Camera alta, che darebbe al Gop la guida assoluta del Congresso. Per conquistarla i repubblicani devono togliere sei seggi ai democratici, senza perderne alcuno. Quello del South Dakota è uno dei primi che hanno puntato, dopo che il senatore in carica Tim Johnson, sopravvissuto ad un ictus, ha deciso di ritirarsi. In corsa per il suo posto ci sono tre candidati: il repubblicano Mike Rounds, in vantaggio secondo gli ultimi rilevamenti; l’ex repubblicano Larry Pressler, che cerca di togliergli voti come indipendente; e il democratico Rick Weiland, che rincorre affannosamente.
Gli indiani rappresentano circa l’1% della popolazione americana, e in genere la politica li ignora. In South Dakota però sono il 9% e potrebbero risultare decisivi, come avevano già fatto sette anni fa proprio a favore di Johnson. Obama ha curato il rapporto con i «native», proponendo di chiudere le loro vertenze con una compensazione complessiva di circa 3 miliardi di dollari, e ora spera di incassare il dividendo politico.
È una ironia della storia che questo conto si debba saldare proprio qui, sulle «Badlands», un tempo regno dei mitici capi Sioux come Toro Seduto, Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa. La prima guerra con loro era scoppiata nel 1862, quando il governo americano aveva ritardato i pagamenti dovuti in base agli accordi firmati. E siccome gli indiani erano rimasti senza i soldi per comprare il cibo, il mercante Andrew Myrick li aveva sfottuti così: «Se proprio hanno fame, mangino l’erba». La seconda guerra era esplosa nel 1876, coinvolgendo anche altre tribù, e fra le sue battaglie c’era stata la sanguinosa sconfitta di Custer a Little Bighorn. Nel 1890 i Sioux erano ormai piegati, eppure il 29 dicembre a Wounded Knee era avvenuto un massacro che ancora oggi sa di vendetta. Il Settimo Cavalleria guidato dal colonnello James Forsyth aveva circondato l’accampamento, e un presunto malinteso con il capo Coyote Nero, che non voleva consegnare il suo fucile, era servito ai soldati come scusa per sparare. Nell’attacco erano morti almeno 150 Sioux, ma secondo alcune stime fino a 300, di cui la maggior parte erano donne e bambini.
Oggi nel catino erboso di Wounded Knee c’è giusto un cartello in metallo che ricorda il massacro, e qualche indiano che cerca di racimolare un po’ di dollari vendendo «dreamcatcher». Il campo del massacro infatti è parte della grande riserva di Pine Ridge, dove oltre il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Bryan Brewer, presidente della Oglala Sioux Tribe, mi accoglie nel suo ufficio con un sorriso e una denuncia: «È passato oltre un secolo, ma gli Stati Uniti continuano a discriminarci. Non onorano i trattati che hanno firmato con noi, e perciò abbiamo deciso di rivolgerci all’arbitrato dell’Onu». Brewer non ce l’ha con Obama: «Se fosse per lui, rispetterebbe gli accordi. Ma il potere su questa materia è nelle mani del Congresso, che invece non ci rispetta. Ad esempio, i soldi dovuti agli indiani in base ai trattati sono considerati spese discrezionali del bilancio, e quindi ogni anno dobbiamo ridiscutere per averli». I repubblicani sono gli avversari: «Bloccano i finanziamenti e poi, siccome temono la risposta alle urne, cercano anche di sopprimere il nostro voto. In molte comunità indiane i seggi distano venti o trenta miglia dalle case della gente, con il risultato che parecchie persone non riescono ad andarci. Noi chiediamo di poter votare per posta o avere seggi satelliti, ma loro si oppongono. La legge, però, non prevede che i cittadini siano tutti uguali? E che fine ha fatto il principio secondo cui ogni testa vale un voto? Così si mette in dubbio la legittimità stessa della democrazia».
Quest’anno, però, il motivo per cui i Sioux sono sul piede di guerra è un altro: «Ci interessa da sempre la difesa dell’ambiente, delle nostre terre ereditate dagli antenati, e temiamo la costruzione dell’oleodotto Keystone». Dovrebbe portare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose del Canada fino in Texas, ma c’è un problema che non riguarda solo il disturbo arrecato agli spiriti delle praterie: «Noi - spiega Brewer - riceviamo l’acqua dal Missouri, tramite un acquedotto che l’oleodotto attraverserebbe in tre punti. Questi impianti hanno perdite frequenti, che quindi ci contaminerebbero. Dobbiamo difendere la nostra acqua». Obama non ha ancora deciso se autorizzare la costruzione del tratto finale di Keystone, che gli indiani osteggiano: «Non può dire no, per non urtare certi interessi, ma non vuole neppure dire sì, perché ciò distruggerebbe la sua eredità di Presidente ambientalista. Quindi passerà la scelta alla prossima amministrazione». Weiland, invece, ha già dichiarato di essere contrario all’oleodotto, e questo gli ha guadagnato l’appoggio dei Sioux: «Stiamo facendo campagna per lui porta a porta. Solo a Pine Ridge ci sono 11.000 elettori, e quindi possiamo fare la differenza, visto che sette anni fa Johnson vinse con un distacco di soli 500 voti».
Se però non andasse così, se i repubblicani prendessero anche la maggioranza al Senato oltre alla Camera, gli indiani hanno già pronta la strategia per rispondere: «Resistenza, pacifica ma determinata. Metterò i miei mocassini sul terreno, per fermare l’oleodotto. E la tribù mi seguirà».
Paolo Mastrolilli, La Stampa 30/10/2014